domenica 31 ottobre 2021

[...]

 


Anche la plebe può permettersi di sedere al Caffè Quadri ...


... la vera élite consuma il gelato in panchina.



Ma che cosa gli sta ... ?


È sempre il più bello.






L'ultima tintarella.




Chi si sposa è felice una settimana.
Chi uccide il maiale è felice un mese.
Chi impara a pescare è felice tutta la vita.
(Saggezza cinese)

La Juve ha perso di nuovo


La Conference of Parties (COP26), summit internazionale sul clima, che si apre oggi a Glasgow, è considerata dagli inguaribili ottimisti come “l’ultima possibilità”. Nella migliore delle ipotesi porterà a un ennesimo accordo, un altro protocollo, che nessuno rispetterà, come i precedenti.

Quello che c’è di buono con la COP è che i partecipanti viaggiano: da Berlino a Marrakech, da Kyoto a Madrid, da Bali a Parigi, da Cancun a Copenaghen, da Pechino a Vattelappesca. E alloggiano in ottimi alberghi, fanno nuove conoscenze e intrecciano relazioni. Non ricordo come si chiama ‘sta roba in inglese, ma dalle mie parti si dice “far buseta e botton a sbafo”.

Le Conference of Parties si svolgono una volta l’anno, spesso nelle suggestioni d’autunno. Le chiacchiere, che chiamano lavori, occupano lo spazio mediatico per alcuni giorni, prima di svanire nel dimenticatoio fino alla successiva rimpatriata. Nel frattempo, gli eventi climatici estremi aumentano: incendi, inondazioni, siccità, ecc.. Si accolgono con favore i pochi timidi avanzamenti che portano a un accordo – come a Kyoto e a Parigi – o che finiscono in un fiasco – come a Copenaghen nel 2009 – ma tutto ciò non cambia in definitiva il corso degli eventi climatici.

Quasi trent’anni di conferenze, di attese sul clima, di accordi firmati e non ratificati, di “vittorie storiche”, di “ultime possibilità”, di “abbiamo salvato il pianeta”, di neolingua piena di sigle e arroganza. Tutto basato sul “principio di comuni ma differenziate responsabilità”, tenuto conto, leggo, delle “contrapposizioni molto profonde, [che] non sembra possibile riconciliarle in seno alle Nazioni Unite al momento”. Vuol dire in sostanza che ognuno poi fa un po’ come gli pare e viene.

Se poi, mentre le portaerei solcano il Mar Cinese, sentite parlare di “nuovi modelli di governance globale”, allora potete star sicuri che stanno studiando il modo per metterselo in culo (si può dire?) l’un l’altro.

Dal 1995, data ufficiale della prima COP, a Berlino, a quella di Glasgow, sono passati più di venticinque anni. Bilancio? Secondo l’ultima valutazione delle Nazioni Unite, pubblicata a metà settembre, il mondo si sta sicuramente avviando verso il riscaldamento catastrofico di 2,7°C entro la fine del secolo, mentre si vuole a tutti i costi favorire lo “sviluppo sostenibile” entro le coordinate predatorie del capitalismo, vale a dire di un modo di produzione che ha come scopo precipuo, anzi assoluto, il profitto. Intanto la mano invisibile (?) del mercato accarezza le zone erogene di apologeti e azionisti, e l’altra mano (questa sì più invisibile) riempie i loro portafogli.

Spendono somme enormi in attività di lobbying e comunicazione per trasformare la crisi climatica in una “opportunità”. La comunicazione è centrale nella strategia di marketing, ovvio. Punta a modificare intimamente il modo in cui parliamo, pensiamo e sogniamo, per essere pronti a credere a qualsiasi cosa, a ingoiare qualsiasi schifezza e credere a ogni sciocchezza. Fanno quello che vogliono, ci svuotano il cervello e il portafoglio. Soprattutto ti fanno credere, mentre stai affogando, che non può esistere mondo migliore di questo, che il peggio del capitalismo è sempre meglio di qualsiasi alternativa che non contempli il ruolo centrale e assoluto del capitale.

In breve, abbiamo molto di cui aver paura. E anche la paura fa parte del loro gioco. Il capitalismo forse durerà fino alla catastrofe senza ritorno, ma noi, chi ci salverà? Senza un radicale cambiamento della nostra società, che non riguardi solo la redistribuzione della ricchezza ma il modo in cui è prodotta, la cosiddetta “transizione ecologica” non avrà alcun effetto pratico né sull’inquinamento né su questioni d’ordine sociale. 

sabato 30 ottobre 2021

Perché il riformismo non può che fallire

 


In gergo queste "notizie" si chiamavano marchette.

Biden è arrivato a Roma, una colonna di ben 85 automezzi l’ha accompagnato in città. Neanche Cleopatra nel film di Mankiewicz.

Appena diventato presidente, Joe Biden aveva firmato un decreto sulla prevenzione delle discriminazioni basate sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale. Gli atleti trans devono avere almeno un anno di trattamento ormonale per competere in una categoria femminile. Inoltre, dopo la bianchezza monolitica e l’assolutismo maschile dell’amministrazione Trump, Biden ha scelto un gabinetto di alti funzionari e consiglieri di impeccabile eterogeneità (c’è pure Rachel L. Levine, transgender). Sono riforme anche queste, ora la “sinistra” può stare tranquilla per quattro anni e rinviare la rivoluzione (?) a data da destinarsi. 

venerdì 29 ottobre 2021

Il gene del dubbio

 

La lobby degli LGBT è molto arrabbiata. Dovranno prendere atto che per il momento certe espressioni non sono reato, e anche del fatto che della omotransfobia non frega realmente a nessuno se non agli interessati e a chi “si sente vicino a loro”. Leggo: “Scopri da dove ha origine questa inspiegabile paura che non permette alla società contemporanea di andare avanti”. Perbacco, contessa, è per questo motivo che siamo di fronte a una situazione politica, economica e sociale che rischia di esplodere!

Michel Foucault è stato capovolto. Si può fare e dire di tutto, se gli LGBT e lo sciame di locuste militanti non si oppongono (più con postura opportunistica che convinzione). È un paradosso, ma possiamo vantare una versatilità acquisita per i paradossi politicamente corretti. Crediamo di eliminare una discriminazione, mentre con misure ideologiche ne stiamo introducendo una nuova.

Non si tratta di “paura degli omosessuali e dei transessuali”, stiano tranquilli. A quel terzo di pensionati che stanno sotto i 1000 euro e spesso ben più sotto, per citare una categoria di sopravviventi, non interessa minimamente chi s’incula chi, tanto per dirla in termini schietti e ancora legali. Impossibile negare che esista un problema anche per quanto riguarda queste questioni, fenomeni di discriminazione e di violenza, tuttavia sta roba è agitata strumentalmente dagli uni e dagli altri per ragioni politiche, e comunque non sarà con una legge che si potrà “sensibilizzare la società”, aver ragione di certi retaggi, eccetera.

Dico che la questione è agitata dagli uni e dagli altri avamposti politici poiché il parlamento non ha altro di cui occuparsi (in attesa d’azzuffarsi per mandare “chicchessia”, direbbe Totò, al Quirinale), posto che a governare e comandare ci pensano “tecnici” e “scienziati”. Se proprio ci tengono, dovrebbero preoccuparsi dei cacciatori di geni gay, i “ricercatori” che cercano di collegare l’omosessualità a fattori genetici. Il gene frocio non l’hanno ancora trovato, ma non disperano.

Un giorno, gli “scienziati” affermano di aver identificato l’omosessualità su una certa parte del cromosoma; il giorno dopo, altri di averlo riconosciuto su un altro pezzo di dna. Questo lavoro è svolto principalmente negli Stati Uniti, dove è normale cercare i geni per qualsiasi cosa, e per fortuna che non va più di moda la caccia al gene comunista.

Dovrebbe preoccupare di più la “sensibile società” politica che persone portatrici di “dubbio” siano ormai considerate come soggetti “pericolosi”, da tenere sotto controllo e a distanza. Non mi riferisco solo alle persone che, pur legittimamente e per vari motivi, non vogliono farsi iniettare il vaccino, bensì, per esempio, a chi mette in dubbio che le misure di “contenimento” finora adottate per il covid siano realmente efficaci quando non semplicemente ridicole e demenziali.

