mercoledì 5 maggio 2021

Ei fu per sé


Favorito da circostanze storiche eccezionali, seppe sfruttarle al meglio grazie a volontà e talento. Attrasse a sé forze magiche che gli consentirono di conseguire un prestigio nell’opinione universale non inferiore a quello riconosciuto ai più notevoli personaggi della storia.

Artefice di straordinarie imprese militari, creatore della più cospicua configurazione geopolitica della moderna Europa, credeva alla legittimità della sua opera ed impresse il proprio nome a un’epoca.

Doveva passare di successo in successo, oppure soccombere, perché la legittimità conquistata mancava del sostegno che possiedono i sovrani che regnano per diritto divino. Poteva appellarsi all’esito del plebiscito che l’aveva innalzato, ma sapeva che quel tipo di legittimità sono labili e transitorie.

Occorreva soltanto che una condizione fosse adempiuta: che tutti facessero quello che lui voleva. Allora – pensava – non poteva esserci alcuna manchevolezza. Sentiva di essere lui il principio universale superiore verso il quale tutti dovevano inchinarsi. Perciò si scagliava impetuoso contro ogni resistenza, spesso disperando degli altri, ma sempre sicuro di sé.

Cancellando la principale conquista politica della Rivoluzione, ossia una vera rappresentanza parlamentare, il suo autoritarismo, lungi dall’essere un elemento transitorio dettato dalla necessità del conflitto europeo, fu costitutivo della sua politica quanto la seduzione della gloria.

Già come primo console e ancor più sul trono, la sua autorità senza controlli o limiti fu per lungo tempo ben accetta dalla borghesia liberale, che per condurre i propri affari ha bisogno, di preferenza, di essere garantita nella gerarchia sociale basata sulla proprietà e il denaro.

Amò l’ebbrezza dell’inaudito e il fascino della leggenda, come provano le sue campagne in Egitto e in Russia, dove sperimentò che l’insuccesso è sempre più vicino del successo. Fu lo spirito incessante per l’impresa e il dèmone di conquista a spingerlo oltre. L’irrequietezza fu di tutta un’epoca travagliata da trasformazioni profonde non ancora emerse in piena luce, ma che presto lo saranno.

Non diversamente dagli altri despoti di ogni epoca, confondendo l’ambizione personale coll’interesse della propria nazione, condusse decine di migliaia di giovani uomini sui campi di battaglia. Anche un potere troppo assoluto si perdona finché è vincente.

Bisogna riconoscere che difese il drappo della rivoluzione, della quale diffuse i principi, affrettando straordinariamente il passaggio tra l’antico regime e l’ordine moderno.

Non fu solo oggetto d’“indomato amor”, ma d’odio “inestinguibile” e proporzionato alla sua grandezza. Chi vive così vicino alle grandi vicende storiche non può pretendere di vivere in pace e di essere felice. Né del resto cercò la pace suggeritagli, implicato com’era nell’intreccio tra la sua natura, che nulla mai poteva appagare, e le resistenze di un vecchio ordine che non voleva mollare: “due secoli, l’un contro l’altro armato”.

Mirava a un avvenire che riteneva di poter dominare, ma finché fosse rimasto sul trono una decisione fra l’Inghilterra e la Francia sarebbe stata impossibile, e così l’Europa non poteva vivere. Finì per cedere al dio più corteggiato: il caso.

A vincere fu l’Inghilterra, che mantenne il suo predominio commerciale. A Vienna fu stabilito un equilibrio basato sul bilanciamento delle forze fra le potenze continentali, senza alcuna considerazione per il principio di nazionalità, rivendicato poi col sangue per un secolo e più.

Abbandonato dalla moglie (*), separato dal proprio figlio (**), tradito da molti che gli dovevano tutto, gli riuscì intollerabile prendere atto che l’impresa verso cui tanto s’era speso non poteva vivere senza di lui.

Non potendo più fare storia, favorì abbondante aneddotica, diventando l’eroe ispiratore dei suoi poeti (***).

Infine, pure nell’ultima “deserta coltrice”, egli sapeva bene che il “Massimo Fattor” è un’ipotesi troppo semplice per indurre a una seria considerazione.

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(*) La moglie apprese della morte del marito il 15 luglio dalla Gazzetta piemontese. Il 31 luglio, la vedova assistette a un rito funebre in memoria del defunto, il cui nome non venne citato dal celebrante. L’8 agosto la vedova sposò il suo amante, dal quale aveva già avuto due figli, nel 1817 e 1819; era in attesa di un terzo figlio, che morì poco dopo la nascita. Il nuovo matrimonio fu possibile perché il divorzio del suo defunto marito con la sua prima moglie non fu riconosciuto dal Papa. Ciò nonostante, il padre di Maria Luisa, cattolicissimo imperatore d’Austria, aveva a suo tempo acconsentito all’unione della coppia: la ragion di Stato. Lo stesso Francesco I non s’era fatto scrupolo, nel 1813, di rompere l’alleanza con la Francia e dichiararle guerra, nonostante sua figlia fosse, non certo contro la volontà del padre, l’imperatrice dei francesi.

La coppia parmense avrà poi anche una figlia. Si presentò un problema: nel trattato di Parigi del 1817, venne stabilito che alla morte di Maria Luisa i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla spettassero ad un altro principe, trascurando peraltro di precisare come sarebbe dovuto avvenire tale passaggio e che cosa sarebbe spettato al patrimonio privato della principessa Maria Luisa. Pertanto per Guglielmo, Alberto e Albertina i genitori si preoccuparono di lasciare loro un cospicuo patrimonio.

