giovedì 30 settembre 2021

La sinistra perdente

 

Nonostante le elezioni federali tedesche del 26 settembre siano state contrassegnate da un diffuso malcontento sociale, con il crollo dell’Unione Cristiano Democratica (CDU) e l’estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) che perde più di due milioni di voti, a sua volta Die Linke, Partito della Sinistra, ha subito una devastante sconfitta.

Rispetto alle elezioni federali del 2017, i voti si sono quasi dimezzati. Ha perso 4,3 punti percentuali e ha raggiunto solo il 4,9%. Il suo numero di seggi si è ridotto da 69 a 39, diventando di gran lunga il gruppo parlamentare più piccolo del Bundestag, ora portato a 730 membri. Se Die Linke non avesse vinto tre deputati eletti direttamente, due a Berlino e uno a Lipsia, il partito non sarebbe stato rappresentato nel nuovo Bundestag, perché non avrebbe superato l’ostacolo del 5 per cento richiesto per la rappresentanza proporzionale.

Die Linke ha perso voti in tutti gli stati federali, ma in particolare nei cinque stati orientali, ex roccaforti del partito. Qui, la media è stata solo del 9,8%. Solo in Turingia (11,4) e Meclemburgo-Pomerania occidentale (11,1) ha ottenuto ancora risultati a doppia cifra. In Turingia, dove il Partito della Sinistra ha ricoperto per sette anni la presidenza di Stato, è oggi solo il quarto partito, dietro AfD (24), socialdemocratici (23,4) e CDU (16,9).

Ha perso massicciamente anche nella parte occidentale. Nel Nord Reno-Westfalia ha perso 3,8 punti, raggiungendo solo il 3,7%. Anche nelle elezioni per i parlamenti statali di Berlino e del Meclemburgo-Pomerania, il Partito della Sinistra ha subito perdite, sebbene non nella stessa misura delle elezioni nazionali. A Berlino, il suo risultato è sceso di 1,6 punti, al 14 per cento, e nel Meclemburgo-Pomerania di 3,3 punti al 9,9.

La débâcle del Partito della Sinistra è tanto più significativa perché l’umore di gran parte dell’elettorato era chiaramente orientato per una svolta a sinistra. Ciò è dimostrato non solo dalle massicce perdite di voti della CDU e del suo partito gemello bavarese CSU, e di AfD, ma anche dai sondaggi che ponevano in cima alla lista delle preoccupazioni degli elettori il cambiamento climatico e la disuguaglianza sociale.

A Berlino, un referendum tenutosi in concomitanza con le elezioni ha visto il 56,4 per cento a favore della socializzazione delle grandi società immobiliari private, ma, sebbene i promotori del referendum siano vicini al partito di sinistra, questi non ne ha beneficiato.

La ragione principale della sconfitta del Partito della Sinistra è chiara: dopo anni di esperienze di governo e di altri cabotaggi di potere, le sue scelte politiche non possono più essere mascherate con frasi di sinistra, poiché nessuno crede più che si tratti di un’alternativa di sinistra agli altri partiti.

Poco prima delle elezioni, Die Linke ha sostituito il suo programma elettorale con un “programma immediato”, praticamente identico alle posizioni dell’SPD e dei Verdi su tutte le questioni. Molti elettori hanno preferito votare per l’originale invece che per la copia.

Die Linke non è una reale alternativa al liberalismo di sinistra, che crede di essere progressista, ma continua a essere interessata solo al proprio ambiente e ignora il resto. Quella sinistra senza popolo, per rapportare l’esempio all’Italia ma anche alla Francia e al resto d’Occidente, che va da Calenda a Letta e molto oltre. Il mainstream liberale di sinistra che si vede nei talk e si legge su Domani di Carlo De Benedetti, insomma la sinistra a cui piace flirtare con amministratori delegati delle aziende e pure quella che sventola bandiere rosse, parvenu dello stile di vita di sinistra che poi mandano i loro figli nelle scuole private. La sinistra spettacolare che risplende di eloquenza retorica, ama le apparenze, gli studi televisivi, gli eventi e gli scenari mediatici in cui si sente a suo agio. La sinistra perdente e gaudente.

mercoledì 29 settembre 2021

[...]

 













Suonatori di organetto

 


L’uso capitalistico della tecnologica è il mezzo più potente per aumentare la produttività del lavoro, ossia per accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce.

Il miglioramento tecnologico ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato e di abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l’operaio usa per se stesso, per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa che l’operaio dà gratuitamente al capitalista per la produzione di plusvalore. Infatti, il maggior profitto del capitalista non deriva dalla diminuzione del lavoro impiegato ma dalla diminuzione del lavoro pagato.

In definitiva, questo è un modo surrettizio per prolungare il tempo di lavoro assoluto della giornata lavorativa complessiva! Il capitale impiega il sistema delle macchine solo per aumentare il tempo di pluslavoro, tempo di lavoro che diventa suo unico elemento determinante. Non frega nulla di rendere il lavoro meno faticoso, questo dev’essere chiaro (*).

Ciò consente al capitalista che opera in un determinato settore della produzione di mettersi in pari o addirittura di trarre vantaggio rispetto alla concorrenza. S’innesca così una competizione tecnologica tra singoli produttori. Lo sviluppo tecnologico dovrebbe rappresentare senz’altro un aspetto progressivo, ma qui si tratta, come detto, dell’uso capitalistico della tecnologica, e chi vi si oppone, per esempio la forza-lavoro espulsa dal ciclo produttivo perché sostituita dalle macchine, diventa un avversario del progresso sociale!

È uno dei tanti rovesciamenti della realtà attraverso la manipolazione ideologica! È il tentativo, ahimè riuscito, di subordinare i lavoratori alla logica della produttività del capitale. Ricordo bene quando comparve, come sempre accompagnato da un gergo americanizzante, il mito della “ricomposizione del lavoro” con le sue relative articolazioni: job rotation (rotazione delle mansioni), job enlargement (allargamento delle mansioni), job enrichment (arricchimento delle mansioni), il tutto fatto vivere sulla rincorsa a un’inesistente professionalità. Così parlano i padroni e i loro suonatori d’organetto.

Traduzione: la job rotation è mistificazione di una professionalità intesa come somma, nel tempo, di attività parcellari e facilitazioni nel meccanismo dei rimpiazzi; job enlargement è mistificazione di una professionalità intesa come somma, nell’arco della giornata lavorativa, di attività parcellari; job enrichment è mistificazione di una professionalità di massa, mentre tocca soltanto a qualche “aristocratico”.

Il lavoratore viene asservito alla macchina, possa essere anche un computer semplice o sofisticato, e il suo lavoro è svuotato di ogni contenuto significativo. La tecnologia, così come la scienza di cui è il prodotto, non è mai neutrale e la logica dello sviluppo tecnologico è tutta interna al processo di valorizzazione.