L’eresia insopportabile degli altri, di chi sostiene che le leggi di natura non vanno combattute bensì assecondate per trarle, quando è possibile, a proprio vantaggio, tenuto conto che, come diceva uno con gli occhi a mandorla (si può dire o è discriminatorio?), una pandemia non è un pranzo di gala. Sollevare dubbi, dire certe cose, non è udibile, tantomeno in tv e sui giornali.


giovedì 28 ottobre 2021

Guerra e pace

 

Da molti anni ho perso il bisogno di leggere romanzi. Non è un bene, certo. Leggere certi romanzetti odierni ti fa venire voglia di uccidere i gattini e mangiare i bambini. Per questo motivo di solito preferisco leggere saggi di storia, economia, perfino di filosofia (ci capirò poi qualcosa?) e però anche i diari e le cronache d’intrepidi viaggiatori, quando ci volevano almeno tre giorni per andare da una città all’altra e mesi per raggiungere un nuovo continente tra pericoli continui e di ogni sorta. Viaggiare da fermi e respirare le molteplici vite immaginate.

Ogni tanto, però, poso gli occhi sui tesori sepolti negli scaffali. Non credo sia il caso di mettere in fila un certo numero di nomi altisonanti, dico solo che nella cambusa c’è anche parecchia letteratura russo-sovietica, di case editrici inghiottite dall’oblio e che avevano una propria unità produttiva (*).

Ciò che caratterizza la maggior parte di questi classici della letteratura è l’aver avuto per ciascuno di noi il loro momento di celebrità, di passione, giuramenti d’amore eterno in seguito traditi e quasi dimenticati. Appartengono alla categoria delle opere che hanno segnato un anno, e poi sono sopravvissute negli angoli più riposti delle nostre librerie domestiche, libri tra loro uniti dalla memoria, silenziosi e discreti. Com’era già successo ai nostri genitori e forse ai nostri nonni.

Da qualche sera mi diletto nel leggere alcune pagine di Guerra e pace. È un’opera meravigliosa, lo sappiamo, non ho bisogno di convincere nessuno a leggere Tolstoj. Poco più di mezzo secolo fa, chiesi in biblioteca i tre volumetti del romanzo tolstoiano. Quando una dozzina di giorni dopo li riconsegnai, la bibliotecaria mi disse che non mi avrebbe più prestato nulla. Perché mai? Rispose seccata che i libri dovevo leggerli, non solo prenderli a prestito.

Oggi rileggo Guerra e pace con più calma, non devo rincorrere freneticamente i personaggi che danno vita a uno dei capolavori della letteratura moderna: il bonario Pierre Bezukhov e il suo eccesso di timidezza; sua moglie, l’affascinate e spregiudicata Hélène Kuragin; il principe Bolkonskij e Natascia Rostov, che al ballo di capodanno raggiunge il “grado supremo di felicità”; un gala con storioni, caviale e vini francesi, quindi la residenza di campagna di Otradnoe, i paesaggi incantati.

Può essere letto come un manuale completo di psicologia, di vite fatte di nulla, ma un nulla scintillante che affeziona il lettore allontanandolo per un po’ dal suo mondo banale di costrizioni. Il tutto velato di malinconia, che è spesso il prezzo dell’ozio. E naturalmente l’Armée napoleonica che avanza, l’incendio di Mosca, la disastrosa ritirata, cipria e lustrini mischiarti con polvere da sparo. E così via fin verso la fine, quando si legge:

«Per la storia affermare la libertà degli uomini come una forza capace di influenzare gli avvenimenti storici, e quindi non soggetta a leggi, sarebbe come per l’astronomia affermare la libertà di movimento dei corpi celesti».

Come potevo allora spiegare all’antica bibliotecaria, zitellona, incarognita e con una gran voglia di brontolare, che due degli epicentri del grande romanzo tolstoiano, vale a dire il racconto avvincente delle battaglie di Austerlitz e di Borodino, descritte mirabilmente e minuziosamente, non poteva essere interrotto per poi riprendere nei giorni successivi, ma andava consumato in un unico lungo sorso, dunque che una dozzina di giorni erano bastati per bermi tutta la damigiana tolstoiana?

Con gli occhi di oggi, mi sembra che Tolstoj offra al lettore un ritratto di Napoleone troppo somigliante e aderente allo stereotipo dei suoi più accesi detrattori. A ogni modo ha ragione quando scrive: «È solo a posteriori che gli storici hanno applicato ai fatti compiuti i loro cervellotici argomenti per dimostrare la preveggenza e genialità dei condottieri, i quali invece fra tutti gli strumenti involontari degli eventi mondiali furono gli attori più servili e involontari».

Luigi Mascilli Migliorini, nella sua nota biografia napoleonica, cita en passant questa considerazione di Tolstoj, ma a mio avviso avrebbe fatto bene nel riportarla testualmente per rendere meglio la valenza della concezione tolstojana relativamente alle vicende storiche in generale e non solo a riferimento di quelle due epiche battaglie.

Tolstoj è stato uno scrittore critico del socialismo e del marxismo, legato all’ideale della società contadina russa, soggiogata e schiava della nobiltà, ma aveva anche denunciato la divisione sociale del lavoro che soffoca la creatività e umilia la dignità umana, definendo però il lavoro agricolo come “espressione della legge dell’amore”. Ai grandi artisti si può e si deve perdonare molto, tanto più se si tiene conto del contesto storico e della condizione personale nella quale l’artista viene ad esporre le sue idee.

Marx lesse Tolstoj? Quando Marx decise di conoscere meglio la situazione economica e sociale della Russia, decise di accedere a questa lingua attraverso l’Eugenio Onegin di Puskin e un libro di Memorie di Herzen (autore che però gli riusciva antipatico). La sua conoscenza del russo non fu mai approfondita, tuttavia sufficiente per leggere studi di economia e di statistica in russo, e per formarsi una biblioteca di testi russi che arrivò a 120-200 titoli.

Tra queste opere erano compresi Saltykov-edrin (se non l’avete ancora letto, affrettatevi), Gogol’, Turgenev, Lermontov, ernyevskij, eccetera. Nelle sue opere e nella sua corrispondenza non vi è traccia di Tolstoj. Un vero peccato.

Rosa Luxemburg adorava Tolstoj, anche Lenin aveva un’alta considerazione dello scrittore (gli piacevano di più echov e Dostoevskij), tuttavia, pur valutandone positivamente il lato artistico-letterario, in un articolo del 1911, scriveva:

«Un quarto di secolo fa, gli elementi critici della dottrina tolstojana potevano a volte essere utili, nella pratica, a certi strati della popolazione, nonostante i tratti reazionari e utopici del tolstojsmo. Nel corso degli ultimi anni, mettiamo, dell’ultimo decennio, non poteva essere così, perché lo sviluppo storico ha fatto un passo in avanti considerevole dagli anni Ottanta alla fine del XIX secolo. [...] Ai giorni nostri, ogni tentativo di idealizzare la dottrina di Tolstoj, di giustificare o di raddolcire la sua “non-resistenza”, i suoi appelli allo “Spirito”, il suo sermone d’”autoperfezionamento morale”, la sua dottrina della “coscienza” e dell’”amore” universale, la sua omelia dell’ascetismo e del quietismo ecc., è assai direttamente e assai profondamente nociva».

Penso che leggerò La verità su mio padre, scritto dal figlio, Lev L'voviTolstoj.

(*) Erano le pecore a vestire le edizioni più pregiate (gli amanti degli animali apprezzeranno); gli artigiani di un’arte ormai quasi scomparsa provvedevano alla rilegatura, alle carte posteriori e il decalco dorato a 195° C, ossia l’incisione in oro di titoli e nomi, i segnalibri in seta intrecciata, eccetera. Alcune delle fasi non complementari della produzione d’un libro, dove eccelle la chiarezza di gesti ben qualificati.

mercoledì 27 ottobre 2021

[...]

 


Bastava le rispondesse:
"Se io scrivessi che sei una lesbica? ".


Dux, ducis, sostantivo (III declinazione)

Quando l'acqua salirà alla gola

 

La plastica, come potremmo farne a meno? Più di ogni altro prodotto industriale la plastica racconta la verità del nostro mondo contemporaneo, anche l’assuefazione all’avvelenamento.

