martedì 17 gennaio 2017

Le solite sul costo del lavoro



Quanto va scrivendo Mario Seminerio nel suo blog merita attenzione poiché si tratta di un esempio di successo di diffusione di bufale, infarcite di battutine da liceale del buon tempo antico. La colpa dei nostri guai, come sempre, sarebbe del “costo del lavoro”. Perciò, sostiene, proliferano i vàucer e il lavoro nero. Il mercato si adegua. Se le entrate fiscali latitano, il legislatore se ne inventa delle altre. E su quest’ultimo punto non si può che essere d’accordo.

È dagli anni Sessanta che leggo e sento lo stesso refrain: il lavoro costa troppo. Questo tira e molla sui salari tra padronato e lavoratori fu motivo di uno scontro sociale molto aspro e che vide coinvolti i sindacati, quando questi ancora esistevano. Non parliamo poi delle geremiadi che si levarono dopo l’introduzione della scala mobile, fino a quando non fu cassata da un referendum che prometteva nuovo vigore economico e l’uscita dalla crisi (la crisi c’era anche allora, c’è sempre stata). E anche dopo il referendum, le doglianze sull’elevato costo del lavoro non cessarono.



Nel dopoguerra, l’Italia, a un certo punto, divenne la quarta o quinta economia mondiale. Ora non si sa bene quale posizione occupi, sicuramente ha fatto molti passi indietro. Pare essere rimasta, comunque, la terza manifattura europea. E dunque, se vogliamo parlare di costo del lavoro, il raffronto va fatto con le prime della classe, ossia con Germania e Francia. Sarà vero che oltralpe il famigerato “costo del lavoro” è più basso che in Italia?

Sono fondamentalmente due le componenti del “costo del lavoro”: salari e oneri sociali. Sicuramente, per quanto riguarda i salari medi, quelli nostrani sono notoriamente più bassi di quelli tedeschi e anche di quelli francesi. Resta da chiedersi se siano più alti gli oneri sociali. In Italia sono effettivamente molto alti, ma non sono mediamente molto più alti di quelli d’oltralpe. Certo, lì il denaro pubblico è speso meglio, ma questo è un altro paio di maniche. Dunque, complessivamente il costo del lavoro in Italia non è più alto che in altri paesi, segnatamente la Germania e la Francia.

Per un raffronto cliccate qui.

È evidente che il problema della “crescita” non riguarda il costo del lavoro, ma la competitività della nostra struttura produttiva complessiva. A cominciare dal fatto che la nostra struttura produttiva e finanziaria negli ultimi trent’anni è stata svenduta e/o smantellata, in nome di un mercato e di un’Europa espressione dai grandi capitali finanziari. Politici e faccendieri, sostenuti dai giornali dei padroni, hanno svenduto i beni di proprietà pubblica e ceduto ad organismi privati la fornitura dei servizi essenziali.

Tutti i governi che si sono succeduti hanno saputo solo creare maggiori e sempre più spinte disuguaglianze e differenziazioni sociali, precarizzando l’occupazione, aumentando la cosiddetta flessibilità, diminuendo i salari reali, contraendo la domanda interna (salvo le regalie elettorali), aumentando le fasce di povertà e i tassi di disoccupazione, favorendo la crisi demografica, mettendo in non cale l’universalismo dei diritti e sancendo un welfare rivolto prevalentemente, ed in modo inefficiente, alla copertura dei bisogni esclusivamente degli strati più poveri della popolazione.

Il lavoro costa troppo, ripete Seminerio. Costano troppo ai padroni gli schiavi che muoiono di lavoro nei campi e nei cantieri per una manciata di euro. Nel Rapporto Censis del 2016 si legge: “dall'inizio della crisi accantonati 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva (più del Pil dell'Ungheria)”. E questo avviene alla luce del sole, dunque senza contare i sudatissimi miliardi che i padroni trasferiscono nei paradisi fiscali.


Seminerio, invece di scrivere fregnacce sul costo del lavoro, vedi di raccontarci quanto sono ridicole le aliquote d’imposta sulle successioni, donazioni, polizze vita e ammennicoli vari.

4 commenti:

  1. Dall’intervista a Silvia Federici sul Manifesto di oggi
    Ritiene che sia avvenuto un cambiamento radicale di paradigma fra economia politica classica e neoliberismo, quindi fra gli approcci tradizionali al conflitto di classe e quelli attuali?
    Dal mio punto di vista non c’è stata un’effettiva modificazione qualitativa nell’approccio dell’economia politica: il neoliberismo ripete alcuni schemi fondamentali che abbiamo visto in atto già nel corso del Novecento, prima fra tutte l’idea che il lavoro non sia il motore principale dell’accumulazione capitalistica. Il cambiamento va individuato, piuttosto, all’interno della critica dell’economia politica, a partire dagli strumenti che hanno fornito i movimenti sociali negli ultimi decenni del XX secolo: il movimento anticoloniale e quello femminista, i quali hanno ampliato la critica marxiana dell’economia politica, portando alla luce la centralità del lavoro non salariato nell’accumulazione capitalista. Questi movimenti, anticoloniale e femminista, ma anche quello operaio e studentesco, durante gli anni Sessanta e Settanta, hanno infatti sovvertito le strutture fondamentali dell’organizzazione capitalistica del lavoro, quelle gerarchie produttive che si fondavano su una serie di divisioni operate all’interno del proletariato, giustificate ideologicamente con il razzismo e il sessismo. Questa è stata la più grande novità nella ridefinizione dell’accumulazione capitalistica e dei suoi attori, esito dell’emersione di queste nuove soggettività. Se teniamo a mente queste premesse si può comprendere perché la crisi è divenuta permanente. Guardando all’accumulazione capitalistica dal punto di vista della rivolta dei non salariati, possiamo comprendere che cosa sia accaduto nell’organizzazione mondiale della divisione del lavoro: il capitale ha fatto della crisi permanente – non più concepita quindi come declino nel ciclo economico e produttivo – lo strumento primario per «recuperare» queste trasformazioni. Recupero che si attua con le vecchie «medicine» applicate a livello globale: la separazione dei produttori dai mezzi di produzione attuata con lo spossessamento di massa, le migrazioni forzate, la privatizzazione delle terre, ma anche dei servizi e del Welfare State. La globalizzazione non va intesa tanto o solo come svolta economica, ma come una vera e propria macchina politica che, permanentemente, spossessa e disloca persone. Essa è un processo continuo di ricolonizzazione, che avviene con la massima violenza.

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    1. la crisi non è divenuta permanente per quei motivi, qui si confondono le cause con gli effetti, le contraddizioni immanenti con le strategie del capitale per contrastarne gli effetti. la solita fuffa pseudo-marxista che legge la realtà da un solo punto di vista

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    2. Un'omelia da Centro Sociale.
      Comprensibile per il proletariato consumista? Il Manifesto perderà ancora copie.

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  2. in effetti il problema dell'Italia - che è il problema dell'Europa - è il costo del non lavoro.

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