Ed eccone di seguito un altro di rovesciamento di prospettiva, che riguarda la scarsa o nulla propensione dei “prenditori” che operano in Italia a investire in ricerca e innovazione. Se i salari italiani sono tra i più bassi in Europa, ciò dipende dalla scarsa produttività del lavoro, responsabilità che con schietto cinismo ancora una volta è messa sulle spalle degli operai stessi, dediti piuttosto a gavazzare che a lavorare intensamente. Colpa loro se non c’è “crescita”.

Poi i giornali padronali e gli altri media di contorno si dispiacciono per le povere operaie stritolate dalle macchine, alle quali sono stati disattivati i dispositivi di sicurezza che altrimenti “ritardano l’esecuzione del lavoro”! Come se questi fossero casi isolati e non prassi quotidiana comune. Quante volte ho visto sicurezze tolte alle macchine e alle presse, quanti operai invalidi di dita, mani, avambracci. Le chiamano “disgrazie”, dovute a “distrazioni” degli operai stessi. Tra l’altro va ricordato che la cosiddetta prevenzione degli infortuni fa capo fondamentalmente alle USSL e non agli ispettorati del lavoro, e gli addetti a questo settore negli ultimi lustri sono stati più che dimezzati e le risorse destinate a tale scopo sono ridicole.

Un’altra fola che recentemente si sentiva e leggeva spesso, riguardava la cosiddetta compensazione: benché le macchine soppiantino di necessità gli operai nelle branche di lavoro dove sono introdotte, tuttavia indurrebbero un aumento di occupazione in altre branche di lavoro o la creazione di nuove figure lavorative.

Lo straordinario aumento raggiunto dalla forza produttiva nelle più diverse sfere, accompagnato com’è da un aumento in intensità dello sfruttamento della forza-lavoro, permette di adoprare improduttivamente una parte sempre maggiore della classe operaia, ed è sotto gli occhi di tutti che ciò crea sottoccupazione e precariato di massa permanente.

Lo sviluppo tecnologico nella sua forma capitalistica elimina ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dei lavoratori salariati, e minaccia di far saltare col lavoro il loro mezzo di sussistenza rendendoli persone superflue, con sperpero di capacità ed energie lavorative, con devastazioni sociali quale effetto ciecamente distruttivo dall’anarchia del capitale.

(*) I padroni sbraitano che l’introduzione d’impianti e macchinari automatici nel processo produttivo riduce progressivamente la funzione dell’operaio nella produzione, perché dimostrerebbe che il capitalismo moderno limita sempre più lo sfruttamento della forza- lavoro. In realtà, le macchine, per quanto automatiche, sono sempre capitale costante: il loro valore può solamente trasferirsi ai nuovi prodotti, ma non può produrre un incremento. Il fatto che i capitalisti impieghino macchinari automatici e assumano un minor numero di operai e di altri lavoratori, dimostra soltanto come si sia ancor più intensificato lo sfruttamento della forza lavoro mediante l’estrazione di plusvalore relativo, ottenuta attraverso l’intensificazione dei carichi di lavoro e l’uso delle tecnologie più avanzate.


martedì 28 settembre 2021

Crisi, politiche dei redditi e ideologia

 

Non occorre essere dei marxisti, specie in un’epoca in cui il ripudio del marxismo è tutt’uno con le formulazioni enfatiche del riformismo liberale (*), per riconoscere l’estrema fragilità dell’intero sistema economico internazionale. Perché mai la “crisi” è un tema sempre ricorrente nel dibattito economico e politico? Perché la crisi è di carattere sistemico, riguarda il fondamento stesso del modo di produzione capitalistico e le sue vaste e intricatissime propaggini finanziarie.

Il fenomeno dominante della finanziarizzazione dell’economia è un modello di accumulazione in cui il profitto è realizzato sempre più attraverso i canali finanziari piuttosto che attraverso la produzione e il commercio, e rappresenta in gran parte il trionfo del parassitismo economico con aspetti non marginali d’illegalità e di criminalità.

Nel 2008 ciò che è venuto alla ribalta è stato a causa di una grave crisi finanziaria, ma il raggiro continua e prevale in varie forme sofisticate nell’intero sistema finanziario. È sufficiente entrare in una qualsiasi banca per vedersi proporre investimenti allettanti che sono veri e propri agguati al risparmio avvallati dall’adesione formale a vari “profili di rischio”, che in realtà dovrebbero chiamarsi profili di truffa. Ne sono prova gli stati d’animo prevalenti in ampi strati dell’opinione pubblica a riguardo di questo tipo d’attività bancaria.

Sicuramente si approfitta dell’analfabetismo economico molto diffuso, che c’è interesse a mantenere tale, ma è evidente che alla base vi sta l’antagonismo tra l’interesse pubblico e sociale e quello di lobby economico-finanziarie che spingono e “oliano” il meccanismo istituzionale e politico per ottenere una legislazione sempre più lasca e permissiva grazie alla quale imbastire giganteschi azzardi finanziari. Il caso delle banche fallite ne costituisce solo un esempio limitato.

Tutto ciò è fatto passare come una forma marginale di “perversione” del sistema, quando in realtà tali perversioni rientrano come principio e tema essenziale della “libertà” economica. Certi indirizzi economici li troviamo sviluppati e ripetuti negli scritti di chiunque si occupi di questioni economiche, dimenticando spesso, per non dire sempre, che il capitalismo non è soltanto un modo efficiente di produrre merci, ma proprio come tale è al contempo anche la forma più efficiente d’appropriazione della ricchezza sociale da parte di chi è nelle condizioni di farlo. La concentrazione di queste condizioni è in mano a una minoranza d’individui.

Dal lato dottrinale, ossia ideologico, gli apologeti del sistema vogliono far passare nella concezione corrente i rapporti sociali di produzione e distribuzione come dei rapporti che scaturiscono dalle leggi “naturali” dell’economia e che hanno raggiunto la loro più pura espressione e la loro forma più alta e libera nell’epoca attuale. Puntano dunque il loro discorso sui redditi, sulle politiche di redistribuzione e di tassazione, che è un modo per sviare il discorso sulla reale natura della espropriazione/appropriazione.

A insistere sono soprattutto gli specialisti di “sinistra” che pretendono il diritto di considerarci come una massa di stupidi. Ciò che si chiede è di non abusare del privilegio.