Gli umani hanno vissuto decine di migliaia di anni senza plastica e altri materiali della sintesi chimica, e malgrado ciò hanno prodotto cose meravigliose, ma poi in un paio di generazioni la plastica è diventata dominatrice incontrastata: contenitori di ogni tipo, vestiario, pellicola trasparente, spazzolini da denti, colle e vernici, dischi, mobili molto comuni, preservativi, giocattoli affascinanti, mute, coltelli, borse e sacchetti, tubi, tetti e finestre, carte di credito, e migliaia di altri impieghi (*).

Si calcola che siano prodotte annualmente oltre 400 milioni di tonnellate di plastica derivata principalmente dal petrolio. In una società avanzata come la nostra, le plastiche non possono essere sostituite totalmente con altri materiali, che peraltro difettano per un uso altrettanto largo ed economicamente conveniente; vi sono però migliaia di oggetti di plastica che non avrebbero ragione di essere prodotti, e molti altri potrebbero essere realizzati con materiali alternativi.

Che cosa succede ai relativi rifiuti? La plastica invecchiando emette, anche in piccole quantità, dei veleni come la diossina. Quando la plastica finisce in mare o nei fiumi è un altro disastro. Nell’interrarla in discarica, fenomeni di degradazione, interazione e migrazione portano molecole tossiche nelle falde idriche sotterranee. La permanenza di un accendino di plastica è di cento anni, una borsa quattrocentocinquanta. Un bancomat? Dieci secoli, anche se con conto in rosso.

Fino al 2018 la Cina era la discarica compiacente del mondo. Riceveva 7-9 milioni di tonnellate riciclandole in oggetti di plastica multicolori a bassissimo costo, ma da quell’anno ha chiuso i suoi confini costringendo l’Occidente verso altri paesi asiatici e l’Africa, ma solo per la plastica di bassa qualità mista ad altri rifiuti. Per esempio la plastica statunitense può vantare un circuito che la porta in undici dei paesi più poveri del mondo, tra cui Etiopia, Ghana, Kenya e Senegal. Il Senegal “importa” tonnellate di rifiuti non riciclabili dai paesi del nord. Delle 200.000 tonnellate di plastica prodotte dal riciclo ogni anno in Senegal, 191.000 tonnellate finiscono in acqua dolce o salata. Producono sul posto, buttano sul posto.

Gli Stati, le organizzazioni internazionali, sotto la spinta dei movimenti d’opinione, possono raggiungere, attraverso la regolamentazione e gli accordi multilaterali, alcuni risultati in materia di inquinamento ambientale, in una certa misura anche per quanto riguarda lo sfruttamento e la dissipazione delle risorse naturali. Si tratta di problemi che andrebbero affrontati per la loro gigantesca dimensione e interdipendenza sul piano globale, senza semplicismi come quello di scaricare la colpa su paesi asiatici dai quali importiamo di tutto: guardiamo i nostri bidoni traboccanti di articoli di plastica e quant’altro.

Però i dati sono impietosi: dagli anni Cinquanta sono stati prodotti 9,2 miliardi di tonnellate di plastica e non più del 10% è stato riciclato. Del resto il riciclaggio non è la soluzione quando le quantità prodotte aumentano sempre di più. Stiamo passando da 438 milioni di tonnellate nel 2017 a probabilmente 600 milioni di tonnellate nel 2025. La nostra società, piacevolmente ridipinta di verde, si distingue dalle precedenti per la produzione di molti oggetti inutili e consumi eccessivi.

La brutale realtà è che non ci sono soluzioni a portata di mano. Come per gli altri temi dell’inquinamento e del cambiamento climatico le soluzioni sono precluse dal carattere stesso del modo di produzione capitalistico (qual è lo scopo precipuo di un tale sistema economico?) e dalle contrapposizioni geopolitiche. Non basta “ridurre” le emissioni e la quantità dei rifiuti. Bisogna prendere coscienza delle cause reali che stanno a monte dei problemi e agire di conseguenza. Già questo fatto è ostacolato dalle nostre resistenze al cambiamento e dalla continua attività degli intossicatori professionali della tv e dei giornali, degli “ambientalisti” e di tutto il circo dei “riformatori”.

Quando l’acqua salirà di livello, quando dal culo arriverà alla gola, allora forse di necessità faremo virtù. Sarà troppo tardi.

(*) Il suo grande antenato è la bachelite, dal nome del suo inventore, il belga Leo Baekeland. Nel 1905, cercando altro, riesce a sintetizzare il primo materiale completamente sintetico, una resina fenolica che presto si ritroverà in telefoni, macinacaffè, penne, gioielli, giocattoli, ecc.. Molti di questi oggetti sono diventati di culto e valgono un po’ di soldi. Anche nei fucili d’assalto AKM e AK47 c’è bakelite (impugnature, caricatori, ecc.). Quei fucili sono tenuti in gran pregio in ambienti vintage del Vicino e Medio Oriente.

Poi vennero i polimeri termoplastici, catene lineari di macromolecole. Il tedesco Otto Röhm riesce nell’impresa di sintetizzare nel 1927 il polimetilmetacrilato (Acrylglas), che sarà conosciuto con il nome di Plexiglas. Arriva nel 1954, grazie a Giulio Natta e al catalizzatore di Karl Ziegler, l’utilizzo del polipropilene isotattico, destinato a cambiare la vita di tutti noi per le sue molteplici applicazioni.

Seguono a valanga i brevetti nella guerra tra Imperial Chemical Industries, DuPont, Dow Chemical e BASF. In pochi anni il mondo si ritrova afflitto da polistirene, polivinilcloruro (il killer degli operai di Marghera), polietilene (miliardi di sacchetti di plastica), poliammidi, poliuretani, politetrafluoroetilene (il teflon, che fu impiegato per la sua completa inerzia chimica anche nella costruzione della prima bomba atomica), polietilene tereftalato (pellicole cinematografiche), policarbonato. Altri ne seguirono, e l’industria si premurò d’inviare i suoi eserciti di “comunicatori” per convincere le folle scettiche che ne avevano un grande bisogno. Non c’è voluto molto per convincerle.

martedì 26 ottobre 2021

Fratelli miliardari, quelli di vaccini Biontech

 

Abbiamo bisogno di giovani che vogliono essere miliardari. Ah no, non è così lo slogan, scusate. Abbiamo bisogno di giovani che vogliono lavorare per i miliardari. L’ideologia borghese è specializzata nell’assegnare splendidi fini all’attività economica. Fu quell’ubriacone di Treviri a sostenere che il capitale tende a portare tutti gli uomini e tutte le forze disponibili sotto il suo dominio di sfruttamento. Non è vero, dai, c’è un sacco di gente che non fa un cazzo, per non dire dei giovani pensionati a 950 euro al mese dopo l’ottava riforma della previdenza in 25 anni.

Non si trova più forza-lavoro, specie quella specializzata. Una piaga generalizzata. Sarebbe necessario controllare i conti correnti delle persone che percepiscono il reddito di cittadinanza. Già lo fanno? Bene, scovate i parassiti. È risaputo, i poveracci camuffano i loro miliardi, mentre i conti correnti dei veri miliardari sono alla luce del sole dei paradisi fiscali. Poi, si sa, la morte azzera i portafogli patrimoniali per tutti, e ne trasferisce il contenuto agli eredi. Si chiama ”meritocrazia”, letteralmente potere del merito. Mi appassiona la saga per l’eredità Agnelli. Ma quanto hanno sfruttato, rubato ed evaso per generazioni, in campo e fuori dallo stadio? Ho intenzione di scrivere un post su un esemplare di quella famiglia, su come e cosa farebbe senza il gratin d’oro che lo ricopre.

Pensate che ormai ci sono così tanti miliardari nel mondo che si trovano di fronte a un problema serio: non hanno abbastanza piloti per i loro jet privati. La spiegazione è semplice, come sempre in economia: i piloti sono molto meglio pagati dalle compagnie aeree convenzionali, e per di più, conoscono in anticipo i loro giorni lavorativi e orari, a differenza di quelli dei miliardari, che si svegliano nel cuore della notte per fare un salto a Dubai. È il mercato, bellezza.

A proposito di miliardari. Manager Magazin è una rivista economica mensile tedesca su affari, finanza e management con sede ad Amburgo, in Germania. All’inizio di ottobre ha pubblicato l’elenco annuale dei 500 tedeschi più ricchi. L’editoriale che accompagna la lista di quest’anno afferma: “Mai prima d’ora l’aumento medio assoluto della ricchezza è stato così elevato come ora. La Germania non ha mai avuto così tanti miliardari, attualmente sono 213».

