venerdì 20 dicembre 2019

Se non si afferra tale differenza, Marx è inutile



A riguardo di Marx e della questione della crisi Roberto Fineschi scrive:

«La crisi. Anche questo è un tema per cui in realtà Marx è stato sulla bocca di tutti dato che le teorie ortodosse non hanno una spiegazione della crisi. Se voi studiate nei manuali di macroeconomia leggete di crisi frizionali, crisi di riassestamento, rigidità che possono essere fluidificate con interventi esterni che però non implicano ciclicità strutturali per cui la crisi è un elemento costante, ricorrente della riproduzione sociale; quindi quando ci si trova di fronte a crisi come quella del 2007, 2008, in parte ancora in atto, i nostri economisti ufficiali non sanno che dire. Cito spesso che su Rai due Giuliano Amato spiegava la crisi con la teoria della sovrapproduzione di Marx, su Rai due alle 14,30! Non aveva un teorico ortodosso che gli dicesse perché potesse esserci una crisi così clamorosa e deflagrante che spezzava in maniera così dirompente le dinamiche della riproduzione. E Giuliano Amato spiega con eleganza, su Rai due, che c’è la crisi, perché Marx ha ragione, perché c’è la sovrapproduzione, perché il modo di produzione capitalistico tende a produrre a prescindere dal bisogno solvente, cioè a prescindere da chi può pagare, quindi alla fine ingolfa il mercato con una quantità di merci non vendibili, crolla il prezzo, la speculazione finanziaria non può rispondere a questa dinamica oggettiva».

Se posso riassumere, la metterei così: l’essenza della produzione capitalistica, implicando la produzione senza riguardo ai limiti del mercato, conduce alla crisi. Il che è vero nella misura in cui è fuorviante.

Infatti, tutti gli “esperti” ritengono, chi in un modo e chi in un altro ma nella sostanza tutti d’accordo, che la contraddizione centrale dell’economia capitalistica sia da rintracciarsi nel rapporto tra produzione e consumo. Pertanto essi individuano la causa della crisi nella sovrapproduzione di merci determinata dalla loro impossibilità a realizzarsi in seguito al sottoconsumo, vale a dire alla povertà e alla limitatezza di consumo delle masse. Un tempo si era giunti a teorizzare persino che gli schiavi moderni consumino meno di quanto producono per loro mera propensione psicologica alla parsimonia, quasi per dispetto (*).

Tra parentesi, anche la cosiddetta teoria di sproporzionalità appartiene al novero delle concezioni che individuano la causa della crisi nella sola sovrapproduzione di merci. Per i sostenitori della teoria della sproporzionalità, la crisi dell’economia capitalistica deriverebbe da uno sviluppo sproporzionato dei diversi settori della produzione sociale.

Pertanto, pur essendo sottoconsumo e sproporzione concetti diversi, nella sostanza rinviano alle stesse cause e agli stessi effetti della crisi e agli stessi velleitari rimedi (**). Vediamo di fare un po’ di chiarezza.

Nel modo di produzione capitalistico la contraddizione tra produzione e consumo assume effettivamente una rilevanza di primo piano, poiché la crisi di sovrapproduzione è anche “crisi di sottoconsumo”, benché quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un aspetto, non la necessità (nelle facoltà di economia non si studia la dialettica ritenendola faccenda di “filosofi”, cioè di perditempo).

Le contraddizioni operanti nella sfera del consumo, infatti, sono indotte da quelle interne alla sfera della produzione. Di conseguenza la genesi della crisi va ricercata nella produzione di plusvalore, e non nella sua realizzazione. Procedere in senso inverso, collocando cioè la contraddizione principale nella circolazione, conduce inevitabilmente alle interpretazioni della crisi come, appunto, crisi di sovrapproduzione o sottoconsumo. Questa tesi alimenta l’illusione che sia possibile risolvere la crisi intervenendo sulla sfera del mercato e degli investimenti, in definitiva agendo sul movimento del denaro, dei tassi e sulla fiscalità (Piketty e altri).

In realtà, la crisi di sovrapproduzione, individuata nello squilibrio del rapporto tra produzione e consumo (o di sproporzione tra le diverse sfere produttive), ha la sua reale causa, in ultima istanza, nel meccanismo stesso dell’accumulazione, vale a dire nella produzione del plusvalore per il plusvalore (vedi qui). Se non si afferra tale concetto, Marx è inutile, sia in originale che in traduzione!!!

La produzione capitalistica tende continuamente a superare le proprie contraddizioni, ma riesce a superarle unicamente e momentaneamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.

Scolpitevelo in testa: avendo il capitale come suo scopo l’accrescimento illimitato della produzione, ossia la produzione come fine a se stessa, pone lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro permanentemente in conflitto con il suo fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.

*

Scrive ancora Fineschi: «[…] si torna a parlare Karl Marx, Keynes, Schumpeter, tutti quegli autori che alla fine hanno messo in dubbio che un’armonia prestabilita riportasse tutte le cose al suo posto. Nella teoria di Marx la crisi è strutturale, il modo di produzione capitalistico necessariamente, ciclicamente produrrà crisi, niente di più normale: certo che c’è la crisi perché il modo di produzione capitalistico funziona così».

