giovedì 21 marzo 2019

Divagazioni sulle palle piene


«Eppure le tue ossa si consumeranno,
sepolte nei campi di Ilio,
per un’impresa incompiuta».


Alessandro Manzoni a riguardo di Napoleone Bonaparte si chiese se la sua fu vera gloria. Molti hanno risposto in modo diverso e problematico a questa domanda. Personalmente non ho dubbi: la sua fu vera gloria, e ciò a prescindere dalle ipotetiche pretese del “Massimo Fattor” manzoniano, anche se, a un dato punto, le sue guerre persero le caratteristiche della lotta tra conservazione e cambiamento.

Per una valutazione della stoffa d’uomo, basterebbe leggere una parte delle sue 33.000 lettere (Correspondance générale, Fayard) per rendersi conto che si trattò ad ogni modo di una personalità dotata di volontà e talento non comuni, che seppe sì sfruttare a proprio vantaggio le situazioni che gli si presentavano ma valendosi d’indubbio ingegno, pur con le mende del suo temperamento. L’eccezionalità dell’uomo si combinò con la straordinarietà degli avvenimenti, e ciò dimostra una volta di più che sono le circostanze a fare gli uomini non meno di quanto siano gli uomini a fare le circostanze (*).

*

La causa visibile della crisi dell’antico regime era anzitutto di origine finanziaria, cioè la Francia scontava una profonda debolezza economica, e non solo a causa delle inusitate dissipazioni alle quali era dedita un’aristocrazia schizoide, ma perché doveva far fronte alle continue spese della guerra moderna e di una burocrazia disonesta e incompetente. In breve, la politica della monarchia francese fu sempre disopra dei suoi mezzi economici.

Per quanto riguarda la guerra, tema del quale si occupa specificamente questo post (nell’economia di un blog, chiaro), la monarchia doveva sempre improvvisare quand’essa scoppiava. Solo allora si arruolavano ufficiali e uomini di truppa, ai quali mancava di tutto. I fornitori divenivano i veri padroni della situazione, acquistavano sul tamburo e a qualsiasi prezzo ciò che occorreva per costituire dei magazzini di approvvigionamento per le truppe e per mettere insieme degli equipaggi. Si arricchivano a spese del re e i loro agenti derubavano sistematicamente i soldati. Si era tentato di organizzare un controllo, ma i commissari alla guerra non avevano sufficiente coscienza professionale e reale interesse per essere meno corruttibili.

Dopo la Rivoluzione si fecero sforzi sovrumani per fare a meno dei fornitori, nazionalizzando i servizi ed esigendo dai funzionari devozione e disinteresse. Tuttavia, dopo il 9 termidoro, cioè  a seguito della caduta di  Maximilien Robespierre, la Repubblica si ritrovò allo stesso punto della monarchia, e tale situazione continuò sotto Napoleone aggravata dallo smisurato aumento degli effettivi e dal permanente stato di minaccia e di belligeranza.

*

George Lefebvre (1874-1959) colse nel segno quando ebbe a scrivere che fu il capitalismo inglese a sconfiggere Napoleone (**). Il senso comune guarda a Napoleone come a un innovatore nell’arte della guerra (in parte lo fu), come a un organizzatore instancabile (e indubbiamente fu anche questo), ma per quanto riguarda le condizioni materiali effettive dei suoi soldati, della sua Grande Armata, e cioè per quanto riguarda equipaggiamento, sussistenza, sanità e ammodernamento dell’armamento, regnò paradossalmente la più generale trascuratezza e sempre grande improvvisazione nell’organizzare le campagne di guerra. Egli non ebbe più cura delle condizioni di vita dei suoi soldati di quanta n’ebbero i comandanti degli eserciti avversari. Non si arrivò a dire, come Federico II sul campo di battaglia a un giovane ufficiale titubante, “Cane, speravi dunque di vivere per sempre?”, tuttavia la considerazione per la carne umana non fu mai migliore né allora né in seguito.

Il tema del reclutamento e dell’avanzamento meriterebbe di per sé un discorso a parte, e perciò non viene qui preso in considerazione. Ricordo semplicemente un paio di dati: dal 1800 al 1812 non furono chiamati alle armi, nel territorio della vecchia Francia, più di due milioni di uomini, cioè il 36% dei mobilitati e il 7% della popolazione totale (Jacques Godeschot, Napoleone, p. 114). Secondo Lefebvre, dal 1800 al 1812, Napoleone non arruolò che 1.300.000 uomini complessivamente, un po’ più dei tre quarti della vecchia Francia. Anche se si tiene conto delle grandi chiamate del 1812 e del 1813 (più di un milione), la proporzione, in rapporto agli iscritti, non supera il 41% (p. 221). Pertanto Napoleone conservò sotto l’aspetto numerico (ma, osservo, non sotto quello ordinativo) l’esercito che aveva ricevuto dalla Convenzione e dal Direttorio. Più tardi l’esercito, divenuto imperiale, comprendeva nella sua maggioranza soldati “stranieri” (dei paesi alleati o vassalli), tanto che i francesi della vecchia Francia nel 1812 non costituiranno che una minoranza fra i soldati di Napoleone (***).