Infatti, Manager Magazin ha stimato che il loro numero da 69 nel 2001, quest’anno è salito a 213. Quasi la metà delle 500 persone più ricche del paese possiede più di un miliardo di euro. Il patrimonio dei soli dieci tedeschi più ricchi è aumentato quest’anno di quasi 80 miliardi di euro. Miliardi!

Anche loro, come tutti, non potendo muoversi da casa durante il confinamento pandemico hanno risparmiato un bel gruzzoletto. Il patrimonio totale dei 100 tedeschi più ricchi inclusi nell’elenco è aumentato da 606 miliardi di euro nel 2020 a una stima di 722 miliardi previsti nel 2021, un aumento di oltre il 16%.

La pandemia è stata un’opportunità per ridistribuire ulteriormente la ricchezza a piene mani dal basso verso l’alto. Grazie agli alti corsi azionari e all’aumento dei valori immobiliari, la ricchezza dei proprietari immobiliari, finanzieri e degli industriali è schizzata in alto.

Nel solo 2020, con l’inizio della pandemia, il patrimonio di tutti i miliardari del mondo è aumentato di due terzi. Nei primi dodici mesi, il loro patrimonio è passato da 8.000 miliardi di dollari agli attuali 13.000 miliardi, secondo l’elenco di Forbes. È stato l’aumento più alto mai registrato. Tutta gente che non teme l’aumento delle bollette e dei prezzi del supermercato.

I fratelli Susanne Klatten e Stefan Quandt sono di nuovo al primo posto nella lista dei ricchi tedeschi. La fortuna originaria della famiglia può essere fatta risalire allo sfruttamento del lavoro forzato nel Terzo Reich. Possiedono il 47% delle azioni di BMW e hanno ovviamente anche partecipazioni in altre società. Il loro patrimonio è aumentato di 9,2 miliardi, ossia a 34,2 miliardi di euro. 

Dieter Schwarz è al secondo posto. La fortuna (si chiama così?) del proprietario di Lidl e Kaufland, è aumentata di 3,5 miliardi a 33,5 miliardi di euro. Il suo impero del discount Lidl/Kaufland ha registrato vendite per 122 miliardi di euro, con buoni profitti munti dal lavoro di 500.000 dipendenti in tutto il mondo.

Al terzo posto Klaus-Michael Kühne. Il suo patrimonio è aumentato da 19,7 a 33 miliardi di euro. I prezzi delle azioni della società di logistica Kühne & Nagel, di cui detiene una quota del 53,3 percento, e della compagnia di spedizioni di container di Amburgo Hapag-Lloyd, di cui possiede una quota del 30 percento, sono saliti a tal punto che il valore contabile di Kühne’s è più che raddoppiato.

Al quarto posto c’è la famiglia Reimann, le cui attività comprendono bevande, cosmetici e cliniche veterinarie. I loro asset sono gli unici nella top ten a essere scesi di 2,5 miliardi di euro, a 29,5. Quest’anno, a natale, niente regali e vacanze spartane in Svizzera.

Il quinto posto va alla famiglia Merck, la nota multinazionale farmaceutico-chimica. Il suo patrimonio è aumentato di 7 miliardi di euro, ossia a 28,5. Al sesto posto, new entry tra i dieci tedeschi più ricchi, sono i fratelli Thomas e Andreas Strüngmann, vale a dire i maggiori finanziatori del produttore di vaccini Biontech, oltre ad avere partecipazioni in altre società. La loro fortuna è esplosa, salendo da 18,5 a 24 miliardi di euro (nel 2005 era di 7 miliardi).

E i ricchi e ricchissimi italiani? Quando si tratta di renderne conto, la stampa italiana, di loro proprietà, è avara d’inchiostro. A meno non si tratti di fare un dispetto a un rivale.


lunedì 25 ottobre 2021

L’amore vince sempre

 

Non so se il Natale si festeggerà obbligatoriamente in casa anche quast’anno, se il piccolo Gesù seminudo occuperà i nostri pensieri, se faremo e riceveremo dei regali che saranno riciclati o messi in una scansia in garage, a meno non si ripieghi sui cofanetti dvd in promozione.

Ecco quindi il mio suggerimento: regalatevi un libro il cui acquisto non sia un gesto di consumo, ma l’affermazione di un’esigenza. Politica a Natale? Beh sì, ma quello che qui consiglio è anche un libro d’amore. È un bel volume autobiografico, sulla cui copertina spicca il profilo sorridente del suo autore, lo sguardo rivolto al futuro, un cittadino che fu nemico dei nemici del popolo, poi deputato e ministro pentito per aver abolito la povertà.

Racconta il rapporto con il padre (sia quello genetico che quello putativo), quello con la fidanzata, e dunque si tratta di un libro molto intimo. L’avrà scritto lui? A parte il suo editore, nessuno lo sa, nemmeno l’autore. È nell’ordine commerciale delle cose.

Eppure, tra i tanti personaggi della politica è uno di quelli che mi dà meno fastidio vederlo in tv, perché sul momento ha qualcosa di amabile e consolante, ma dopo poco in ogni caso cambio canale. Quando non sanno nulla, i politici dicono qualsiasi cosa, e quando pensano di saperlo, è anche peggio.

Ha la stessa età di mio figlio, come potrei detestarlo? Anzi, un po’ l’ammiro, per la sua quasi sincera ingenuità, un atteggiamento che sicuramente ha favorito il suo sogno di promozione sociale. A tutti piace ciò che è giovane, di successo e che resiste. Non è da tutti raggiungere i suoi risultati di carriera. S’è adattato al suo tempo, non ha problemi a essere un prodotto che non ha creato. Finita la legislatura, le jeune Louis punta a restare un residuo discreto di un’illusione. L’amore vince sempre.


domenica 24 ottobre 2021

Sto pensando di scrivere un libro

 

Entrando in libreria, guardando le pile di libri allineati sui banconi, si resta quasi intimiditi. I nomi dello spettacolo politico-mediatico ci sono tutti. La maggior parte di questi autori è lungi dal sospettare che saranno dimenticati tra qualche decennio anno. Alcuni di questi nomi possono vantare di essere l’epitome dell’umorismo non intenzionale, altri confondono la loro ignoranza con certezze più o meno reazionarie. Stringe il cuore nel pensare alle lontane foreste da cui proviene la materia prima per quella carta stampata.

Vi sono libri dai titoli improbabili e dai contenuti surrealisti. Un esempio tra tutti: Giulio Andreotti, I diari segreti. Poderoso volume prefato da un giovane giornalista di sicuro avvenire. Neanche fossero quelle mancanti di Casse-pipe, mi sono concessa l’emozione di leggere le pagine delle date che m’interessavano. Piene zeppe di omissioni (apprezzate l’ossimoro).

Ci sono libri invendibili, ma molto divertenti, perciò se li avete nella vostra libreria, non bruciateli. Libri come quelli di Romano Prodi, un uomo che ci ha sempre detto cosa sta succedendo e cosa potrebbe accadere presto. L’ultimo suo s’intitola Strana la mia vita. Immersi nella sua privacy, quale sarebbe la migliore definizione di “strano” riferita a Prodi? Questo libro viene dopo Il tempo delle scelte, La mia Italia, Un’idea dell’Europa, La miseria sessuale in un’economia di mercato, il suo bestseller. È annunciato in uscita per il 2022, edito in due volumi, Addio Quirinale.

Non poteva mancare il libro di Gruber, che come ogni autunno raccoglie i frutti delle sue lunghe riflessioni estive. Leggere i suoi libri e masturbarsi richiede la stessa clandestinità. L’ultima faticaccia di questa Pizia televisiva è dedicata empaticamente a Martha Gellhorn, con la quale sente di condividere, non potendo anelare alla modestia, “il dovere della verità”. Se avremo lontani discendenti e questi vorranno sapere di che cosa viveva e pensava l’umanità occidentale a cavallo del terzo millennio, sono i libri di Dietlinde che dovranno leggere.

Ho pensato anch’io di pubblicare un libro che colga, su due livelli, tutta l’attualità e tutta la complessità del fenomeno letterario e politico del momento che stiamo vivendo. Detto fra noi: tra tanta merda non dovrei avere difficoltà a pubblicare anche la mia. Per il momento ho scritto solo il titolo, che sicuramente apprezzerete per schiettezza, ossia Come cagare nei boschi del Südtirol: un approccio ambientale per un’arte dimenticata.