In buona sostanza con il trattato di Parigi del 1817 si puntava ad escludere il figlio dell’ex imperatore dei francesi e di Maria Luisa, ossia il duca di Reichstad ed ex re di Roma, dal rivendicare eventuali eredità e potestà sui citati ducati italiani.

Per costituire un patrimonio privato in capo a Maria Luisa, di cui sarebbero divenuti eredi i tre figli avuti dal nuovo marito, venne imbastita una commedia finanziaria che meriterebbe di essere descritta per atti singoli, nella quale entrarono in scena Metternich e il suo amico Salomone Rothschild. Dirò solo che Metternich, in una lettera privata, consigliava Maria Luisa di dar corso a opere pubbliche importanti nei suoi possedimenti italiani al fine di nascondere meglio il saccheggio delle casse pubbliche a scopo privato. La grande Maria Luisa, quanto bene ha fatto a Parma con una parte dei denari versati dai parmigiani.

(**) Il figlio, anche se solo formalmente, fu imperatore dei francesi dal 22 giugno 1815 fino al 7 luglio successivo. In realtà fu sempre, dal 1814, ostaggio presso il nonno, a Vienna. Già solo il suo nome destava preoccupazione. Le sue spoglie, al momento delle morte, furono inumate, ironia della sorte, nella cripta degli Asburgo. Il 15 dicembre 1940, un altro austriaco dispose che i resti del giovane fossero trasferiti accanto a quelli del padre, salvo il cuore, che rimase prigioniero a Vienna. L’arrivo a la Gare de l’Est e la traslazione agli Invalides avvenne di notte, sotto la neve, alla presenza di pochi invitati.

Il 15 dicembre di cento anni prima, in una gelida mattina in cui su Parigi cadeva la neve, i resti del padre, su un monumentale carro funebre, alto dieci metri e largo quasi 5, con agli angoli quattro aquile con le ali spiegate, trainato da sedici cavalli con le gualdrappe recanti gli emblemi imperiali, percorsero le strade invase da migliaia di parigini, di veterani nelle antiche uniformi. Lungo il percorso erano state erette delle statue allegoriche: l’ultima delle quali rappresentava l’Immortalità. Il feretro giunse dapprima agli Champs-Élysées, tra una folla strabocchevole, poi si fermò sotto l’Arco di trionfo, dove fu salutato da numerose salve di cannone, ed infine arrivò alla spianata degli Invalides. Qui il principe di Joinville si rivolse al padre dichiarando: “Sire, vi consegno il corpo dell’imperatore”; Luigi Filippo rispose: “Lo ricevo a nome della Francia”. La giornata si concluse con l’esecuzione del Requiem di Mozart.

Chateaubriand, con pungente ironia, scrisse: “Privato del suo catafalco di rocce, è venuto a seppellirsi nelle immondizie di Parigi [...]. Qualunque cosa si faccia, si vedrà sempre nel mezzo del mare il vero sepolcro del trionfatore”.

Sant’Elena, nonostante tutto, resterà la vera depositaria del significato della sua parabola umana.

(***) Lo scrittore inglese W.M. Thackeray, che nel romanzo La fiera delle vanità avrebbe dimostrato la sua capacità di rappresentare con fine ironia le ipocrisie, perbenismi e stereotipi della vita sociale, fu molto colpito dallo spettacolo al quale assisté di persona in occasione del ritorno delle spoglie:

“Deve esserci stato in quest’uomo qualcosa di grande e di nobile, qualcosa di generoso, di avvincente per avere lasciato un ricordo così caro al popolo, un nome circondato di un rispetto così costante, di un affetto così durevole”.

Heinrich Heine, che si trovava a Parigi in quel dicembre 1840, affermò che non s’intendeva affatto esaltare il liberticida, il conquistatore, bensì celebrare un uomo che rappresentava la giovane Francia di fronte alla vecchia Europa e a dispetto di quel “nuovo mondo di droghieri, borghesi e industriali”.

In realtà, il tentativo di mettere d’accordo il prestigio trionfale di quell’uomo e lo spirito del liberalismo è un tipico esempio di romanticismo o di frode. Dopo la Rivoluzione, la borghesia aveva bisogno di un governo autoritario per venire a patti tra le fazioni; la dittatura militare però non comportava di per sé la restaurazione della monarchia ereditaria e tantomeno un’aristocrazia nobiliare. Ma dell’involucro formale importa relativamente a chi dietro le quinte gestisce realmente il potere.

Tra il suo dispotismo temperamentale e gli elementi durevoli della sua opera modernizzatrice (in campo amministrativo agì con mano da maestro non meno che sui campi di battaglia), la contraddizione è evidente. L’equivoco provocherà poi alla Francia l’impero del nipote, ossia la farsa dopo il dramma. Alla fine e in ogni caso a vincere furono i notabili e i padroni della borsa. 

2 commenti:

  1. Mi pare molto opportuno rifarsi all'ode manzoniana per rievocare Napoleone. A parte l'ardita ipotesi della conversione, che è un round-up precursore del lieto fine nei film, il Cinque Maggio è una summa di intelletto storico e politico.
    Se posso approfittare, aggiungo che Manzoni è, quale prosatore, insuperato. Le insofferenze post-scolastiche che leggo in giro sono brufoli adolescenziali trasformati in cisti permanenti.

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