venerdì 26 novembre 2021

Ai miei tempi ...

 

Inizia immancabilmente così il racconto di una persona non più giovane. Ai miei tempi la mortadella era il prosciutto dei poveri; oggi è roba da buongustai, gourmet, dicono quelli del Gambero Rosso S.p.A.. La zia invece mi faceva il panino con la prosciuttella, perché si sentiva “middle class”, come dicono quelli incapaci di dire “classe media”. A me non garbava la prosciuttella e invidiavo gli altri alunni che a ricreazione addentavano panini con la mortadella, il salame fatto in casa e formaggi saporiti. L’aula e i corridoi odoravano di sapori densi e squisiti fino al termine delle lezioni.

Assolto l’obbligo, approdai in un ambiente urbano e scolastico completamente diverso. Non mi accorsi subito di avere a che fare con i figli di papà, quelli veri. L’ho scopersi poco a poco e vissuto piuttosto bene, sapendo contenere e dissimulare certi disagi. La maggior parte dei miei compagni appartenevano ai ceti privilegiati, con pratiche culturali e sociali specifiche, avevano un atteggiamento rilassato verso il futuro che non era il mio. Erano persone che non facevano lavoretti, neanche durante le vacanze estive.

Vivevano in un quadro familiare diverso, con genitori che avevano una laurea ed esercitavano una lucrosa professione, sovrintendevano ai compiti dei propri figli, eccetera. Se per i miei familiari diventare un insegnante era il Sacro Graal, un lavoro molto desiderabile, già a quei tempi e per quei genitori molto “abbienti” l’obiettivo per i loro figli era altro. Consideravano che diventare un insegnante fosse un ripiego quando non eri riuscito a fare altro nella tua vita. A volte è per tale motivo che si diventa insegnante (io comunque non lo diventai), ma fa comodo pensare che valga per tutti.

Con queste chiacchiere non intendo svelare nulla di nuovo sulla travolgente riproduzione sociale in tutti i settori di questo paese d’ipocriti. Non si venga a raccontare la favola che in democrazia appartenere all’élite è frutto esclusivo del merito personale, intelligenza, impegno, lavoro e non per nascita o appartenenza a una casta. Lo sanno tutti, basta leggere gli organigrammi, pubblici e privati, per evincere legami strettissimi di parentela, di ceppo tribale, d’intreccio matrimoniale. Certo, persone provenienti da contesti proletari o svantaggiati a volte riescono a salire di qualche gradino, tuttavia sono eccezioni che confermano la regola di ieri, di oggi e di sempre.

A dar retta allo stereotipo comune pare che il famoso 1968 sia stato la vittoria dei somari sui bravi studenti. È da allora che la scuola e il ruolo degli insegnanti è progressivamente decaduto. Fosse così semplice. Le ricordiamo le rigidità di quella scuola, il classismo esibito e il tono apertamente clericale e fascista? Con ciò non voglio negare che certi genitori frustrati di oggi s’intromettono nel lavoro degli insegnanti dei loro figli per vendicarsi di quelli della loro giovinezza che davano loro brutti voti perché erano dei ciucci svogliati. Tuttavia queste considerazioni portano fuori tema.

Non fa differenza essere figlio di un chiarissimo professionista o di un’operaia? Abbiamo mai sentito in tv chiedere a una badante il suo parere sulla scuola o sulla riforma fiscale? Forse che i figli di genitori plebei hanno accesso alle scuole migliori, possono permettersi in generale corsi universitari prestigiosi con alte tasse d’iscrizione? La scuola dei futuri dirigenti e quella dei perdenti, meritocrazia per alcuni, disoccupazione e precariato per gli altri, sono forse un’invenzione sociologica? In certi ambienti è molto raro che ci siano persone di origine proletaria, se non come servitori.

Per accedere a un certo tipo di professione, devi affermare la tua competenza, le tue motivazioni e la tua idoneità. Tutte cose difficili da mettere insieme in molte situazioni. Gli studenti plebei si trovano a doversi confrontare con la nota miseria dei loro istituti, con insegnanti vuoi mediocri o non ben motivati, con i problemi delle periferie e di tutte le cose che purtroppo interessano poco e quasi a nessuno, se non per scriverci su un editoriale ogni paio d’anni.