Intanto leggetevi questo:



P.S. del 26-10 : È sintomatico dei tempi che nessun lettore abbia chiesto da quale libro sia stato tratto l'estratto riprodotto.

Ricordate Occupy Wall Street?

 

Qualunque cosa trovi un acquirente, non importa quale cosa e quale acquirente, per gli economisti è un “bene”. Anche la merda, che in alcuni casi è opera d’arte esposta in musei di tutto il mondo. Una scatoletta di merda su eBay te la regalano per 120 euro.

Non solo qualunque “cosa” concreta può diventare un “bene” economico, come la merda appunto, ma anche una “cosa” metafisica. A pensarci è faccenda molto vecchia, basta chiedere ai “sacerdoti”, che di “beni” metafisici s’intendono da molto prima delle piramidi egizie e dei bitcoin.

Questi ultimi devono il loro successo solo all’eccitazione che provoca in milioni di smanettoni con una libido complicata e che scoprono una vocazione al commercio, e il suo fascino ai giornalisti economici, sempre desiderosi di elogiare i meriti di una bolla finanziaria prima che scoppi.

Il suo nome è composto da “bit”, l’unità di base delle informazioni con cui lavorano tutti i computer, e da “moneta”. È una valuta immateriale al 100%. Tuttavia nulla è immateriale al mondo, nemmeno i nostri sogni e pensieri, che richiedono l’attività delle nostre piccole cellule grigie. E non certo Internet, che funziona grazie a metalli rari ricavati dal sudore e sangue di bambini e altri lavoratori forzati.

Di più: a leggere Wikipedia dietro ci sono persone e i loro schermi collegati a enormi computer per creare transazioni in un sistema chiamato “blockchain”. Quest’attività di “mining”, creazione di monete virtuali tramite un duro lavoro informatico, è remunerata sotto forma di bitcoin. Stiamo parlando di macchine enormi che girano con altre ancora più grandi: i server. Il consumo di energia richiesto dai bitcoin supera quello di diversi paesi! Non chiedetemi maggiori dettagli, non li so e non li voglio conoscere, faccio parte dei relitti del passato che preferiscono leggere l’Illiade.

Quando è nato, il bitcoin veniva scambiato a 0,003 dollari. Per anni il suo prezzo è rimasto piatto come l’encefalogramma di certe star televisive, ossia fino al 2017, quando i vampiri hanno cominciato a sentire odore di sangue umano. Oggi prezza sopra i 60 dollari. Com’è noto, non è emesso da nessuno Stato e le transazioni sono eseguite in modo completamente anonimo.

Un’iniziativa anarchica volta a dimostrare che si può creare una moneta senza lo Stato e la banca. Più precisamente un’iniziativa “libertaria”, in linea con la corrente di pensiero che ritiene tutto sia commercializzabile e privatizzabile. Le buone idee si diffondono rapidamente e le banche s’interessano a questa nuova valuta, speculando su di essa. La solita Goldman Sachs è stata tra le prime a tuffarsi nel ricco piatto. Qualche economista serio storce la bocca, ma poi non disdegna un “pizzichino” della torta.

Un mio vecchio maestro, mi ripeteva spesso che si sente sempre parlare di chi vince nel gioco morboso della speculazione e dell’azzardo, mai dei perdenti, che sono molti di più.

Infatti, il bitcoin è utilizzato principalmente per speculazioni: lo acquistano solo per rivenderlo. Da quando Elon Musk ha deciso di boicottarlo, dandone notizia sui siti di insulti reciproci chiamati social media, non puoi nemmeno comprare una Tesla. E però alcuni Stati lo riconoscano come strumento finanziario, il sistema internazionale PayPal li accetta come mezzo di pagamento, dunque si può ancora parlare di valuta solo virtuale?

Speculazione su tutto e niente, la storia economica è piena di esempi. Forse il più noto è quello dei Paesi Bassi, nel XVII secolo, quando la gente comune impazzì per dei bulbi di tulipani venduti a prezzi elevati. E poi i bulbi sono diventati bolle, al massimo sbocciavano in primavera. Ad ogni modo, in bocca al lupo a chi vorrebbe fare la guerra contro un sistema finanziario anonimo e globale scendendo in strada. You remember Occupy Wall Street?


sabato 23 ottobre 2021

Ragioni e torti di Giulia Blasi


Scrivevo, quale risposta a un commento nel post precedente, di come l’analisi fenomenologica, tipica dell’approccio borghese, consideri il fenomeno per quanto si mostra nella sua manifestazione esteriore e ne deduce che la forma del manifestarsi di una cosa coincida con il nesso causale che le sta a fondamento. Un esempio mi è suggerito da un articolo di Giulia Blasi, a proposito della querelle nata pretestuosamente da una frase estrapolata da un’intervista del professor Alessandro Barbero.

Dice la scrittrice, conduttrice radiofonica e giornalista: «I “cambiamenti di costume” avvenuti in particolare dal Dopoguerra in poi non sono avvenuti da soli, ma a seguito della spinta e dell’incessante azione delle donne per conquistare diritti e spazio in società. Una lotta costante e faticosa condotta con ben più che “aggressività e spavalderia”, e che ha avuto costi enormi per le donne che vi sono state coinvolte».

Osservo che c’è stata da parte delle donne “lotta costante e faticosa”, ma di una minoranza più emancipata e spesso politicizzata. Emancipazione in certa misura già ottenuta per le donne che se lo potevano permettere (questione sfiorata e sottintesa da Blasi quando cita Meloni e Le Pen). Invero la “spinta” fondamentale è avvenuta quando il mercato del lavoro s’è aperto al genere femminile, per bisogno di forza-lavoro, perché pagato meno e peggio garantito di quello maschile. Pertanto l’emancipazione è avvenuta a seguito del coinvolgimento massivo delle donne come lavoratrici nei settori dell’industria e dei servizi, ossia quando le donne hanno cominciato a diventare indipendenti dal punto di vista economico.

Prima d’allora, il lavoro domestico della donna scompariva al cospetto del lavoro produttivo dell’uomo: questo era tutto, quello di lei, invece, un’aggiunta insignificante. Tale risultato, il lavoro produttivo e l’emancipazione economica, è divenuto possibile solo con la grande industria moderna, che ha tolto le donne dal focolare e dal retaggio della protezione/sottomissione patriarcale. Il resto l’ha fatto il marketing, vedi alla voce lavatrice, per esempio.

Il nesso causale fondamentale va dunque cercato nello sviluppo delle forze produttive e dei corrispondenti rapporti sociali, pur senza togliere importanza e valore alla “lotta costante e faticosa” delle donne per scrollarsi di dosso una condizione millenaria d’inferiorità. Condizione che ha prodotto i suoi effetti psicologici e sociologici, uno stigma sociale che non sarà né breve né facile da superare psichicamente e culturalmente (questione affrontata largamente da Blasi).

Che l’equiparazione della donna all’uomo incontri ancora ostacoli e difficoltà, che differenze strutturali naturali diventino discriminatorie in tema di diritti e opportunità, fino a ieri con pretesti giuridici e oggi con retaggi psichici, ciò avviene perché l’intero sviluppo della civiltà borghese si muove in una contraddizione permanente, che riguarda la forma di famiglia, la struttura e le gerarchie nel lavoro e nella politica. Situazioni che non si superano solo con quote rosa ed esorcismi di natura educativa e “culturale”.

Il professor Barbero ha ragione d’interrogarsi. Presupponeva che anche al cervello più stupido deve essere evidente che le differenze strutturali sono del tutto naturali e non possono non avere, sotto qualunque cielo, ricadute d’ordine psicologico e comportamentale. Fiducia mal riposta. Dopo la sua presa di posizione sul green pass, ogni parola che dice pubblicamente è estrapolata e messa sotto la lente d’ingrandimento, quindi manipolata e data in pasto ai soliti imbecilli che abboccano. 

Asociali e obsolescenti

 

Ieri era l’anniversario della morte di Stefano Cucchi. Non il solo a subire la violenza, la tortura, da parte delle “istituzioni”. Tuttavia una vicenda dai risvolti raccapriccianti e spaventevoli. C’è voluta tutta la tenacia e il coraggio di sua sorella, la confessione di un testimone dei fatti, il clamore mediatico, un film straordinario (Sulla mia pelle), perché la morte di Stefano non finisse come tante altre storie di abusi e violenze. C’è voluto un processo di primo grado, d’appello, poi la Cassazione, quindi un altro appello, la Cassazione bis, e infine l’appello-ter ... . Una vicenda processuale tipicamente italiana.

