mercoledì 17 ottobre 2018

La dialettica e la liberazione del nostro pensiero dalla limitatezza del “pensiero specialistico"


Nel capitalismo le difficoltà di valorizzazione si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche che diventano sempre più ravvicinate mano a mano che muta il rapporto tra la parte variabile e quella costante del capitale. Si giunge così ad una diminuzione del saggio generale del profitto, poiché il plusvalore cresce sempre meno del capitale complessivo. Tecnicamente quando il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario salto di composizione organica (vedi qui).

Si ha dunque crisi di sovrapproduzione, anzitutto di capitale, per quanto la sovrapproduzione di capitale determini sempre quella di merci.

Il concetto di sovrapproduzione di capitale, scaturendo prima di tutto dal processo di produzione, mostra – come dice Marx – in che modo “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso” e come la crisi scaturisca “dalla natura stessa della produzione capitalistica, come necessità logica”.

Lo sviluppo logico delle categorie economiche dimostra il carattere storico del sistema capitalistico, e ciò significa, tra l’altro, che la crisi di sovrapproduzione è un fenomeno tipico del capitalismo. E tuttavia il limite che segna l’arresto dell’accumulazione e, di conseguenza, il destino del modo di produzione capitalistico, nella realtà concreta non coincide con il “crollo spontaneo” o automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del modello è un istante logico e non immediatamente storico, ma anche perché il movimento reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin – che “il fenomeno è più ricco della legge”.

Le contraddizioni operano all’interno delle leggi del modo di produzione capitalistico, e giungono a maturazione (massima divaricazione) nella fase della sua crisi generale-storica. Questo processo crea le condizioni materiali a un nuovo modo di produzione, del quale, partendo da dati oggettivamente già presenti e in divenire, possiamo inferire le dinamiche più generali a riguardo del futuro. Si pensi, per esempio, al fatto che la tecnologia sempre più sostituisce il lavoro vivo, che la concentrazione e centralizzazione dei capitali favorisce sempre più il monopolio a scapito della “proprietà privata” dei mezzi di produzione, quindi gli effetti dell'enorme indebitamento degli Stati, il fallimento del riformismo e il riaffacciarsi di "nostalgie". Eccetera.

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Tutto ciò non ci autorizza ad immaginare futuri scenari irenici o paradisiaci per l’umanità. Bisogna tener presente, come scrive Engels, che «il mondo non deve essere concepito come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, non meno dei loro riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di origine e di decadenza, attraverso il quale, malgrado tutte le apparenti casualità e malgrado ogni regresso momentaneo, si realizza, alla fine, un progresso continuo».

È un fatto che l’umanità è passata dalla pietra focaia alle centrali nucleari, dalla fionda ai missili balistici, dal baratto alle carte di credito, dalle palafitte al Burj Khalifa di Dubai, eccetera. Non è stato un processo di sviluppo lineare e sempre positivo, tutt’altro, ma malgrado ogni regresso momentaneo vi è stato un progresso continuo. Tuttavia non esiste nulla di assoluto, tale progresso non solo può essere soggetto a regresso momentaneo, ma anche ad arrestarsi per sempre ponendo fine all’umanità se essa non saprà controllare i potenti mezzi di distruzione che essa oggi possiede, se sarà incapace di indirizzare e limitare il proprio sviluppo in accordo con le leggi della natura, ossia con il ricambio della natura stessa.

La “filosofia dialettica”, scrive Engels, dissolve tutte le nozioni di verità assoluta, definitiva. “Non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire, dell’ascensione senza fine dal più basso al più alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante”. La dialettica hegeliana – precisa Engels – ha però anche un lato conservatore: “essa giustifica determinate tappe della conoscenza e della società per il loro tempo e per le loro circostanze, ma non va più in là. Il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è assoluto: il solo assoluto ch’essa ammetta.

Vorrei citare un altro passo di Engels, questo tratto dalla Dialettica della natura: “Gli scienziati possono prendere l’atteggiamento che credono: essi sono sotto il dominio della filosofia. C’è da porre solo il problema se essi vogliono essere dominati da una cattiva filosofia corrente o da una forma di pensiero teorico che riposa sulla conoscenza della storia del pensiero e sui suoi risultati. Gli scienziati fanno ancora condurre alla filosofia una vita stentata e puramente apparente, servendosi dei rifiuti della vecchia metafisica. Solo quando la scienza della natura e della storia avrà assorbito in sé la dialettica, tutto il ciarpame filosofico – esclusa la pura teoria del pensiero – diventerà superfluo, si risolverà nella scienza positiva”.

A queste parole di Engels si dà spesso un senso positivistico, ossia che l’importante sarebbero soltanto le nostre conoscenze positive della realtà, che tutte le generalizzazioni ulteriori non servirebbero da prova scientifica e non avrebbero valore per lo sviluppo della scienza. Ma questa interpretazione positivistica non si può accordare con ciò che Engels dice sull’importanza che per l’attività creativa degli uomini ha il divenire cosciente del pensiero dialettico nelle loro menti. Infatti il divenire cosciente della dialettica significa proprio, tra l’altro, la liberazione del nostro pensiero dalla limitatezza del “pensiero specialistico”.


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