Le difficoltà di valorizzazione si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche. In altre parole, quando il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario salto di composizione organica si determina la crisi di sovrapproduzione. Ma per sovrapproduzione, non s’intende semplicemente – come sostengono Amato e tutti gli altri – sovrapproduzione di merci, ma sovraccumulazione di mezzi di produzione e sussistenza in quanto questi possano operare come capitale, e dunque il fenomeno della sovrapproduzione riguarda anzitutto la sovrapproduzione di capitale (benché la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di merci).

Tale distinzione non è leziosa, non è fine a se stessa se vogliamo capire non solo come funziona il capitalismo, ma la sua reale dimensione nel processo economico e storico.

Storicamente il modo di produzione capitalistico è un mezzo potente per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, ma esso vive al tempo stesso la contraddizione ineludibile tra questo suo “compito storico” e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.

Ed è proprio su questo punto che cade ogni illusione borghese, laddove si ritenga che tale compito di sviluppo della forza produttiva materiale e di creazione di un mercato mondiale possa proseguire indefinitamente. Per altri versi è illusione che il “capitalismo crollerà spontaneamente” o “sarà superato” a tempo debito e senza particolari traumi, di modo da dover praticare una collaborazione col nemico di classe sul piano del riformismo.

Proprio per tali motivi, Keynes e Schumpeter non c’entrano nulla con Marx, nemmeno di striscio. Partono da presupposti diversi e arrivano a conclusioni opposte a quelle di Marx.

*

Veniamo alla crisi finanziaria del 2008. Essa apparentemente non ha nulla o poco a che fare con la sfera della produzione, bensì con quella della circolazione, del movimento del denaro, reale o fittizio che esso sia. Inizialmente scoppia con la bolla dei famosi mutui, con il crac della Lehman Brothers e simili.

Dev’essere ben chiaro come la crisi non sia un fenomeno passeggero dovuto a fattori “esterni”, contingenti (come strombazzano gli ideologi della borghesia), ma un elemento strutturale che ha le sue basi nel modo di produzione stesso (come dice anche Fineschi).



Il grafico mostra con chiarezza che gli investimenti fissi lordi a livello mondiale subiscono un crollo verticale proprio in coincidenza del famigerato 2008, e come la curva risalga leggermente solo nel 2012 e poi nel 2014, mentre poi tende nuovamente ad inabissarsi. Questo significa che nell’ultimo decennio si sia investito nella produzione sempre di meno, salvo sporadici e deboli sussulti, e come dunque la base produttiva tenda a restringersi.

Si tratta pertanto, di là del fenomeno speculativo che denota spettacolarmente gli eventi, di crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale e di caduta del saggio generale del profitto. L’abnorme trasferimento di capitali dalla sfera produttiva a quella speculativa, con relative periodiche bolle e bollicine, ne costituisce la conferma.

(*) Se le reali cause della crisi fossero legate semplicemente alla domanda, basterebbe favorirla. Come dava da intendere anche quel furbacchione di Keynes, il quale negò quanto avevano sostenuto Say e Ricardo, e cioè che l’offerta crea la domanda. È necessario un “modello” più aderente alla realtà, scrisse, che prenda atto dello squilibrio domanda-offerta. Ed è a questo punto che nasce la famosa “legge psicologica”, corroborata, come si conviene nei casi in cui la parola non basta, da una serie di: D1 + D2 = φ (N), dove φ è la funzione di offerta complessiva …

(**) Se il capitalismo si definisce per la propria incapacità di assicurare un crescita armonica della produzione sociale, il socialismo, da parte sua, dovrà, necessariamente, distinguersi per la propria capacità di autoregolazione: l’esistenza o meno di una economia pianificata diventa la linea di demarcazione fra due “opposti” modi di produzione, essendo la pianificazione l’unico strumento in grado di imporre, per scelta soggettiva (di classe) e quindi coercitivamente, uno sviluppo proporzionato ai diversi settori produttivi e conforme alle esigenze di consumo.

Sennonché si dimentica che la contraddizione valore / valore-d’uso ha un carattere dirompente e che, pertanto, un’economia basata sulla produzione di valori di scambio è del tutto impianificabile. Ci si trova di fronte (gli esempi storici in tal senso non mancano) al fenomeno apparentemente inspiegabile della crisi di sovrapproduzione in talune sfere produttive e a penurie e carestie devastanti in altre sfere.

E ciò dipende, ab ovo, da come si sono deformati e fraintesi – semmai siano stati presi in considerazione – gli schemi di riproduzione marxiani del II Libro de Il Capitale, in tutti i tentativi di utilizzarli come strumento di legittimazione di regimi ancora fondati sullo sfruttamento di una classe da parte di un’altra.


3 commenti:

  1. bisogna sottolineare che oggi la pianificazione sarebbe piuttosto agevolata rispetto al passato visto che siamo tutti in rete. ma il capitalismo è un rapporto sociale e non un computer. sulla questione c'è ancora da lavorarci

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    1. Chiaro che debbono cambiare i stramaledetti rapporti sociali. Per far questo i computer servono a poco

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  2. auri sacra fames: avidità, cupidigia, bulimia. La metastasi che distruggerà l’umanità.

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