domenica 18 marzo 2018

L’inedita articolazione del nuovo esecutivo



La borghesia trova nello Stato, quale luogo di massima condensazione del potere politico, e nell’insieme degli apparati statuali, burocratici, economici, ideologici e repressivi, il mezzo naturale per veicolare e imporre quelle pratiche essenziali e indispensabili alla riproduzione della formazione economico-sociale capitalistica.

Paradossalmente è proprio il modo di produzione capitalistico, che lo Stato s’incarica di garantire con l’imposizione della molteplicità di quelle pratiche, la causa fondamentale delle contraddizioni che vengono in superficie in modo devastante nella società e nelle istituzioni borghesi. In tal guisa, però, crisi economica e crisi dello Stato non stanno tra loro in una relazione semplice di causa-effetto, dalla quale far discendere linearmente che basta armarsi di pazienza e d’ironia perché passata l’una si risolva anche l’altra.

Siamo a un passaggio d’epoca cruciale, questo la borghesia l’ha ben chiaro, così com’è evidente che il riformismo è stato sconfitto dalle stringenti dinamiche di valorizzazione del capitale e dalla crisi del welfare. A tal fine è sufficiente prendere atto di che cos’è accaduto in termini elettorali in Francia, Germania, Austria e in Italia in meno di un anno.


Non c’è dubbio vi sia una tendenza accelerata e irresistibile degli Stati a farsi apertamente illiberali, non più per stroncare forze realmente antagoniste e autonome (missione compiuta), ma, come ho rilevato in precedenti occasioni, per incanalare il malcontento e alzare una cortina fumogena atta a generare confusione sulle reali dinamiche dei processi in atto, sui rapporti di potere, di proprietà, di forza.

Bisogna tener conto che i tempi e gli obiettivi più che imposti soggettivamente dalle élite sono determinati oggettivamente dalla crisi (vedi le elezioni presidenziali negli Usa), dalla cadenza con cui avvengono radicali mutamenti della struttura economica, dalla complessità e inestricabilità dei problemi demografici, immigratori, dell'occupazione e di ordine internazionale (la guerra daziaria non è questione da pigliare sottogamba).

Per contro, se la borghesia nel suo insieme avverte la necessità di un cambio di rotta sul piano politico, tuttavia le sue componenti non sono unanimemente concordi sulla strada da seguire, prima tra tutte quella dell’appoggio ai risorgenti movimenti reazionari a carattere populista e nazionalista. Il livello dello scontro politico e sociale, tanto più in forza dei risultati elettorali, sta imponendo anche alla frazione più conservativa e “democratica” della borghesia di arrendersi all’evidenza dei fatti.

In questo senso andrà letta l’inedita articolazione del nuovo esecutivo che andrà a formarsi a seguito delle elezioni del 4 marzo scorso nel laboratorio Italia.

4 commenti:

  1. la storia dei dazi commerciali la trovo particolarmente divertente per l' abilità (non ne farei una questione di stile, atteggiamento che gli europei con la puzza sotto al naso non sanno proprio levarsi) con cui Trump vuole portare alcuni dei principali partner a incontri bilaterali che gli permettano di ridurre l' enorme deficit commerciale americano

    vuole fare questa cosa ma non può spingerla fino in fondo, le dinamiche compatte dell'imperialismo mondiale gli impongono di continuare a essere il paese imperiale che consuma le merci di tutti gli altri, pena uno sconquassamento dello status quo dei commerci mondiali che per ora non conviene a nessuno.

    il PIL americano è composto per 2/3 di consumi interni (alla faccia di chi pensa che lo stato/mercato interno sia depotenziato nell' era della globalizzazione) di merci importate, gli Usa sono l' unico paese al mondo in cui la lobby degli importatori è molto più forte di quella degli esportatori e i primi che soffrirebbero di una vera e propria trade war sarebbero Wall Street e il CME. Alle aste di titoli di stato della settimana scorsa (offerta molto superiore alla media, la riforma fiscale e il piano infrastrutturale di Trump pretendono il finanziamento) mi sarei aspettato che cinesi (e giapponesi, per questioni valutarie) mandassero un segnale di ritorsione, invece niente: venduto tutto.



    RispondiElimina
    Risposte
    1. le guerre commerciali si sa come cominciano ma non dove finiscono. negli anni Trenta la G.B. era il primo patner commerciale della Germania, per dire
      lo scontro con la Cina non promette bene, e dall'altra parte c'è un Trump che non so davvero chi sia

      Elimina
  2. Mala tempora currunt,....
    sed peiora parantur.

    RispondiElimina
  3. non parlavo certo in nome della reciproca convenienza

    la cosa andrà a strappi, gli attori principali sono tutti abbastanza deboli e incasinati tranne i cinesi che politicamente sanno già cosa gli tocca

    RispondiElimina