*

Ne Lo straniero di Camus, il pm sostiene che Meursault ha un“anima criminale”: per permettere alla popolazione di stare tranquilla, isoliamo l’atto e il suo autore. C’è un vantaggio ideologico nel designare come “criminali” persone in cui abbiamo paura di identificarci. I “mostri”, i “violenti”, i “contestatori”, sono anormali, asociali, sono l’eccezione per l’umanità; se hanno fatto quello che hanno fatto, è proprio perché non sono come noi: abbiamo una spiegazione semplice per loro.

Non prestiamo attenzione alle piccole disumanizzazioni, quelle che ci sono offerte dallo spettacolo mediatico, al punto che finiscono per far parte della quotidianità, dell’arredo. Esempio è il tipico ritratto veicolato in questo periodo del cosiddetto no-vax o no-green pass. È un idiota per definizione, pericoloso per sé e soprattutto per gli altri. Se consideriamo che sono persone che abbiamo conosciuto, con cui siamo stati vicini, è più preoccupante, vero? Persone che altrimenti sono socialmente stimate e rispettate, e non asociali in agguato dietro un cespuglio.

Proprio non facciamo caso ai cambiamenti linguistici e politici in atto oggi. A quel linguaggio delle “funzionalità” di cui parlava Victor Klemperer, che mira a razionalizzare e pianificare sempre più la nostra vita quotidiana, costruito da successivi cambiamenti di un vocabolario che è sempre più quello informatico, del linguaggio macchina, del management, del marketing, dell’economia e di un certo gergo anglosassone ormai dominate. Lo vediamo nei nostri modi quotidiani di esprimerci, di comportarci e di fare le cose.

Nessuno di noi è “immune” da queste “contaminazioni”, tanto per usare dei termini ormai correnti. Siamo condannati a parlare di meno per “comunicare” di più. Ne scrivevo in forma molto piana giovedì, citando l’esempio della trattoria, laddove perfino il rapporto, il dialogo tradizionale, tra cliente e cameriere è stato sostituito da un crittogramma sulla tovaglietta. Come quella programmata per gli oggetti, prendiamo atto dell’obsolescenza generalizzata dell’umano.

Nota: l’obsolescenza programmata degli oggetti-merce è stata proposta per la prima volta nel 1932 da Bernard London, un uomo d’affari americano che immaginava di far uscire il mondo dalla Grande Depressione chiedendo ai governi di imporre una scadenza legale su tutti gli articoli di consumo. Prima o poi verrà posta legalmente (ma di fatto già esiste e in certe forme viene attuata) anche la scadenza per gli umani, quando non siano ritenuti più utili e produttivi (non sto parlando di atti volontari dell’interessato). La trasformazione dell’uomo dallo stato di soggetto allo stato di oggetto mi sembra evidente. Basta far riferimento a espressioni impiegate con naturalezza come “risorse umane”, “capitale umano”, eccetera. Se chi le impiega conoscesse la loro origine sarebbe più cauto nell’uso. Forse.

venerdì 22 ottobre 2021

Verità e realtà

 

Spesso confondiamo la verità raccontata con la realtà. La verità può avere nulla a che fare con la realtà. Che la Terra sia piatta o rotonda non ha a che fare con la verità, ma con la realtà. In Unione Sovietica, il principale quotidiano fu chiamato Pravda. L’Urss descritta nelle colonne del giornale era l’Urss secondo la verità dei leader sovietici, ma non aveva nulla a che vedere con l’effettiva realtà del Paese.

Anche i media “democratici” raccontano la verità, che spesso non ha nulla a che fare con la realtà, o vi corrisponde solo per approssimazione. La verità che ci rifilano è intrisa d’ideologia, persegue interessi particolari, è opera di specialisti del racconto. Lo vediamo bene ogni sera in tv, dove nessuno vuole sconvolgere le convinzioni che la maggioranza dei telespettatori già nutriva un istante prima. Anzi, le rafforzano con un bombardamento a tappeto. E invece la realtà non si preoccupa del nostro comfort mentale e ideologico.

Prendiamo la politica economica: le riforme sono presentate come essenziali e hanno l’obiettivo della crescita, della piena occupazione e altre storie così. A volte ci raccontano che servono per ridurre le disuguaglianze, perfino per sconfiggere la povertà. La cosiddetta “transizione ecologica”, verso dove dovrebbe portarci? Leggo: “è il passaggio da un sistema di produzione e consumo insostenibile per il pianeta a un sistema in grado di far crescere l’economia senza distruggere l’ambiente”.

Qui è ben sintetizzata la differenza tra realtà e verità, tra lo stato effettivo delle cose e la propaganda, l’ideologia. Anzitutto è ammesso che questo sistema economico è insostenibile. E questo è un bel passo avanti dopo tanto negazionismo. Ma subito ci viene detto che transiteremo verso il paradiso di un’economia in espansione ma che avrà cura dell’abitat e della salute dell’orso bianco.

Come se bastasse “il passaggio dai combustibili fossili alle rinnovabili” per “trasformare il modo di produrre e distribuire”. È un modo di dire che non significa nulla, una presa in giro. Cambiare il modo di produrre? Modificare il modo di distribuire? Di fronte abbiamo due ordini di problemi: il capitale e le comodità acquisite.

Il capitalismo non può cambiare pelle. Lo sviluppo della produzione capitalistica si è sempre realizzato come compimento delle leggi che ne sono il fondamento.

Alle multinazionali, al capitale in generale, non importa granché del cambiamento climatico. Mettiamoci nei panni di un amministratore delegato di una fabbrica automobilistica. L’auto elettrica non è una scelta “ecologica” dell’industria. Si tratta di sostituire entro i prossimi 14 anni circa 250 milioni di auto tradizionali nel continente europeo. Miliardi di auto nel mondo! Quell’AD del settore auto può aver fatto voti perché ciò accada, ma ora deve affrontare una concorrenza spasmodica sulle quote di mercato, con il fiato sul collo degli azionisti e gli operai licenziati che protestano ai cancelli della fabbrica.

Si delinea ora un nuovo riformismo, che obbedisce alle stesse necessità dei precedenti: oliare la macchina e aprire nuove occasioni di profitto per le imprese di punta. Se si ottengono dei risultati positivi anche dal lato del minor inquinamento, tanto meglio, i nostri politici potranno gonfiare il petto. La coraggiosa Greta Thunberg potrà tornare a scuola.

I settori più avanzati dell’industria si lanciano sui differenti palliativi della riduzione dell’inquinamento come nuovi sbocchi, tanto più redditizi quanto più c’è da succhiare dal nuovo business e dal debito degli Stati e delle banche centrali immesso per finanziare la “transizione ecologica”, per sostenere la crescita (il vento è cambiato, come sa bene il dimissionario presidente della Deutsche Bundesbank). Il problema del cambiamento climatico è reale e urgentissimo, ma la “transizione ecologica” è prima di tutto un affare gigantesco per rilanciare le economie in affanno e fornire nuova materia speculativa alla finanza.

La sedicente transizione ecologica non può diventare una realtà se non trasformando il modo di produzione attuale dalle fondamenta. Sostanzialmente si andrà avanti come si è sempre fatto, sbandierando qualche risultato che darà nuovo fiato agli apologeti del sistema (anche a quelli inconsapevoli di essere esibiti sui media per favorire il business ecologico), raccontando una verità, ben munita di dati e grafici incontestabili, che però ha poco o anche nulla a che vedere con la realtà, ossia con la bulimia di profitti del capitale e i dividendi degli azionisti.

Infine, dal lato delle comodità e abitudini acquisite: nessuno di noi è disposto a cedere di una spanna se non vi è costretto. I vegetariani e assimilabili, per fare un esempio, credono sia una loro scelta del tutto personale aderire a un certo tipo di alimentazione. Perché fa bene alla salute, è ecologico, è trendy. Un’oncia di tutto ciò può casualmente coincidere con la realtà. Siamo tutti convinti di compiere delle scelte in modo autonomo e responsabile. E questo è invece un altro esempio di verità che non corrisponde alla realtà. Anche in tal caso è confuso ciò che appare come una scelta individuale con certi interessati condizionamenti e le leggi dei grandi numeri. Questo, mi rendo conto, è già più difficile da dire senza sollevare ostilità.