Insomma, non mi pare che dopo mezzo secolo di riforme scolastiche e universitarie le cose siano sostanzialmente cambiate rispetto ai tempi in cui mangiucchiavo il panino con la prosciuttella messo a scongelare sulla stufa di terracotta (ecco, quella effettivamente non c’è più).


8 commenti:

  1. Invece le cose sono cambiate, come del resto si evince dal tuo post. Quello che è cambiato è che ai tuoi tempi i figli dei ricchi andavano nella stessa scuola dei figli dei meno ricchi. Oggi non è più vero. Domandiamoci perché.
    Io ho una spiegazione: la scuola statale italiana era di eccellenza, e suppongo che il merito sia dei massoni che nei primi sessant'anni del Regno d'Italia si diedero da fare per sottrarre l'istruzione al monopolio dei preti. Costruirono una scuola senza rivali al mondo (non l'università, la scuola primaria e secondaria) dove la classe dirigente aveva piacere di mandare i propri rampolli. Per un tempo limitato, anche i rampolli dei meno abbienti si trovarono con le stesse chance di istruzione dei ricchi (chiaro che dovevano poterci entrare, nella scuola, il che non era tanto questione di tasse scolastiche, quanto di possibilità di mandare il figlio a scuola anziché a lavorare). Le scuole private erano per i figli degli abbienti, ma solo quelli testoni.
    Oggi le cose sono cambiate. Quando vedo in televisione qualche esponente politico, qualche imprenditore, qualche uomo di spettacolo (generalmente desinistra) c'è una sola domanda che vorrei rivolgergli: ma i tuoi figli (o i nipoti) dove vanno a scuola? E la risposta sincera sarebbe, invariabilmente: "mica nella scuola statale insieme ai figli dei negri".
    Perché le cose sono cambiate? Non è mica solo questione di immigrazione. La ragione storica principale è che la scuola, che era per gli studenti, è diventata un rimedio alla disoccupazione intellettuale, ossia è diventata per gli insegnanti.

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    1. Ancora una volta mi dispiace darti ragione. Comunque fino a non molti anni fa (ora non so) resisteva ancora qualche buon liceo.

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  2. Ai miei tempi...la Lettera 22, gli Autoradioraduni di Primavera, Fred Buscaglione, le caramelle Life Savers, Silvio Noto, Alighiero Noschese, la Ford Anglia e la Panhard, il registratore Geloso, la Tigre nel Motore, la Fiat 500 con quel maledetto cambio fra i sedili, i Gufi, le batterie da 67,5 V, Angela Davis, Guantanamera, Mary Quant, il Maggiolino VW, Tony Dallara, Linus, il Quindici, la Lambretta, il Ciao, "I have a dream", il Vajont, le foto Polaroid, i Quaderni Piacentini, le pellicole Ferrania, le diapositive, la 600 multipla, l'eskimo, gli occhiali Polaroid...

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    1. Ai miei tempi mi alzavo alle 5.40, doccia e caffè, la prima sigaretta e due autobus, il rapido delle 6.41, la corsa per prendere al volo un altro autobus. Bestemmiare fino a sera. Poco tempo e voglia per il resto.
      Quanto al Vajont, i cadaveri non li ho visti, ma la terra del cimitero “provvisorio” (ossia definitivo) era ancora bagnata. Non posso dimenticare, non avevo ancora dieci anni, una signora che sembrava anziana ma forse non lo era, sulle prime pendici di Longarone la sua casa rimasta intatta, raccontarci la tragedia e la strage. Era il luglio del 1964, in vacanza facevo il bagno nel Piave, ne bevevo l’acqua, Safforze (BL) era un villaggio senza acqua e luce nelle isbe (vedere ora cos’è), le pecore, sul costone del monte passava il trenino a carbone per Calalzo, l’aria tersa dopo la pioggia, le chiocciole, una gondola nell’androne! (ma questa è un’altra storia).

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  3. la divisone del lavoro serve al progresso materiale; e il progresso materiale serve a pace sociale.
    Diceva Draghi l'altro giorno: se fai bene, gli altri ti scelgono. Senza specificare a fare cosa. Tutti virologi dai! D'altra parte non bisogna buttare giù le ambizioni materiali dei poveri proletari: meno Marx leggete e più vi sceglieranno.

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