Non è qui necessario dimostrare di nuovo che la determinazione del valore e la regolazione di tutta la produzione da parte del valore agisce sì come cieca legge di natura nei confronti di singoli agenti e impone l’equilibrio sociale della produzione in mezzo alle sue fluttuazioni accidentali, ma un conto è la legge del valore che agisce come legge interna al modo di produzione capitalistico, altro discorso sono i rapporti sociali di produzione e di distribuzione. Essi corrispondono esattamente ai rapporti di proprietà e di sfruttamento, e più in generale ai rapporti di potere tra le classi.

(*) Gli ultimi quarant’anni sono stati caratterizzati da un’accentuata polarizzazione della società occidentale (ma non solo). C’è stata la sbalorditiva concentrazione della ricchezza estrema del ceto più ricco della popolazione, ma si è estesa e consolidata anche una classe medio-alta (professionisti, piccoli imprenditori e manager, commercianti, politici e burocrazia apicale, ecc.) che ha accesso a una ricchezza sostanziale. Tale ampio strato benestante non ha niente a che fare con la ricchezza dei veri ricchi, però rispetto alla classe lavoratrice e impiegatizia con bassi salari, non se la passa male, anzi vive bene. Questo processo di trasformazione sociale ha portato, nel tempo, all’approfondimento dell’alienazione materiale, ideologica e politica di questo strato sociale agiato, che costituisce la base della sinistra borghese, mentre gli strati sociali economicamente più svantaggiati o in sofferenza, soggetti a forme di alienazione spesso anche più degradate, non avendo più punti di riferimento politici verso cui guardare, virano sempre più a destra.


lunedì 27 settembre 2021

Elezioni tedesche: la fine di un’epoca

 

Il risultato delle elezioni federali tedesche di ieri riflette la profonda sfiducia popolare per tutti i partiti politici, in Germania come altrove, ma ciò nonostante l’affluenza alle urne è stata del 76,6 per cento, quindi in leggero rialzo soprattutto rispetto al 2009, quando l’affluenza fu del 70,8, il livello più basso fino ad oggi. Questo si spiega con la lunga campagna elettorale e il grande risalto mediatico che ha ricevuto, l’uscita di scena della Merkel, che riapre il gioco politico e ha spinto gli elettori a schierarsi nonostante (o forse proprio per questo) la palesata pochezza dei leader candidati alla cancelleria.

I Democristiani (CDU) e il loro candidato, Armin Laschet, hanno subito una storica debacle. Dopo 16 anni con la Merkel come Cancelliere, la CDU/Unione Sociale Cristiana (CSU bavarese) ha ricevuto meno di un quarto dei voti, con il 24,1%. La CDU/CSU ha perso 8,9 per cento dei voti rispetto alla sua precedente peggiore performance nelle ultime elezioni del 2017 (32,9 percento). Nel 2013, il partito poteva ancora contare sul 41,5% dei voti.

Il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), ha raccolto poco più di un quarto di tutti i voti espressi, con il 25,7 per cento (+5,2). Il loro candidato alla cancelleria, Olaf Scholz, sono riusciti a migliorare rispetto al loro peggior risultato storico di quattro anni fa (20,5%), conquistando voti dallSPD, la sedicente sinistra, e dagli ex elettori CDU.

La Linke ha ottenuto il peggior risultato di sempre, perdendo quasi la metà dei suoi voti rispetto al 2017. Con il 4,9 per cento, alla fine ha superato l’ostacolo del 5 per cento per la rappresentanza parlamentare perché è riuscita a vincere tre mandati diretti (si vota con due schede). In campagna elettorale, i loro candidati non si sono distinti dagli altri sui temi sociali più scottanti, proponendo una coalizione SPD/Verdi/Sinistra, segnalando il loro sostegno alla NATO e al riarmo tedesco.

Il risultato elettorale di Alternativa per la Germania (10,3 per cento) è stato deludente. Sebbene gli esponenti di AfD siano costantemente corteggiati dai media e i partiti tradizionali li integrino sistematicamente nel sistema politico, il partito di estrema destra ha perso il 2,3 per cento dei voti alle elezioni federali e rispettivamente il 4 e il 6 per cento alle elezioni delle autonomie locali tenutesi contemporaneamente nel Meclemburgo- Pomerania occidentale e a Berlino.

I Verdi hanno guadagnato quasi il 6% e ottenuto il miglior risultato con il 14,6%, ma erano dati sopra il 20%. Sono disponibili a entrare in una coalizione perché vogliono governare.

Christian Lindner, il candidato principale e presidente dei liberali dell’FDP, che ha ottenuto l’11,5% (+0,8%), ha auspicato un accordo per una cosiddetta coalizione giamaicana, CDU/CSU, FDP e i Verdi. Ma Lindner non ha escluso nemmeno colloqui con l’SPD.

Ieri sera, Scholz e Laschet hanno formulato proposte apparentemente contrastanti per guidare il prossimo governo federale e avviare rapidamente colloqui esplorativi e di coalizione con i liberal-democratici e i Verdi.

Per certi versi, quella tedesca pare una situazione politica assai variegata che ricorda la cosiddetta prima Repubblica italiana. La formazione di un nuovo governo potrebbe richiedere mesi (prima di natale, poiché la Germania ha la presidenza del G7 nel 2022), proprio come quattro anni fa. In termini aritmetici sarebbe anche possibile una continuazione della grande coalizione CDU-SPD. Tuttavia ci sono molte indicazioni che la Germania sarà governata da un’alleanza tripartita per la prima volta dagli anni Cinquanta.

Queste elezioni segnano la fine di unepoca cono luscita di scena della Merkel, e fissano il declino di CDU/CSU. I recenti scioperi dei macchinisti, degli addetti alle consegne e delle badanti stanno a indicare che anche sul piano della protesta sociale qualcosa si sta muovendo.


Il colore della crisi

 


Oggi è la giornata dedicata a indovinare di quale colore potrebbe essere il prossimo governo federale tedesco. Non cambierà significativamente nulla a livello politico, ma a livello sociale qualche turbolenza si farà sentire, in Germania e altrove.

domenica 26 settembre 2021

Elezioni tedesche, spinte al riarmo e venti di guerra


Oggi si vota in Germania per il rinnovo del Bundestag. I sondaggi elettorali mostrano forti fluttuazioni che riflettono la sfiducia degli elettori. Nessun partito ottiene più del 25% delle preferenze e un terzo degli elettori resta indeciso, anche alla vigilia delle elezioni.