Andremo tutti al lavoro in monopattino. Salvo se piove o nevica. Allora riscopriamo quanto è comoda l’auto. Che decine di milioni di noi la notte prima ha collegato alla presa di corrente. La batteria si ricaricava mentre guardavamo la tv, con lavatrice e lavastoviglie in funzione, magari anche il ferro da stiro e il phon, e ovviamente la caldaia, eccetera. L’impossibile può diventare verità, e di questi tempi la cosa è pane quotidiano, ma solo il possibile può diventare realtà. Lo scopriremo vivendo.

giovedì 21 ottobre 2021

Il QR in trattoria

 

La politica non è altro che una cortina fumogena che avvantaggia una finanziarizzazione e commercializzazione disinvolta, integrale, planetaria di tutti gli aspetti della vita. Siamo permanentemente tagliati fuori. Le cose stanno solo peggiorando: i dispositivi elettronici, dei quali non possiamo fare a meno e che però ci sono imposti, mirano a devitalizzare ciascuno di noi per facilitare la nostra configurazione. Avere un Brondi invece che uno “smartfon”, significa la morte civile per molti anziani. Me l’ha confermato il mio medico di base stamane.

Ho pagato giorni fa con la carta un elettrodomestico (non una tv). Oltre al pagamento con la carta non ho rilasciato alcun dato personale, niente di niente. Già dal giorno dopo hanno bussato in tutti i miei dispositivi offrendomi non un elettrodomestico qualsiasi, ma proprio del tipo che avevo acquistato. E dire che in banca ogni volta che mi affaccio devo firmare una risma di carta “per la privacy” e la “sicurezza”.

Mi chiedono di rispondere a delle domande: il nome del tuo migliore amico (è d’uopo averne uno, e maschio oltretutto); quello del tuo maestro (sono passati sessant’anni, ma che importa, e maschio anche questo!); la città dove si sono conosciuti i tuoi genitori (nei boschi, giuro). È obbligatorio compilare il modulo elettronico, per verificare poi se tu sei proprio quello che dici di essere. Sui siti su cui devo andare per disbrigo delle mie faccende, digito le mie credenziali e però non entro. Non sono chi dico di essere? Ho ricominciato decine di volte, ho cercato altri modi per accedere al sacro graal, anche con il QR code. Niente da fare. Benedetta “semplificazione amministrativa”.

Apriti sesamo, titolava la buonanima il suo ultimo album.

Ieri mattina ho telefonato al numero di InfoCert. Incredibile: mi ha risposto una persona in carne e ossa, una voce gentile. Mi ha detto che martedì ci sono stati dei problemi. E oggi, le ho chiesto? Non sapeva. Quasi impossibile decifrare cosa nasconda questo affaccendarci con spid, account, password, codice OTP, codice sblocco, codice QR, e ovviamente il susseguirsi di “aggiornamenti”. Tutti i requisiti ci sono richiesti per far parte della programmazione organica progettata per la sopravvivenza. Esagero se dico che non siamo altro che supporti su cui si proiettano le ingiunzioni di venditori e controllori?

Chi può credere ancora alla favola dell’uomo padrone di sé e della natura, come diceva Cartesio? Chi si fida ancora di qualunque cosa? I nostri tempi si rivelano sempre più un’impresa di distruzione che ha portato il pianeta allo schianto e gli esseri umani al caos esistenziale. La politica e la “scienza”, insomma l’ideologia dominante, possono mascherare questo naufragio e parlarci ancora di progresso, ma sono sempre meno quelli che vogliono farsi ingannare (o no?).


Oggi sedevo in trattoria, sull’angolo sinistro della tovaglietta di carta, tra loghi e scritte, stava riprodotto un crittogramma. Anche qui! È il menù, c’è pure scritto. Non mi faranno mangiare nel caso non avessi lo smartfon? La cameriera mi dice compassionevole che c’è anche il menù di carta. Stropicciato e un po’ sporco, ma esiste ancora. Quest’autunno già mi stanca, il cielo è plumbeo e ancora non è arrivata la pioggia, quella incessante, pesante, ostinata, monotona, totalitaria. Quando piove così, vorrei diventare pioggia anch’io.

mercoledì 20 ottobre 2021

Allarme per l'aumento del prezzo dei preservativi


Il governo dellIlluminato sta pensando di ridurre il prezzo degli assorbenti. Grazie. Ma al prezzo in aumento dei preservativi, chi ci pensa? Si chiede almeno un bonus come per i televisori, un tanto al pollice!

*

Sia pure ancora sottotraccia, si fa strada una questione che da tempo sembrava scomparsa: non riguarda solo l’Italia, i salari estremamente bassi e le condizioni di lavoro in quanto tali, ma si tratta di una riflessione più sulle generali, sulla natura stessa della nostra società. Non è passata inosservata la situazione in cui la ricchezza è accumulata in poche mani mentre le condizioni di vita di chi sgobba e fatica a tirare avanti stanno progressivamente peggiorando. La straordinaria crescita della disuguaglianza sociale è un potente fattore che produce sfiducia verso il sistema politico, economico, istituzionale.

Poi c’è tutto il resto di un sistema molto vulnerabile: i segnali di un rallentamento dell’economia globale, il perdurante impatto della pandemia in aree chiave dell’economia, i porti bloccati, i famosi “colli di bottiglia”, la fragilità e l’interruzione delle catene di approvvigionamento globali, l’impennata dei prezzi. Ah già, la vecchia cara inflazione. Se il prezzo del rame sale, come titola il Sole 24ore, è a causa delle aspettative di aumento dei prezzi, e quindi degli acquisti, che salgono ancora di più. Insomma, i prezzi salgono perché salgono, in una bella logica autoreferenziale. Non vi piace come spiegazione? Eppure la semplicità coglie spesso il vero.

Le cosiddette catene del valore globali sono diventate un motore di crescita e una fonte di disinflazione nella ricerca di maggiori efficienze (Marx non è poi così male), tuttavia queste catene sono state tese a tal punto che sono diventate sempre più fragili e si stanno spezzando. Anche questo molto in nuce, ma c’è tanto di vero.

L’importanza dei prezzi delle materie prime l’avevamo dimenticata. In gergo si fa riferimento a essi con la vacua parola “volatilità”, che nessuno capisce realmente cosa voglia dire. Un ripassino di storia ogni tanto fa bene: a seguito di un crollo dei prezzi della materia prima da cui dipendevano, interi paesi hanno visto crollare le loro economie, abbattere i loro leader, travolgere tutto. Il prezzo del cacao, per esempio (*). Il carbone che ha permesso la rivoluzione industriale, l’indipendenza americana innescata dalla tassa sul tè, lo shock petrolifero degli anni 1970, per non parlare del prezzo delle farine che per millenni ha fatto tremare i troni, come sapevano Diocleziano e Maria Antonietta. L’approvvigionamento e il prezzo delle materie prime sono alla base di tutto o quasi.

Vogliamo parlare della terza risorsa più importante del pianeta, dopo l’aria e l’acqua. Non è il petrolio, ma la sabbia! Non ci credete, lo so. Quale di questi oggetti di uso quotidiano contiene sabbia: cellulare, computer, bicchieri, cibo disidratato, dentifricio, pneumatici? Tutti! Nel XIX secolo veniva addirittura utilizzata per conservare la carne. Viviamo e lavoriamo in edifici di sabbia. Pare che consumiamo 18 kg di sabbia pro capite al giorno! Sembra che sia una materia prima abbondantissima, però quella marina non è adatta in edilizia, e quella di fiume per ripristinare le coste erose è una schifezza. La sabbia è una risorsa non rinnovabile (e non per qualche milione di anni). Eppure non se ne parla quasi.

E la gomma? Anche le auto elettriche poggiano sugli pneumatici (inventati dal veterinario John Dunlop). Nonché le nostre amate biciclette. Come fare a meno del preservativo, inventato nel 1870? Non c’è ginecologo che ne consumi meno di una ventina al dì (per effettuare l’ecografia, che credevate sporcaccioni?). La raccolta del lattice, che è difficile da meccanizzare, richiede una forza-lavoro abbondante. Nel 1904 il Belgio occupò il Congo e utilizzò gli schiavi per raccogliere la preziosa linfa. Leopoldo II venne un po’ prima di Hitler.