L’esercito non disponeva di riserve organizzate, e la proporzione degli effettivi combattenti andò sempre più diminuendo. Per quanto riguarda i comandanti di più alto livello, va ricordato che salvo eccezioni essi si mostrarono mediocri e a volte pessimi. Per quanto riguarda i quadri intermedi, valeva il merito ossia il valore dimostrato sul campo, ma nulla era previsto per un’iniziazione intellettuale all’arte della guerra.

Nel 1805, dopo la rottura del trattato di Amiens, Napoleone aveva già quasi 400.000 uomini alle armi e non era possibile mantenerli convenientemente in tempo di pace. Il soldato percepiva cinque soldi il giorno, e lo Stato non gli dava che la razione di pane e, in tempo di guerra, la carne. La paga era insufficiente e tutt’altro che regolare la sua corresponsione. A causa della mancanza di denaro era impossibile accumulare viveri, scarpe e vestiario, i mezzi di trasporto che l’entrata in campagna presupponeva. Napoleone si limitava alle armi e alle munizioni.

Già nel 1800 gli occorreva una riserva di tre milioni di fucili: non li ebbe mai; nel 1805, i fabbricanti ne consegnarono 146.000, e si calcola che una campagna ne distruggesse quasi altrettanti. Si trattava peraltro di fucili modello 1777, arma modernissima agli inizi della Rivoluzione, ma inferiore al nuovo fucile britannico dopo il 1808. Non ho notizia che Napoleone abbia pensato di sostituire quello in uso.

L’artiglieria continuò a essere dotata di cannoni sistema Gribeauval (due palle piene da 4, da 8 o da 12 libbre al minuto), entrati in servizio nel 1780; erano superiori ad ogni altro nel 1792 (eccellenti alla distanza di 600 metri), furono però superati dal nuovo materiale austriaco e inglese verso la fine dell’impero. Napoleone attribuiva estrema importanza alla potenza di fuoco e, di conseguenza, all’artiglieria; nondimeno, la sua rimaneva poco abbondante: 12 pezzi per divisione fino al 1806, nel quale anno soltanto apparve il parco generale, ossia 59 pezzi. Nel 1808 si conteranno due pezzi per ogni migliaio di uomini. Sulla responsabilità di tale situazione, si veda quanto scrive Lefebvre a pagina 225 (a tale riguardo, J. Godechot risulta troppo prevenuto nei riguardi di Napoleone).

Il capitolo più inquietante riguarda la sanità militare, per quanto Napoleone perfezionasse anche tale servizio con l’istituzione, ma solo nel 1809, di compagnie di barellieri e infermieri che disponevano di ambulanze militari specializzate. Tuttavia l’aspetto sanitario rimaneva davvero inquietante anche per quell’epoca. I medici, in generale, non erano molto di più che dei segaossa, e Lefebrve osserva che “il personale sanitario era al di sotto della mediocrità” (p. 231). Non di rado come infermieri venivano assunti gli abitanti dei luoghi dove veniva combattuta la battaglia, e si requisiva il materiale necessario per le cure sul posto. Era un inferno: le atroci ferite della palla piena, le amputazioni senza anestetico, la cancrena e il marciume degli ospedali, l’indicibile sporcizia, la scabbia, i pidocchi, il tifo (non erano ancora disponibili né antibiotici né vaccini, al più la pratica della variolizzazione e solo agli albori la vaccinazione anti-vaiolo).

Si tenga conto che i caduti in battaglia in genere costituivano solo una piccolissima parte delle perdite: il 2% ad Austerlitz, e al massimo l’8,5% a Waterloo; il resto moriva negli ospedali in seguito alle ferite o malattie, ma anche di esaurimento e di freddo. Hippolyte Taine scrive che sotto il consolato e l’impero morirono 1.700.000 uomini, solo per quel che riguarda la vecchia Francia. Lefebvre opina che la vecchia Francia non offrì di più e quindi se tale numero fosse esatto non sarebbe tornato nessuno, senza parlare dei prigionieri. In realtà, sostiene, le perdite dal 1800 al 1815 si possono calcolare a meno di un milione, di cui un terzo i dispersi, i quali certamente non morirono tutti (va ricordato, p. es., che a causa di diserzioni e malattie, l’armata napoleonica della campagna di Russia perse quasi la metà dei suoi effettivi prima ancora di entrare in azione). A questa cifra di un milione, bisogna aggiungervi 200.000 nuovi francesi circa e approssimativamente un uguale numero di alleati e di vassalli. Pertanto il numero dei morti complessivo da prendere realmente in considerazione potrebbe aggirarsi tra un milione e il milione e mezzo.

