martedì 10 agosto 2021

Bye Bye Afghanistan

 

Dopo decenni di occupazione da parte di truppe statunitensi e dei loro alleati, la disfatta delle forze regolari afghane per mano dei talebani sta provocando recriminazioni sempre più amare nei circoli dirigenti statunitensi sul tema: “Chi ha perso l’Afghanistan?” Il Wall Street Journal ieri ha pubblicato un editoriale che ha definito il ritiro degli Stati Uniti una “debacle” dovuta a “Biden, che ha ignorato i consigli dei militari e si è ritirato in modo così avventato e senza un piano per prevenire il disastro”.

Una catastrofe militare di questa portata non può essere attribuita alla mancanza di un “piano”. In realtà è un piano di ritiro, già annunciato, che dovrebbe concludersi alla data fatidica dell’11 settembre prossimo. Un piano d’abbandono di un regime che è una cleptocrazia corrotta, i cui esponenti si sono arricchiti con l’appropriazione indebita degli aiuti statunitensi. Come avvenne a suo tempo nel Vietnam del Sud e in altri casi “gestiti” dagli Usa. E fa parte di un nuovo piano strategico.

In Vietnam, ci sono voluti più di due anni dal ritiro delle truppe statunitensi perché le forze del Vietnam del Nord e del Fronte di liberazione nazionale prendessero Saigon. In Afghanistan sarà questione di settimane. L’abbandono dell’Afghanistan fa parte dell’implosione della politica perseguita dall’imperialismo statunitense, dopo quello sovietico, nel corso di oltre tre decenni. Dalla prima guerra del Golfo Persico e dagli interventi statunitensi nell’ex Jugoslavia negli anni 1990, Washington è stata sempre in guerra da allora. Ma a morire non sono più i figli della media borghesia statunitense, quella che paga le tasse e soprattutto vota. 

Nel giro di appena una settimana, i talebani hanno preso possesso di sei capoluoghi di provincia. Venerdì Zaranj, vicino al confine con l’Iran, Sheberghan nel nord (i suoi meloni dolci come il miele, a dar retta a un veneziano), domenica hanno preso altri tre capoluoghi: Kunduz, dove si fermò l’avanzata macedene di Alessandro, il più importante centro agricolo e commerciale nel nord del paese, Sar-i-Pul e Taloqan . Ieri, i funzionari locali hanno confermato che i talebani hanno il pieno controllo della città di Aybak, capoluogo della provincia di Samangan, che controlla la principale autostrada che collega Kabul con le province settentrionali del paese. Aspri combattimenti sono in corso anche a Herat e Mazar-i-Sharif, la più grande città del nord dell’Afghanistan, ma nella maggior parte dei casi i talebani sono stati in grado di negoziare la resa di distretti e città senza combattere.

Resiste Lashkar Gah, centro molto importante. Secondo l’ANSA che cita la Bbc, aerei statunitensi e afghani hanno effettuato attacchi sugli insorti e, stando a fonti locali, decine di talebani sarebbero morti. Un portavoce dei talebani, parlando ad al Jazeera, ha risposto mettendo in guardia gli Stati Uniti affinchè sia evitato ogni ulteriore intervento. Si può contare ancora sui bombardieri strategici B-52 provenienti dalla base aerea di Al-Udeid, in Qatar, sui caccia F/A-18 Super Hornet che volano dal ponte della portaerei nucleare USS Ronald Reagan dispiegata nel Mar Arabico, e su quei gioiellini che sono gli AC-130 Spectre, ideali per l’attacco al suolo. Pare però che abbiano colpito, a Lashkar Gah, anche una clinica sanitaria e una scuola. Era già successo nel 2015 quando un AC-130 Spectre rase al suolo a un ospedale gestito da Medici Senza Frontiere a Kunduz. Ma chi vuoi che se lo ricordi.

L’invasione americana dell’Afghanistan, nell’ottobre 2001, lanciata con il pretesto di rappresaglia per gli attentati dell’11 settembre, era stata preparata ben prima. L’obiettivo strategico della guerra non era la distruzione di Al Qaeda, un mostro alla Frankenstein creato dalla guerra orchestrata dall’intelligence Usa contro le forze sovietiche in Afghanistan, bensì intrapresa allo scopo di proiettare la potenza militare degli Stati Uniti nell’Asia centrale e meridionale, prendendo il controllo di un paese confinante non solo con le ex repubbliche sovietiche, ricche di petrolio del bacino del Caspio, ma anche con Cina e Iran.

Con lo slogan della “guerra al terrore”, Washington ha rivendicato il diritto di invadere qualsiasi paese che percepisse come una minaccia ai suoi interessi globali. A meno di due anni dall’invasione dell’Afghanistan, le truppe dell’impero hanno invaso l’Iraq inventandosi le famose “armi di distruzione di massa”. A consuntivo, si tratta di prendere atto di un fallimento strategico di dimensioni non minori di quanto avvenne in Vietnam. Ma non è senza uno scopo che avviene il ritiro dall’Afghanistan: non per porre fine alla più lunga guerra americana, ma per spostare risorse del Pentagono nel Mar Cinese Meridionale, nell’Europa orientale e nel Baltico. Il grande gioco continua.


2 commenti:

  1. Già, già, il Grande gioco di Peter Hopkirk , chissà se mai è stato letto nel Dipartimento di Stato..esiste sempre la possibilità che gli Imperialismi ,sovente non ci capiscono un ....

    cc

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  2. Abbandonando l'Afghanistan ai talebani gli USA delegano a questi utili nemici, tirati su negli anni '80 da bin Laden per conto dei Sauditi e di Washington, il compito di contenere la RPC nel suo progetto di raggiungere i porti pakistani ed iraniani del mar arabico attraverso nuove infrastrutture. Credo che la strategia statunitense del caos porterà nuovi sconvolgimenti in Asia meridionale (Pakistan, Myanmar-incriminazione di Aug San Sui Kyi-, Thailandia), mentre le flotte militari occidentali, compresa quella italiana, verranno cooptate per contenere la RPC entro le sue acque territoriali. Contemporaneamente crescerà in Occidente la sinofobia, chissà fino a che punto.
    P.S.: se non erro dopo il successo degli USA nella 2^ guerra mondiale (ottenuta soprattutto bombardando, mentre i sovietici avanzavano via terra con enormi perdite) le uniche vere vittorie militari statunitensi sono state l'invasione di Grenada (1983) e quella di Panama (1989-90). Mi pare che per gli USA dai tempi dell'agonia sovietica la guerra sia chiaramente un'impresa necessaria per diffondere il caos, alimentare l'apparato militar-industriale, promuovere i propri armamenti, mantenere i propri cittadini inquieti per una minaccia esterna (dimenticando così le contraddizioni interne, razziali ed economiche), prevenire l'ascesa tranquilla di un competitore (anche la Russia è circondata da fuochi: Donbass, Caucaso meridionale, instabilità bielorussa, cospicua minoranza islamica interna).
    In effetti la vittoria implica poi il farsi carico degli sconfitti e l'integrarli nella propria sfera; non è detto che sia più vantaggioso che abbandonarli al loro destino.
    (Peppe)

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