La campagna elettorale è stata dominata dagli stessi problemi che stanno arrivando al dunque in tutta Europa e nel mondo intero, e che gli ideologi borghesi chiamano “crisi della democrazia”. Si tratta di altro, ossia delle contraddizioni esplosive del sistema capitalistico alle quali nessuno dei partiti ha una risposta, com’è emerso anche durante il dibattito finale di giovedì tra tutti i principali candidati dei partiti rappresentati in parlamento.

sabato 25 settembre 2021

Marx, "quell’unica cosa che sapeva"


Sull’ultimo Domenicale, compare in seconda pagina una dignitosa recensione (Comprendere Marx, non confutarlo) scritta da Mario Ricciardi per la nuova edizione di Adelphi della biografia intellettuale di Marx, che fu pubblicata negli anni Trenta da Isaiah Berlin con il titolo Karl Marx. His Life and Enviroment. È l’unica monografia pubblicata da Berlin, poiché tutti gli altri libri sono raccolte di saggi o testi di lezioni e conferenze.

venerdì 24 settembre 2021

Passato e presente

 

Oggi sono in vena d’intimismi e di compilazione d’elenchi telefonici.

Ogni settimana ho tra le mani alcuni libri e vedo quale regge. Pratico questa igiene della lettura da oltre cinquant’anni, ossia da quando ho lasciato i romanzi adolescenziali. All’epoca avrei dato la mia intera collezione di francobolli linguellati per leggere una nuova storia avvincente. Andavo a consegnare per conto di un droghiere merce che valeva cinquanta volte quello che guadagnavo in un pomeriggio e che poi, come un serpente a digiuno sulle tracce di una rana, investivo da Bertoni o Rigattieri, felici di sedurmi con libri di largo smercio.

I romanzi galanti o erotici allora ancora in voga e che si leggevano con una sola mano non rientravano nel mio genere. Non perché fossi un’allegoria vivente della castità, ma per questione di temperamento prediligevo tutt’altra azione, pur facendo conto di una celebre sentenza di Terenzio. Al povero Salgari preferivo le spregiudicate avventure mediterranee di Capitan Bavastro. Adoravo Verne, London e per un lungo inverno l’intera produzione di Dumas. Insomma, le solite cose per quell’età e di quell’epoca.

Poi, crescendo, rapidamente venne Melville, mi feci prestare Tolstoj, e con James fu un amore breve ma intenso, una lunga amicizia quella con Marguerite de Crayencour. Mann e i romanzi storici di Gore Vidal non sono stati delle meteore. Non ho legato con Stendhal, non molto con Proust, trovai geniale Musil, che però nel lungo diventa noioso. A Hemingway preferivo Steinbeck, allo scozzese Stevenson il proletario Destouches. I nostri Verga, De Roberto, Tomasi, De Marchi, Satta, dosi moderate di Pirandello, la combriccola degli scrittori triestini è tutta bella gente. Non ho citato Gadda, Palazzeschi e altri ancora? C’erano, e pure quel sanremese nato a Cuba che piace al mondo intero tranne che a me. Oddio, non capisco proprio niente di letteratura.

L’intera collana del Teatro di Einaudi è stata un caposaldo, vera passione. Un po’ di poesia, sempre negletta l’ammetto. Un romanzo famoso che non ho letto? Sicuramente ce ne saranno molti, mi viene in mente il capolavoro di Hugo, ripreso in mano più volte però mai digerito tutto. Per quanto riguarda la saggistica non voglio dire niente perché sarebbe un discorso lungo, assai contorto e di citazioni che si potrebbero prestare a fraintendimenti clamorosi.

Insomma, ho sgranocchiato parecchio, e riesco a giudicare se un libro è quello “giusto” dopo alcune pagine, ma possono bastare poche righe. Ho poco gusto per le storie narcisistiche della piccola borghesia letteraria, in gran parte spazzatura, né mi piacciono i “gialli” scritti per fornire cadaveri e colpevoli ai lettori, quelli della confraternita alcolica del romanzo americano dove tutti bevono, hanno smesso d’ubriacarsi o provano a farlo. Pur riconoscendo che Chandler e Hammett meritano grande attenzione, ovviamente, e su Poe, loro antenato, non si discute. La Woolf è troppo inglese e dunque viva Simenon che offre tutt’altra atmosfera d’ambiente.

Sull’oggi. Prediligo la letteratura che non vince premi e classifiche, posto che il volume delle vendite non è quasi mai metro per misurare quello del talento. Cito un solo esempio. I libri di Stefania Auci, sulla Sicilia dei Florio, di personaggi cancellati dal tempo, in testa alle classifiche di vendite e di gradimento, raccontano di vicende interessanti, non sono scritti male (ma non bene), e però risentono di un certo stereotipo letterario, mancano di qualcosa (e anche più) per prendermi davvero. Auci non è Edith Wharton, e non basta avere una storia di declini familiari da raccontare. Questo fa in genere la differenza tra la letteratura odierna e quella di un passato che non si può vivere una seconda volta.


giovedì 23 settembre 2021

Fenomeni, prendete atto


Posso comprendere che vi sia un obiettivo da raggiungere. Non si fa che parlare di questo, ossia della vaccinazione e del correlato passaporto vaccinale. Il vaccino non è obbligatorio, ma surrettiziamente prescrittivo. È diventato un’ossessione, tanto da far passare come assurda se non ridicola ogni tipo di critica e di opposizione nel merito.

Molti fingono, moltissimi invece non se ne avvedono per davvero di vivere in una situazione in cui tendenzialmente si è liberi solo di obbedire. Ci sono momenti in cui, a sentire certi discorsi a leggere certe cose, pare di essere tornati, pur sotto mutate forme che si vanno affermando, a un passato considerato definitivamente concluso, laddove la libertà era intesa quale espressione del dovere patriottico, ora diventato morale e civico!

Si chiede a un’immunologa o a un infettivologo, che mesi fa non sapevamo chi fossero e di che cosa s’occupassero, pareri e corroboranti disamine sulle più disparate questioni, dalla politica al clima, dall’economia al gossip. Una situazione che è diventata tanto spettacolare per tutti quanto remunerativa per questi affamati di visibilità mediatica e gratificazione sociale.

La sequenza degli eventi che ci ha condotti sin qui è connotata d’iperboli. S’è decretato lo stato d’emergenza che dura da venti mesi, subito parlato di “guerra”, incitato a manifestare entusiasmo dai balconi, istituito un’équipe di tecnici ed “esperti” sulle cui indicazioni s’è poi fatto strame di tutto, non di rado con provvedimenti amministrativi paradossali e umoristici.

Ci siamo familiarizzati con questo clima sociale, e chi osa anche solo accennare a una qualsiasi forma d’opposizione è considerato tout court un paranoico. Ogni erba nello stesso fascio: un Cacciari, Barbero, Canfora, vale qualsiasi altro, anche a chi siano scappati i neuroni. È la situazione stessa, creata ad arte, a essere diventata largamente paranoica. Almeno di questo si prenda atto e si smetta di fare i fenomeni. 

Un crollo controllato?