Il brodino si sta allungando troppo, forse continuerò una prossima volta.

(*) Non si può giudicare nel bene e nel male un protagonista come Napoleone (o altri) se non nell’ambito delle circostanze storiche nelle quali si trovò ad agire, avendo peraltro riguardo di considerare che ogni epoca sconta i retaggi del passato e i pregiudizi del presente.

Ad ogni modo riporto il giudizio del Taine: «[…] egli [Napoleone] costruisce, con materiali resistenti, da uomo pratico qual è, l’edificio solido, abitabile, adeguato allo scopo. Tutta la massa dei muri portanti, codice civile, università, concordato, amministrazione prefettizia decentralizzata, tutti i particolari dell’ordinamento e della distribuzione concorrono a un effetto d’insieme che è l’onnipotenza dello Stato, l’onnipotenza del governo, l’abolizione dell’iniziativa locale e privata, la soppressione dell’associazione volontaria e libera, la dissoluzione graduale dei piccoli gruppi spontanei, l’interdizione preventiva delle lunghe opere ereditarie, l’estinzione dei sentimenti tramite il quale l’individuo vive oltre se stesso, nel passato e nel tempo a venire. Mai si costruì una caserma più bella, dall’aspetto più simmetrico e decorativo, più accettabile per il buon senso comune, più confortevole per l’egoismo gretto, meglio tenuta e più pulita, meglio organizzata per disciplinare le parti medie e basse della natura umana, per atrofizzare o deturpare le parti alte della natura umana. In questa caserma filosofica non viviamo da ottant’anni». Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea. La rivoluzione. Vol. II, Adelphi, pp. 799-800.

(**) “La vittoria della Gran Bretagna sull’imperatore fu la vittoria del capitalismo” (p. 594). Il Napoléon di Lefebvre, considerato a ragione da Luigi Mascilli Migliorini come la migliore biografia del XX secolo dedicata a Bonaparte, soffre, in numerose edizioni e dunque non solo nelle varie ristampe anastatiche in lingua italiana, dell’assenza di note (che nell'edizione originale esistono), vieppiù necessarie soprattutto per il medio lettore che a ogni pagina si trova a dover indovinare chi mai fosse un personaggio, a cosa corrisponda una data, un fatto, un termine tecnico. Ad ogni modo resta un testo imprescindibile e straordinario che va ben oltre la biografia del personaggio poiché racconta una Francia e un’Europa poco conosciuta fuori della cerchia degli studi specialistici (specie per quanto attiene all'aspetto economico-finanziario). A sua volta Mascilli Migliorini è autore della migliore biografia “politica” di Napoleone, la quale presenta 173 pagine fitte di note in corpo otto, molte delle quali sono riproposizioni in francese di estratti di mémoires dei protagonisti dell’epopea napoleonica, e ciò non può che creare presso il grande pubblico delle difficoltà per chi non avesse dimestichezza con la lingua e soprattutto con le espressioni idiomatiche d’oltralpe. Una biografia classica e molto più scorrevole, seppur datata, è quella firmata da Evgenij Tàrle, facile da reperire nelle varie edizioni. Oppure il Napoleone di Jacques Bainville, riedito recentemente. Va tuttavia rimarcato che Napoleone è senza dubbio il personaggio storico sul quale si è scritto di più, e perciò la bibliografia che lo riguarda è pressoché sterminata, anche se spesso di livello non eccelso. Nelle note del libro di Mascilli Migliorini c’è sovrabbondanza per orientarsi sulla migliore bibliografia sui più vari aspetti della vicenda napoleonica.

(***) I francesi dell’epoca, per “vecchia Francia” intendevano la Francia non ancora allargata a quelle che venivano chiamate “frontiere naturali”, ossia al Belgio e alle attuali propaggini tedesche del Reno, più qualcos’altro, tipo Nizza e Savoia, ecc..

3 commenti:

  1. Adoro questi suoi post storici. La ringrazio per la piacevole lettura,
    Dario

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    1. questi commenti ripagano del mio lavoro. grazie Dario

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    2. purtroppo continuo a trovare errori di battuta, la digitalizzazione vocale è per me di grande aiuto, ma a volte risultano delle vere e proprie castronerie e non sempre te ne accorgi a colpo d'occhio

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