E che dire del litio? Di questa “materia prima” sapete già tutto, forse però non sapete che insieme al berillio e al boro, il litio è uno dei tre elementi all’origine del big bang. Pertanto all’origine di questo fantastico blog e della ancor più incredibile tenacia di chi lo scrive.

(*) Esistono tre varietà di alberi di cacao. Il forastero dal sapore amaro, riguarda il 90 per cento della produzione mondiale. È presente in Africa, Brasile ed Ecuador. Il criollo – il mio preferito – regala il cacao più aromatico. Si trova principalmente in Venezuela e nei Caraibi. Infine, il trinitario, apparso nel XVIII secolo sull’isola di Trinidad dopo che un uragano distrusse i raccolti, è un incrocio tra le altre due varietà. Si trova in Messico, Colombia e, naturalmente, nei Caraibi.

Il cacao, kakaw in lingua maya, era coltivato da Olmechi, Maya e Aztechi. Presso gli aztechi, le fave di cacao permettevano di pagare tutto, anche le tasse. Oggi la Costa d’Avorio produce un terzo del cacao mondiale, davanti a Ghana, Indonesia e Nigeria. Il miracolo ivoriano degli anni 60 e 70, sotto il presidente Houphouët-Boigny. Un fondo di stabilizzazione garantiva un prezzo di acquisto ai produttori e permetteva alle autorità di ricompensarli. La deregolamentazione del mercato è stata, anche in tal caso, fatale per il fondo, e il Paese si è ritrovato indebitato, in balia dei maghi del Fmi.

La maggior parte dei contadini coltiva solo superfici molto piccole e riceve solo una piccolissima parte del ricavato della vendita. In molte piantagioni i bambini lavorano e ricevono solo cibo come salario. Sono i più schiavi del cacao. Ricordiamocelo mentre sorseggiamo. Ah, dimenticavo, ieri era l’anniversario della morte di Domenico Barbaja, ex cameriere in un caffè milanese. Fu personaggio famosissimo nella prima metà del XIX secolo, e non solo per la cioccolata con la panna. La sua amante divenne la moglie di Rossini, per dire.

martedì 19 ottobre 2021

It’s a mess

 

Stellantis, il gigante automobilistico e società madre anche di Fiat Chrysler Automobiles Canada, ha annunciato che licenzierà 1.800 lavoratori dei 4.000 presso il Windsor Assembly Plant a Windsor, in Ontario, situata sulle rive del fiume Detroit, immediatamente a sud dell’omonima città statunitense (nel Michigan) a cui è collegata tramite l’Ambassador Bridge. Windsor Assembly costruisce il minivan Chrysler Pacifica, Pacifica Hybrid, Grand Caravan e Chrysler Voyager. I licenziamenti saranno accompagnati dall’eliminazione del secondo turno dell’impianto a partire dal 17 aprile 2022 (circa 1.500 posti di lavoro erano stati cancellati l’anno scorso con l’eliminazione del terzo turno).

Motivazione: “la persistente carenza di semiconduttori e gli effetti estesi della pandemia di covid-19”.

Le difficoltà di approvvigionamento di semiconduttori ha temporaneamente colpito anche la produzione automobilistica canadese, i cui volumi sono diminuiti di quasi il 7% nell’ultimo anno e molti degli impianti di assemblaggio nel paese ne hanno risentito. Windsor Assembly, a esempio, ha operato per soli 3 mesi nel 2021. Anche lo stabilimento di Brampton Assembly, sempre di Stellantis, ha registrato lunghe pause d’inattività, e le produzioni di Ford, General Motors, Toyota e Honda hanno subìto un impatto simile. Lo stabilimento GM-CAMI Assembly vicino a London, Ontario, è uno dei più colpiti, e ha lavorato solo per tre settimane negli ultimi 9 mesi, anche se nel gennaio scorso GM s’è impegnata a investire un miliardo per produrre veicoli elettrici alla CAMI di Ingersoll, ma anche lì, come sostiene schiettamente il presidente del sindacato Unifor, “It’s a mess”.

Detto questo, il tentativo di Stellantis di vendere i licenziamenti a Windsor come semplice risposta a problemi imprevisti con i fornitori è una scusa. La realtà è che ben prima della fusione dello scorso gennaio di FCA con il gruppo PSA, che comprende Peugeot, Opel e Vauxhall, e che ha portato alla formazione di Stellantis (410.000 dipendenti alla costituzione), la direzione aziendale ha in progetto una ristrutturazione radicale.

Non per nulla a capo del gruppo Stellantis è stato messo lo spregiudicato Carlos Tavares, già direttore operativo di Renault, esperto ottimizzatore dei costi”. Quando si è fusa con FCA, PSA ha annunciato che avrebbe risparmiato 5 miliardi all’anno in costi. Tavares voleva “concentrarsi sull’utilizzo delle sinergie e sull’aumento della competitività sin dal primo giorno”.

È lo stesso Tavares che ha deciso di smantellare la rete Opel e trasformare gli stabilimenti di Eisenach e Rüsselsheim in società indipendenti con lo scopo di tagliare posti di lavoro e avviare la graduale chiusura degli impianti (si parla di fare dei “campus”). Non c’è nulla da meravigliarsi, questi funzionari del capitale sono strapagati per fare questo lavoro e s’impegnano al meglio. Finché si lascia fare, ovviamente.

Stellantis deve far fronte alla feroce lotta nel mercato dei veicoli elettrici e autonomi in rapida espansione. Come già scrivevo ieri a proposito del settore auto made in Germany, è in atto una vera rivoluzione, una guerra tra giganti. A subirne il danno e pagarne le conseguenze saranno i soliti, nonostante i governi locali e federali sborsino, come nel caso del Canada, centinaia di milioni di dollari in sussidi a FCA, Ford, e GM per garantire la “competitività”, gareggiando in una corsa al ribasso con gli stabilimenti, per esempio, del Messico. La solita canzone, basti vedere cosa sta succedendo alla Deere di East Moline e in 14 sue filiali negli Usa, con il primo sciopero in 35 anni del grande produttore di macchine agricole.

È il capitalismo. Fin dalle sue origini e per le sue inevitabili leggi funziona così, con nessuna pianificazione e programmazione della produzione e dell’economia, bensì una lotta continua e sempre più gigantesca tra capitali e Stati concorrenti. C’è però chi pensa, anche se sono sempre di meno, che votando si possano cambiare le cose, che il sistema si possa riformare, che grandi progressi sociali si sono pur fatti nel secondo dopoguerra. Tutta roba regalata dalla bontà del sistema, ovvio.

Non ci resta che aver fiducia negli eloquenti profeti del “mercato”, quelli che sotto una veste “scientifica” hanno una cura per tutto, anche per il cancro, direbbe il dottor Jannacci. Così per i leader d’impresa: per uscire dalla crisi devi lavorare di più, molto di più, davvero di più. Per le aziende sgravi fiscali, credito d’imposta per la competitività e l’occupazione (per risultati quasi nulli in termini di posti di lavoro). A seguire i loro “ragionamenti” la tentazione di ognuno di trasformarsi in un paradiso fiscale diventa irresistibile. E così sia anche per i professoroni che amano lo Stato solo quando gli paga lo stipendio o la congrua pensione (la previdenza sociale avvantaggia tutti, ma non tutti allo stesso modo).

Tutto un mondo che si tiene, le stesse persone piangenti per il debito pubblico che ci incatena, che è pur vero. Sennonché senza debiti pubblici mostruosi e in progressione la società sarebbe scossa da cima a fondo e farebbero la loro ricomparsa ghigliottine e tricoteuses.

Finché dura il debito “a gratis” tutto procede tranquillamente, ossia nell’ambito della cosiddetta “dialettica democratica”, inconsapevoli che non potremmo continuare così a vitam æternam. Perciò il sistema al momento non ha bisogno di mostrarsi “diversamente democratico”. La democrazia è l’involucro migliore in cui avvolgere contraddizioni e conflitto sociale. E, del resto, non c’è più da chiedersi se lo sviluppo delle forze produttive è maturo per un salto di binario nei rapporti sociali. Questi, da forme di schiavitù moderna, infettati dal virus ultraliberale sono approdati al postmoderno e perfino alle forme del neorealismo “concettuale”. E a noi che frega?