«Gli analisti di Wall Street ripongono la loro fiducia nel Partito comunista cinese. [...] I mercati azionari si stabilizzano dopo il sell-off globale di lunedì». Non male questo titolo fiduciario.

mercoledì 22 settembre 2021

Tutti all'Arena




















Perché mai dovremmo credere a Biden ?

 

Nel 2016 il gruppo industriale francese Naval Group ha firmato con l’Australia un contratto del valore di 55 miliardi di euro per la progettazione di un nuovo modello di sottomarini e la consegna in 12 unità. Vittima di ritardi e sforamenti di budget, un primo progetto presentato nel febbraio di quest’anno è stato bocciato perché troppo costoso. Diverse visite ufficiali di alto livello (comprese quella presidenziale) tra i due paesi hanno cercato di sistemare le cose.

Gli australiani hanno però deciso di avere una nuova storia d’amore annunciando la stipula di un accordo con gli Usa per cui acquisteranno sottomarini nucleari statunitensi. La Francia è stata informata solo un’ora prima della conferenza stampa congiunta tenuta dal presidente degli Stati Uniti con i primi ministri australiano e britannico per annunciare questo nuovissimo patto di sicurezza trilaterale: AUKUS.

Questa dimostrazione di forza, questa mossa anti-cinese, ovviamente non è stata gradita a Pechino, dove la vedono come aggressiva, un gesto da guerra fredda. E avvertono l’Australia che non dovrebbe rischiare la vita dei suoi soldati nel Mar Cinese.

La Francia dal canto suo ha richiamato per consultazioni i propri ambasciatori da Washington e da Canberra. La Nuova Zelanda, tanto per dire, sta già cercando di rafforzare i suoi legami con l’Europa e anche l’Indonesia (275 milioni di ab.) ha espresso apertamente il suo sgomento.

Non è la prima volta che la Francia s’oppone alla politica estera americana. Senza tornare alle antiche idiosincrasie di un De Gaulle, nel 2003 Chirac e Villepin declinarono l’invito a partecipare all’avventura bellicosa in Iraq con lo sdegno di due flâneurs che spolverano escrementi di piccione dispettoso delle loro giacche. Il gallo francese contro l’aquila americana rappresenta un innegabile momento di magnificenza francese, che però non ha scoraggiato anni di attacchi islamisti diretti contro il suo territorio e i suoi cittadini (ma a pensar male si fa peccato).

E pensare che solo a giugno scorso, Biden e Macron camminavano a braccetto come due amanti sul lungomare in Cornovaglia, durante il vertice del G-7. E poi si scambiarono frasi melense su twitter come due scolari delle medie. E invece ora Macron non solo non è andato a New York, ma ha annullato anche la sua apparizione virtuale all’Assemblea generale e il suo ministro degli esteri si è rifiutato di incontrare Antony Blinken, attuale Segretario di Stato, di origine ucraina (non si fanno mancare niente).

È la rinascita della diplomazia aggressiva, confermata dal discorso di Joseph Biden tenuto ieri nell’elegante tribuna di marmo verde delle Nazioni Unite. È un modo molto ottocentesco, minaccioso e rissoso, d’intendere i rapporti tra le potenze. Mascherato da frasi di circostanza, tipo: “Sono qui oggi per la prima volta in vent’anni con gli Stati Uniti non in guerra, abbiamo voltato pagina”; oppure il solito richiamo per la difesa dei “diritti umani” (in casa altrui).

Voltato pagina? Le spese militari degli Stati Uniti sono aumentate nel 2020 fino a raggiungere la cifra record di 778 miliardi di dollari, quasi il 40% della spesa militare totale nel mondo. Il Bulletin of Atomic Scientists segnala che nel corso di un solo anno la stima dei costi per le armi nucleari è aumentata di 113 miliardi di dollari. Conclusione: “Il budget della difesa presentato dall’amministrazione Biden assomiglia molto a quello dell’amministrazione Trump”. E anche la politica estera di Biden è una fedele continuazione di quella del suo predecessore, salvo i toni più sfumati rispetto a quelli del cafone rifatto.

Quando l’America va in guerra, è in nome della pace. Quando frammenta il mondo in blocchi commerciali e alleanze militari, lo fa in nome dell’unità globale. Quando cospira e fomenta conflitti locali ci mette l’etichetta dei “diritti umani”. Per tre decenni Washington ha usato questi falsi pretesti per condurre guerre in tutto il mondo. A parte gente come Federico Rampini, che fa il suo mestiere, perché mai dovremmo credere a Biden e prendere esempio dagli Stati Uniti, con la loro violenza, le bande, i ghetti, dove l’aspettativa di vita è in declino da anni?


martedì 21 settembre 2021

Un giorno del prossimo futuro

 

Settantasei anni fa si costituiva l’Organizzazione delle Nazioni Unite, allo scopo di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità”. Nel primo articolo della sua Carta prometteva misure collettive efficaci per la prevenzione e la rimozione delle minacce alla pace e la soppressione di atti di aggressione o altre violazioni della pace.

L’11 dicembre del 1946, a conclusione dei processi di Norimberga per i crimini di guerra nazisti, l’Onu affermava che “la pianificazione, la preparazione, l’inizio o lo svolgimento di una guerra di aggressione” sono crimini punibili con la morte.

La fondazione dell’ONU e di altre istituzioni a carattere internazionale non risolsero alcuna delle contraddizioni essenziali che avevano portato alle guerre mondiali, soprattutto quella che intercorre tra un sistema economico mondiale e quello degli Stati-nazione, vale a dire bestie che si combattono l’una contro l’altra per la preda.

Non è casuale che l’ONU stessa, con lo schermo della solita retorica umanitaria, abbia più volte approvato violazioni del diritto internazionale e atrocità di ogni tipo, come del resto era già avvenuto in precedenza con la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale, che non riuscì a fermare l’ascesa del fascismo e il prevedibilissimo scoppio della seconda guerra mondiale.

In tal senso ha avuto un bel dire, lo scorso 10 settembre, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, nel denunciare “l’incalcolabile danno sociale e ambientale che potrebbe essere causato dalla ricerca del profitto”.

Assenti i presidenti di tre delle cinque potenze del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – Emmanuel Macron, Vladimir Putin e Xi Jinping –, poiché i preparativi per la guerra degli Stati Uniti contro la Cina provoca una delle più profonde crisi diplomatiche dalla fine della Guerra Fredda.

Ci sarà invece il presidente degli Stati Uniti, Joseph Biden, con le mani sporche di sangue dopo che i funzionari statunitensi hanno ammesso che almeno 10 civili innocenti, tra cui sette bambini, sono stati uccisi in un attacco di droni a Kabul il 29 agosto.

