martedì 13 luglio 2021

Sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario

 

In questi giorni si possono leggere dotte digressioni sulla vexata quæstio della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, sull’esempio recente dell’Islanda.

Si rileva che il paese scandinavo conta una popolazione di circa 350.000 abitanti, vale a dire grossomodo come due quartieri di una metropoli italiana. Va da sé che le dimensioni di un fenomeno sono un fattore importante e dunque bisogna andare cauti con le generalizzazioni.

Altro aspetto, da non trascurare, sta alla voce “istruzione e formazione”, che possiamo allargare al concetto, sfuggente quanto si vuole ma non per questo metafisico, di “mentalità”, un po’ diversa tra i popoli scandinavi rispetto a quelli mediterranei. Come sapeva Giuseppe Tomasi (parte IV), il luogo dove avvengono le cose può assumere un’importanza decisiva.

Poi, si passa a definire che cosa è “produttività”, accennando alla “coesione sociale”, che sta all’opposto della “conflittualità che si svolge in contesti in cui la diffidenza sociale sfocia in giochi a somma zero”. Si tratta invero di una caratteristica, con radici ovviamente storiche e antropologiche (vedi sempre alla voce “mentalità”), in cui molti italiani primeggiano, e dunque non ci possiamo far nulla se non prenderne atto rassegnati.

Tuttavia, fin qui sulla “produttività” non si dice nulla, salvo richiamare un aspetto sicuramente fondamentale: lo stretto rapporto capitale/tecnologia e produttività del lavoro (solo il lavoro umano può creare nuovo valore, cari furbacchioni; quello delle macchine è valore che si trasferisce pro quota al nuovo prodotto, non ne crea ex novo).

Esemplifico sul ruolo della tecnologia: la produttività del lavoro con un aratro tirato da buoi è ben diversa rispetto a quella di un aratro trainato da un trattore meccanico. Ecco che tutte le dotte disquisizioni sulla “coesione e la diffidenza sociale” e anche quelle sulla “istruzione e formazione”, pur avendo interesse nel discorso, non sono elementi di per sé decisivi a riguardo della produttività del lavoro.

Qui va precisato che lo scopo dello sviluppo tecnologico non è quello di ridurre la “fatica” del lavoratore e nemmeno quello di ridurre la sua giornata lavorativa. Togliamoci queste ubbie dalla capa che possono solo far gran danno.

Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l’operaio usa per se stesso (salario), per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa che l’operaio dà gratuitamente al capitalista per la produzione di plusvalore.

Pertanto, il punto vero della questione riguarda l’estorsione del plusvalore (da non confondere con il “valore aggiunto”, concetto borghese fuorviante sia sul piano ideologico che scientifico). La faccio breve e cerco di contestualizzare: non potendo svalutare la moneta, si svalutano i salari, dunque si aumenta la parte della giornata lavorativa data gratuitamente al capitalista per la produzione di plusvalore.

È in forza a questo imperativo, il recupero di competitività sul piano del plusvalore relativo, che l’industria italiana, caratterizzata prevalentemente dalla micro-piccola-media impresa, carente sul piano della ricerca e degli investimenti (spesso in una situazione di sottocapitalizzazione), alle prese con varie altre “patologie” del sistema economico-sociale, non ultimo il divario tra il nord e il sud del Paese, cerca di stare sul mercato mondiale.


4 commenti:

  1. Per quanto dotto sia, Phastidio forse non ha mai provato il fastidio delle Quaranta ore settimanali a turnazione oraria (mattina, pomeriggio e notte), orario che è un dogma da... - stiamo comodi - dal Dopoguerra in poi.

    A parte: non so per altri lettori, ma per me potresti "farla anche lunga" su tali argomenti...

    RispondiElimina
  2. Lo metto qui per condividere il mio dolore: è il terzo account di twitter che brucio, essendo bannato da Mantellini. Stavolta è per il tweet seguente:
    Eddai, il povero mante è uno triste e riflessivo (ceto medio-alto). Se ogni tanto si cimenta in una battuta, non si può pretendere che sia spiritosa. Come se a me facessero fare sollevamento pesi, che ci ho i muscoli di un pollo.
    Sob.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. l'hai detto: non si può pretendere che sia anche spiritoso.

      Elimina