martedì 22 maggio 2018

Il complotto


Quanto è importante la conoscenza del passato, di ciò che chiamiamo storia? Nella misura in cui acquistiamo conoscenza del passato, acquistiamo conoscenza del presente e del futuro, poiché sia l’uno e l’altro derivano dal passato e in parte ne sono determinati. L’ignoranza è la mancanza del senso della storia.

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Non fu un complotto, non almeno nel senso corrente al quale associamo questo termine. La Deutsche Bank, che viene sempre tirata in ballo nelle ricostruzioni complottistiche del 2011, con le sue operazioni sui titoli del debito italiano non influenzò negativamente il mercato, e del resto non agiva su mandato di Berlino, piuttosto di quello dei suoi azionisti, cioè degli investitori internazionali (in maggioranza, cinesi, americani e qatarioti) i quali puntavano solo a ciò a cui puntano tutti coloro che fanno un investimento, piccolo o grande, ossia al profitto, al vile denaro, allo sterco del diavolo.

Più che di un complotto si può parlare di una serie di circostanze che vennero a coincidere, di nodi che venivano al pettine. E quello italiano è un pettine nel quale s’impigliano nodi storici giganteschi.

Nel 2008, il presidente della Bce, Trichet, aveva trovato 95 miliardi per salvare i conti della Francia, ma successivamente ritenne che il salvataggio della Grecia fosse troppo oneroso, quando in effetti richiedeva poche decine di miliardi. Fu solo un errore di valutazione? Questo fatto mise in allarme i mercati: se non si erano salvati i conti della Grecia, si sarebbe fatto lo stesso per l’Italia e la Spagna? Di qui la vendita dei titoli del debito italiano, una fuga che si sarebbe potuta peraltro arginare nel vertice del G20 svoltosi tra il 3 e 4 novembre 2011 a Cannes e nei giorni immediatamente successivi.

Durante quel G20, la cancelliera Merkel consultò la Bundesbanck sul da farsi, cioè sul rischio di default dell’Italia e della Spagna che avrebbe compromesso l’euro. Propose un’apertura di credito da parte del FMI per 85 miliardi per l’Italia e 50 per la Spagna, a patto che sottoscrivessero determinate condizioni subordinate alle direttive del FMI.

In pratica si trattava di un commissariamento, al quale Berlusconi e Tremonti non vollero sottostare come invece accadde per la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo. Essi ritenevano che in base ai risparmi privati e i fondamentali economici dell’Italia le condizioni fossero ben diverse rispetto a quei paesi. Cosa che corrisponde peraltro a realtà, però bisognava affrontare seriamente i problemi e per tempo.

Si giunse a un compromesso, per cui il FMI e la Commissione europea avrebbero istituito un “gruppo di supervisione” per monitorare il programma di “stabilità e riforme” presentato da Palazzo Chigi. Figuriamoci se Berlusconi e Tremonti avrebbero colpito i cospicui “risparmi privati”, magari con una tassazione “europea” su successioni, donazioni, polizze vita e affini, insomma con una tassazione dei patrimoni alla quale è difficile sottrarsi, visto che l’evasione fiscale, per motivi di consenso elettorale, nessun governo vuole davvero arginarla. Né, per l’opposizione delle varie “componenti sociali”, avrebbero messo mano sulla spesa pubblica, cioè sui costi impropri, gli sprechi, le corruttele di ogni genere, la pletora degli organismi di spesa, gli emolumenti pazzeschi.

Il rialzo dei tassi d’interesse a seguito della crisi greca non aveva mancato di produrre effetti anche sui nostri tassi e dunque sul debito pubblico. Le agenzie di rating avevano agito di conseguenza, con buona pace della procura di … Trani (?!), declassando l’Italia. Lo spread salì a circa 400 punti sul Bund, per poi toccare 530 e fino a 570 dopo che alla Camera si approvò il rendiconto di bilancio solo perché i partiti di opposizione avevano deciso di non partecipare alla votazione. La debolezza del governo era posta alla luce del sole.

Il resto venne da sé, poiché c’era molto da guadagnare da una continua ascesa dello spread, e neppure un maxiemendamento introdotto nella legge finanziaria e approvato l’11 novembre per dar corso alle riforme richieste da Bruxelles mise un freno alla speculazione. Di solito le cose accadono in modo assai più semplice e quasi banale di quanto ricostruito a posteriori da sceneggiature distopiche.

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Si può pensare tutto il male possibile a riguardo di Mario Monti, e però il rettore della Bocconi ed ex commissario europeo designato (con la Bonino) dal primo governo Berlusconi, fu l’uomo giusto al momento giusto. Non gode di buona fama soprattutto a causa della riforma pensionistica, nota impropriamente come legge Fornero (si tratta dell’art. 24, Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici, del Decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici).

Questo provvedimento è sostanzialmente una buona riforma, salvo che per taluni aspetti non proprio marginali. Per esempio per quanto riguarda i famosi “esodati”, per la scarsa gradualità delle nuove misure, ma soprattutto sconta il fatto di non aver abrogato quell’infernale meccanismo legato alla cosiddetta aspettativa di vita, introdotto, non già dalla Monti-Fornero, ma dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi nel luglio 2011 e con effetto dal 2013.

Spalmare questo meccanismo su tutta la platea dei lavoratori, prescindendo dalla tipologia del lavoro svolto, è stata un’evidente cazzata frutto della fretta e del disinteresse elitario per le sorti delle anime comuni. La legislazione previdenziale tedesca, molto a sproposito citata, sulla quale quella italiana è stata evidentemente ricalcata, ha previsto una maggiore gradualità (fino alla classe 1964), per poi assestare i requisiti per la pensione di vecchiaia a 67 anni senza ulteriori infernali meccanismi legati alla cd speranza di vita.

Ora basterebbe fissare a 41 anni l’uscita cd “anticipata”, ed estendere la platea dei lavori gravosi e usuranti per una quota 100 a chi ha 63 anni (verrebbe quindi allentato il “tappo” che oggi preclude l’immissione nel lavoro di forze più giovani).

Vero è che le pensioni “anticipate” sono prevalenti su quelle di vecchiaia, tuttavia, con buona pace di Giuliano Cazzola, bisogna tener conto che si tratta della coda del fenomeno, poiché già tra pochi anni in pensione “anticipata” ci potranno andare prevalentemente gli statali, e per gli altri i 41 anni di contribuzione, soprattutto continuativa, saranno solo un miraggio. Prevedere uno svecchiamento e assottigliamento volontario del pubblico impiego non è cosa cattiva.

Un’altra misura che potrebbe partire dal prossimo anno, per chi matura i requisiti dei 41 anni, potrebbe essere quella del calcolo totalmente contributivo per gli assegni superiori ai 3.000 euro lordi, e un sostanzioso, progressivo e temporaneo contributo di “solidarietà” per tutte quelle sopra i 4.000. E invece …

1 commento:

  1. Monti ha chiuso le stalle dopo aver fatto scappare i buoi.
    Ora gli asini volano al governo.

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