Il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, che rappresenta la Francia all’Assemblea generale in assenza di Macron, ha ammonito: «Vediamo l’ascesa di una strategia indo-pacifica lanciata dagli Stati Uniti che è militarmente conflittuale. Questa non è la nostra posizione. Non crediamo nella logica del confronto militare sistematico, anche se a volte dobbiamo usare mezzi militari».

Ieri, la presidente della Commissione dell’Unione europea, Ursula von der Leyen, si è ufficialmente unita a Parigi per chiedere spiegazioni formali a Washington: «Uno dei nostri Stati membri è stato trattato in un modo inaccettabile. Vogliamo sapere cosa è successo e perché», aggiungendo che la situazione deve essere chiarita «prima di continuare con il business as usual» (Ansa).

Se le parole hanno ancora un senso, impegnarsi in uno “scontro militare sistematico”, significa prepararsi alla guerra. I conflitti sui profitti e sull’influenza strategica che stanno esplodendo tra le potenze della NATO sono guidati dall’imminente prospettiva di una guerra globale degli Stati Uniti contro la Cina, incoraggiata da Gran Bretagna, Australia e altri sodali, intrapresa nel tentativo di mantenere il primato mondiale statunitense in flagrante violazione del diritto internazionale.

I preparativi di guerra da una parte e dall’altra testimoniano l’impossibilità di modellare una politica internazionale coerente per affrontare, mobilitare e coordinare le risorse dell’umanità per risolvere uno qualsiasi dei gravi e grandi problemi che l’umanità ha davanti a sé.

Ancora una volta stiamo andando a grandi passi con gli occhi chiusi verso la catastrofe. Con una differenza non da poco: oggi sono disponibili armi di distruzione di massa che possono mettere fine non solo alla nostra civiltà, ma a ogni forma di vita sul pianeta. Quanto siamo consapevoli di ciò che sta avvenendo, distratti come siamo dalle diatribe irresponsabili, dall’una e dall’altra parte, su questioni irrilevanti e persino comiche?

*

Un giorno del prossimo futuro, i sopravvissuti si chiederanno chi siano i criminali da appendere a un lampione che hanno scatenato la terza guerra mondiale.

Una domanda più pertinente sarà quella attinente al retroterra politico, ideologico e psicologico dei protagonisti di quella tragedia, di ogni ordine e grado.

Se si fossero affrontati onestamente i fatti, mettendo in secondo ordine gli interessi più prosaici, si sarebbe potuta evitare la guerra che ha distrutto letteralmente il pianeta cancellando l’esistenza di molte specie e mettendo in forte dubbio la prosecuzione di quello umana.

Si sottopose l’avversario alla cura che già fu approntata nel 1941 per il Giappone, a base di sanzioni e restrizioni economiche di ogni tipo, ossia una strategia d’accerchiamento tesa a fomentare l’odio reciproco e a far reagire il “nemico” nel senso voluto per poi annientarlo.

Nessun paese democratico, tantomeno gli Stati Uniti, potrà stornare da sé o rifuggire dalla propria responsabilità per ciò che è accaduto.


Il fattore tempo

 

Tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940, sul fronte occidentale non accade nulla di significativo. La chiamarono la strana guerra o guerra finta (phoney war). Gli ospedali britannici erano pronti a ricevere 30.000 feriti al giorno, ma erano vuoti. Si protessero gli edifici con i sacchetti di sabbia, s’indossarono le uniformi e le moderne maschere antigas erano a portata di mano; tuttavia nessuno si sentiva in pericolo.

Eppure si contarono negli ultimi quattro mesi del 1939 oltre 2000 vittime causate dai blackout autoimposti, mentre furono solo tre i caduti britannici sul fronte occidentale.

L’Unione Sovietica il 17 settembre aveva invaso la Polonia riprendendosi quanto aveva ceduto con la cosiddetta pace di Brest-Litovsk del 1918. In novembre, invase la Finlandia. L’opinione pubblica occidentale rimase scandalizzata. Gran Bretagna e Francia erano entrati in guerra per difendere le piccole nazioni, ma nel caso dell’aggressione russa alla Polonia e alla Finlandia lasciarono fare.

Se aveste potuto decidere con un clic del vostro mouse, che cosa avreste deciso di fare in tale occasione? La follia di iniziare una guerra con l’Unione Sovietica prima che la Germania fosse sconfitta non sembrava influire sull’opinione pubblica, né aver peso su alcune teste calde della rappresentanza politica e della casta militare.

Un paio d’esempi per illustrare la situazione. Il 20 marzo, dopo otto giorni dalla resa della Finlandia, il primo ministro Édouard Daladier si dovette dimettere poiché 300 deputati francesi si erano astenuti sulla mozione di fiducia al suo governo per il mancato aiuto da portare alla Finlandia.

Maxime Weygand, già capo di stato maggiore generale dell’esercito, poi comandante delle forze francesi in Medio Oriente e capo del teatro d’operazioni del Mediterraneo Orientale, dal maggio 1940 capo supremo delle forze armate francesi, commentò in una sua lettera che considerava “essenziale sconfiggere l’Unione Sovietica in Finlandia”.

Le decisioni strategiche non possono seguire l’orientamento emotivo dell’opinione pubblica, e neanche quello degli “esperti”, che proprio perché tali spesso non possiedono la necessaria ampiezza di visione dei problemi e della loro interconnessione.

Spesso, per non dire sempre, il fattore tempo è fondamentale in qualsiasi tipo di decisione. Come accennato qui sopra, l’attesa può rivelarsi decisiva per il successo o il fallimento quanto la prontezza fulminea nell’iniziativa. Da evitare sempre è l’indecisione.

Anche in tal caso citerò due esempi emblematici. Churchill ed altri nel gabinetto di guerra (riunione del 16 dicembre 1939) avevano in progetto di mandare un corpo di spedizione in Finlandia; in realtà lo scopo era quello di bloccare l’esportazione verso la Germania di minerale ferroso dalla Svezia e dal porto norvegese di Narvik. Fortunatamente il 12 marzo 1940 la Finlandia si arrese, altrimenti si sarebbe arrivati alla guerra con l’Unione Sovietica.

In capo a Churchill sta in gran parte la responsabilità della grave sconfitta subita dalle truppe inglesi in Norvegia nellaprile successivo. Quella sconfitta non fu dovuta soltanto all’impreparazione e improvvisazione, all’equipaggiamento e armamento inadeguato, alla mancanza di copertura aerea, ma anche all’indecisione dimostrata dal politico inglese che fino all’ultimo cambiò idea ripetutamente sull’obiettivo delle operazioni alleate, indeciso tra Narvik e Trondheim, tanto da aver “portato i capi di stato maggiore sullorlo dell’ammutinamento”. Di ciò, Churchill evita di dire nelle sue memorie. Il sottosegretario permanente dell’ufficio di guerra e amico di Churchill, James Grigg, il 12 aprile 1940 ebbe a dire: “Dobbiamo fare in modo che il primo ministro metta mano alla faccenda prima che Winston e Tiny [Ironside] mandino a puttane tutta la guerra”.

Il 26 maggio, mentre il corpo di spedizione britannico cominciava la ritirata verso Dunkerque, il ministro degli Esteri Halifax, e il neo premier Churchill, pensarono che era giunto il momento di provare a trattare con Hitler. Churchill dichiarò che, pur considerando “incredibile che Hitler proponesse condizioni accettabili”, se fosse stato possibile “uscire da questo pasticcio cedendo Malta e Gibilterra [all’Italia, quale intermediario] e qualche colonia africana [alla Germania], non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione. L’unica strada sicura, comunque, “era convincere Hitler che non avrebbe potuto batterci”.

Quello fu il giorno in cui Hitler si trovò più vicino alla vittoria. Due giorni prima, rassicurato da Göring che la sua Luftwaffe poteva distruggere da sola il corpo di spedizione britannico ormai intrappolato sulla cosata francese, e temendo che il terreno si rivelasse troppo paludoso per i suoi carri, aveva ordinato alle Panzerdivision di arrestarsi ad appena 24 km da Dunkerque. Il 26 maggio, Hitler aveva revocato questo discusso ordine e il giorno dopo reparti d’assalto tedeschi erano arrivati a meno di 8 km da Dunkerque.

Quello stesso 26 maggio, alle 19.00, fu dato l’ordine per l’operazione Dynamo, l’evacuazione del corpo di spedizione britannico dalla Francia, che riporterà in Inghilterra 338.226 soldati, di cui oltre 125.000 francesi. Quella finestra temporale di due giorni, tra l’ordine di arrestarsi e il contrordine di riprendere l’offensiva, impedì a Hitler di vincere nel 1940.

*

Dunque, il fattore tempo. Se si perderà questa “guerra” alla pandemia virale, non sarà questo o quel governo pro-tempore ad averla persa qui e altrove. Ci pensino bene i “padroni del bene comune”, poiché in tal caso, dio non voglia, verrebbe giù tutto il palco definitivamente. Lo sanno, eccome se lo sanno.

lunedì 20 settembre 2021

Nuovi dati sull'efficacia vaccinale

 

Oggi sul sito del Sole nuovi dati, quelli per il periodo dal 23 luglio a settembre. I numeri assoluti relativi agli over 80:

casi d’infezione: 5.116 vaccinati; 164 parzialmente vaccinati; 1.859 non vaccinati; questi ultimi rappresentano solo il 26% dei casi;

ricoverati dal 22 luglio al 5 settembre per covid: 1.145 vaccinati; 49 parzialmente vaccinati; 705 non vaccinati, che dunque rappresentano poco più di un terzo (37%) dei ricoverati;

terapia intensiva: 56 vaccinati; 2 parzialmente vaccinati; 52 non vaccinati, vale a dire che la metà dei ricoverati in t.i. hanno ricevuto il vaccino;

decessi, dal 23 luglio al 22 settembre (questa è la data riportata): 288 vaccinati; 20 parzialmente vaccinati; 294 non vaccinati, vale a dire che i non vaccinati sono leggermente di meno dei vaccinati.

Per la coorte 60-79, i numeri assoluti sono:

casi d’infezione: 11.620 vaccinati; 1.171 parzialmente vaccinati; 8.629 non vaccinati; questi ultimi rappresentano il 40,3% dei casi;

ricoverati dal 22 luglio al 5 settembre per covid: 792 vaccinati; 163 parzialmente vaccinati; 1.903 non vaccinati, che dunque rappresentano esattamente due terzi (66,6%) dei ricoverati;

terapia intensiva: 88 vaccinati; 16 parzialmente vaccinati; 366 non vaccinati; vale a dire che in questa coorte d’età, per quanto riguarda i casi gravi, questi rappresentano nettamente la maggioranza tra i non vaccinati;

decessi, dal 23 luglio al 22 settembre: 100 vaccinati; 31 parzialmente vaccinati; 353 non vaccinati, vale a dire che i non vaccinati sono oltre due terzi dei deceduti, tuttavia non si dispone per questi casi di dati sulle condizioni di salute pregresse.

Per quanto riguarda le coorti anagrafiche 12-39 e 40-59, i casi gravi e i decessi sono nettamente a sfavore dei non vaccinati, ma anche in tali casi, numericamente modesti (rispettivamente 12 e 135 casi), non sono riferiti dati sulle condizioni di salute pregresse.

Considerazioni: il covid negli over 80 va a sommarsi ad altre patologie importanti e i casi letali tra vaccinati e non vaccinati non sono numericamente dissimili. Anche i casi d’infezione grave nei 60-79 le condizioni di salute pregresse hanno un’incidenza decisiva per quanto riguarda il decorso grave e l’esito mortale. Il vaccino invece potrebbe avere un impatto migliore nella coorte 40-59, ma anche in tal caso in rapporto alle condizioni di salute del paziente. La vaccinazione è ininfluente o quasi per quanto riguarda il decorso grave e l’esito mortale man mano che si scende con l’età. Questi ultimi soggetti, al pari degli altri, possono trasmettere l’infezione, e perciò il vaccino è una misura profilattica auspicabile. Resta da valutare il rapporto rischio/beneficio in capo ai soggetti più giovani. Pertanto, sulle generali, questi dati confermano, in relazione agli effetti epidemici, quanto osservato da 20 mesi in qua.


Grandi mosse strategiche

 

«L’Indo-Pacifico e l’Europa rappresentano oltre il 70% del commercio mondiale di beni e servizi e oltre il 60% di quello estero per i flussi d’investimenti diretti. Gli scambi commerciali tra l’Indo-Pacifico e l’Europa sono più elevati rispetto a qualsiasi altra regione geografica del mondo, con scambi annuali che raggiungono 1.500 miliardi di euro nel 2019».

Così si legge in un documento dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza indirizzato al Parlamento e al Consiglio europei, datato da Bruxelles il 16 settembre, il giorno dopo in cui il presidente Josph Biden annunciava l’alleanza militare strategica tra Australia-Regno Unito-USA (AUKUS).

Evidentemente il documento europeo era già stato predisposto e forse non è casuale che Biden lo abbia voluto anticipare mettendolo in ombra. Tuttavia il documento è comunque significativo, in quanto indica le basi economiche dei crescenti conflitti tra Washington e le potenze europee in Asia e nello scacchiere Indo-Pacifico.

Questo dà la dimensione degli interessi in gioco e delle frizioni innescate dall’accordo AUKUS. Non solo la Francia, ma l’UE non ha gradito l’unilateralità della decisione Usa, dopo quanto accaduto con la crisi afghana e il frettoloso e caotico ritiro deciso da Washington.

Nelle 18 pagine del documento del responsabile degli Esteri della Commissione europea si legge ancora:

«Il futuro dell’UE e dell’Indo-Pacifico sono indissolubilmente legati dall’interdipendenza delle economie e le sfide globali comuni. La regione comprende sette membri del G20 – Australia, Cina, India, Indonesia, Giappone, Repubblica di Corea e Repubblica del Sud Africa – così come l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), partner sempre più importante per l’UE. La regione ospita i tre quinti della popolazione mondiale, produce il 60% del PIL globale, ha contribuito per i due terzi alla crescita economica pre- pandemica ed è in prima linea nell’economia digitale. Le regioni ultraperiferiche dell’UE e i paesi e territori d’oltremare, costituzionalmente legati ai suoi Stati membri, sono parte importante dell’approccio dell’UE all’Indo-Pacifico».

Mentre Washington intensifica la sua spinta bellica contro la Cina, si scontra con le potenze europee che stanno cercando di affermare i loro interessi commerciali e strategici (l’UE è il “principale investitore”) in competizione nella regione dell’Indo-Pacifico.

Dietro la retorica sul multilateralismo evocata in ogni incontro di vertice internazionale c’è un’accelerata rivalità tra le potenze sulla divisione dei profitti realizzati in Asia, non solo grande fabbrica ma anche vastissimo mercato, anche sotto il profilo della crescente corsa agli armamenti poiché tutti sanno che un conflitto aperto e diretto tra Usa-Cina è solo questione di tempo.

In particolare la Francia è la più colpita dall’accordo militare AUKUS, che ha portato l’Australia a cancellare un accordo da 56 miliardi di euro per l’acquisto di sottomarini di fabbricazione francese. Giovedì, il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, dopo aver denunciato l’accordo come una “pugnalata alle spalle”, è apparso sabato per un’intervista in prima serata alla televisione France2. Ha detto che il richiamo degli ambasciatori intendeva «mostrare ai nostri partner di lunga data che c’è una rabbia molto forte, c’è davvero una grave crisi tra di noi». Ha soggiunto in modo insolitamente schietto: «Ci sono state bugie, doppiezza, una grave violazione della fiducia, c’è stato disprezzo. Quindi, le cose non stanno andando bene tra di noi, per niente. Il richiamo dei nostri ambasciatori è stato fatto per cercare di capire, ed è anche un modo per rivalutare la nostra posizione e per difendere i nostri interessi in Australia e negli Stati Uniti».

Il Wall Street Journal ha denunciato le richieste francesi di “autonomia strategica” da Washington e poi ha avvertito l’intera UE: «L’Europa non può giocare il gioco della Cina del divide et impera su questioni economiche e strategiche senza conseguenze per le sue relazioni con gli Stati Uniti».

È stato fatto un gran lavoro propedeutico di propaganda e ora esiste un consenso politico negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Australia per contenere, con qualsiasi mezzo, l’espansionismo economico cinese.

Giovedì c’è stata una cena di lavoro tra Angela Merkel e Macron. Non avranno certo parlato solo di vini del Reno e di Camembert.

Storicamente è un fatto che quando si fanno grandi mosse strategiche, chi ne è fuori s’incazza.

domenica 19 settembre 2021

A confronto il lockdown è uno scherzo


Davanti a una bottiglia di Valpolicella ripasso del diciotto, in attesa che arrivi in tavola l’arrosto, leggevo un articolo del Sole scritto a New York. Tratta di sottomarini: patchwork di comunicati stampa. Poteva esser scritto comodamente a Trebaseleghe con meno spesa e miglior esito. Fuori piove, prosit.

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Esiste una differenzazione terminologica fra sommergibili e sottomarini in riferimento alla capacità di un battello subacqueo di permanere in immersione per determinato un tempo. Chi sostiene che tale differenza è data dal tipo di sistema propulsivo, per cui si parla di sommergibili nel caso di propulsione convenzionale diesel-elettrica o affine e di sottomarini se la propulsione è nucleare, a mio non modesto avviso non è esattamente nel giusto.

Il termine sommergibile va attribuito a un mezzo navale concepito e realizzato per operare prevalentemente in superficie, ma in grado di immergersi al fine di occultarsi per intraprendere un attacco o per sfuggirvi. Tutti i mezzi subacquei fino alla comparsa del Type XXI tedesco, entrato in servizio nel 1945, in grado di rimanere in immersione, o a quota snorkel (dispositivo per il ricambio d’aria), per alcuni giorni, fanno parte della categoria dei sommergibili.

La superiorità tecnica del Type XXI fece sì che questa classe di U-boat divenisse il punto di riferimento per lo sviluppo dei sottomarini nel dopoguerra, vale a dire battelli destinati ad operare prevalentemente in immersione, che non hanno bisogno di emergere frequentemente per rigenerare l’aria o per far funzionare i motori termici per la propulsione.

Il sottomarino nucleare è un’evoluzione successiva. Fu progettato e realizzato nei primi anni Cinquanta e avrebbe rivoluzionato in maniera radicale la guerra subacquea, ottenendo alte velocità in immersione (si raggiunsero dapprima i 23 nodi, ora pare si superino i 40) con autonomia quasi illimitata, condizionata soltanto dai limiti di sopportabilità dell’equipaggio. Queste qualità hanno determinato il definitivo abbandono del nome a questo tipo di unità, che passò da sommergibile a sottomarino.

Come fa un sottomarino nucleare a rimanere sott’acqua per oltre un mese (il turno di una missione è mediamente più di due mesi) e teoricamente per anni? Il reattore nucleare non alimenta, sottoforma di energia elettrica, solo le turbine a vapore per la propulsione, ma garantisce il funzionamento di due dispositivi fondamentali: quello che distilla l’acqua di mare per ottenere quella dolce, e l’altro dispositivo, che tramite un semplice processo di elettrolisi “estrae” ossigeno dall’acqua di mare per rigenerare l’aria all’interno del battello.

Lo stacco rispetto ai sottomarini convenzionali è netto.

Teoricamente il sottomarino nucleare può rimanere in immersione per tempi lunghissimi, tuttavia il limite non è tecnico bensì umano, e riguarda, come accennato, la salute dell’equipaggio, soprattutto quella mentale. Infatti, l’equipaggio rimane chiuso in un cilindro d’acciaio in spazi ridotti e in stretta promiscuità, , privato della luce naturale, in totale isolamento e senza alcun tipo di comunicazione con l’esterno se non quelle strettamente necessarie con il comando della marina, attraverso trasmissioni radio in bassissima frequenza.

Non si tratta di dettagli. Il lockdown a causa dell’epidemia virale è stato un trastullo a confronto.