mercoledì 7 dicembre 2016

La contesa per il Pacifico


Oggi ricorre il 75° anniversario del proditorio attacco giapponese alle basi militari americane nelle isole Hawaii (abitate per oltre un terzo dalla comunità giapponese). La vicenda è abbastanza nota nei suoi tratti generali e un po’ meno per alcuni aspetti particolari. La contesa tra Giappone e Usa aveva come oggetto l’egemonia nel Pacifico e nell’Estremo Oriente (la Cina aveva negli anni Trenta aggredito e occupato alcune regioni cinesi). Il presidente Roosevelt e il segretario di Stato, Cordell Hull, proposero perfino una cosiddetta Dottrina Monroe per l'Estremo Oriente. È comprensibile lo scetticismo degli imperialisti nipponici a fronte della proposta degli imperialisti americani.

Trattative tra le parti in causa furono intraprese nel 1941, dapprima attraverso intermediari terzi e poi tra ambasciatori. Nulla di più aleatorio e fallace. Nel 1940 il governo di Vichy aveva ceduto le sue basi nel Tonchino ai nipponici, i quali per allargare la propria sfera d’influenza avevano cominciato l’occupazione dell’Indocina meridionale.

Così, nell’estate del 1941 – con gran sorpresa della leadership nipponica – gli Stati uniti bloccarono le attività giapponesi oltreoceano privando il paese dei fondi occorrenti per l’acquisto di materie prime all’estero, il congelamento di tutti i beni giapponesi, imponendo un embargo petrolifero cui parteciparono anche Gran Bretagna e Indie olandesi, e il divieto di passaggio nel canale di Panamá. Di fronte a queste imposizioni l’élite al potere a Tokyo prese la decisione: occupare il Sud est asiatico era la sola via praticabile per ottenere le materie prime negate loro dall’embargo.


A quel punto nella dirigenza giapponese divenne chiaro che il confronto non si sarebbe limitato all’Asia, ma avrebbe coinvolto i paesi occidentali. Si trattava solo di capire quanto provare o meno un’attività diplomatica: l’unica soluzione praticabile era annettere la Malesia britannica e le Indie Olandesi per procurarsi fonti alternative, anche se questo avrebbe significato entrare in conflitto con gli Usa; il compromesso – ritirarsi dall’Indocina e negoziare con la Cina – veniva visto da Tokyo come umiliante.



L'ultima proposta giapponese agli Usa prevedeva il ristabilimento delle relazioni commerciali tra i due paesi, la collaborazione in Asia, il sostegno statunitense ad un accordo tra Giappone e Cina nonché il ritiro del Sol Levante dall'Indocina. Il lungo tira e molla culminò con il rifiuto di Roosevelt di incontrarsi con il principe Konoe a Honolulu o a Juneau.


Nell’ottobre 1940 gli Usa avevano trasferito la loro flotta dalla base californiana di San Diego a quelle delle Hawaii (isola di Oahu, la terza in ordine di grandezza dell'arcipelago). Le navi più moderne, la nuova portaerei Yorktown, le corazzate New Mexico, Idaho e Mississippi, quattro incrociatori e diciotto cacciatorpediniere, furono invece trasferite nell'Atlantico.

La base di Pearl Harbor era considerata inattaccabile, per le sue difese fu chiamata la Gibilterra del Pacifico, anche se il comandante della flotta, Husband Kimmel, non era di questo avviso, pur non dichiarandolo pubblicamente. Il 7 dicembre 1941 erano alla fonda nel porto (e di un’altro più piccolo porto) 96 imbarcazioni della marina militare. Tutte le corazzate erano delle vecchie navi varate negli Anni Dieci, come le gemelle Oklahoma e Nevada, o come l’Arizona e Pennsylvania, entrambe della stessa classe, con sistema di corazzatura antiquato e non dotate di protezione antisiluro. Invece la portaerei Lexington, con cinque incrociatori leggeri, era partita; anche le altre due portaerei, Enterprise e Saratoga, non si trovavano nel porto.

Da allora sono state avanzate molte ipotesi e speculazioni sul fatto che i vertici politici e militari statunitensi sapessero in anticipo della decisione giapponese di attaccare le Hawaii. Allo stato non esiste alcuna prova in tal senso, e in ogni caso, data la situazione creatasi con l’embargo e il rifiuto americano di trattare, gli Usa s’attendevano senz’altro il primo atto ostile da parte nipponica. Era solo questione di tempo.

Il mattino del 7 dicembre, a 230 miglia dall'arcipelago scelto come obiettivo dell'attacco, dalle portaerei nipponiche si alzarono in volo 351 aerei. Alle ore 6: 51 bombardieri, 89 aerosiluranti, 43 caccia; alle ore 7: 78 bombardieri, 54 aerosiluranti, 35 caccia. Non fecero ritorno dalla missione 29 aerei.

Dopo l’attacco nipponico alle basi navali, delle oltre 20 unità colpite solo due corazzate risultarono infine completamente irrecuperabili, l’Arizona e la Oklahoma, mentre altre furono più o meno seriamente danneggiate. L’attacco, in definitiva, come ammise lo stesso Nimitz, sortì risultati modesti per quanto riguarda la distruzione dell’arsenale navale americano. Tre delle corazzate colpite e danneggiate parteciperanno nell'ottobre 1944 alla più grande battaglia aero-navale del secondo conflitto: quella del Golfo di Leyte.

Tanto più grave, dal punto di vista dell'interesse strategico nipponico, fu la mancata distruzione del gigantesco deposito di carburante con milioni di barili. Se fosse stato colpito e distrutto tale deposito, le operazioni della marina americana nel Pacifico si sarebbero arrestate per molti mesi, e la battaglia per le Midway, dove le portaerei e il caso giocarono un ruolo decisivo, avrebbe avuto un esito diverso.

Ad ogni modo, anche se nell’attacco nipponico fossero state colpite e affondate le tre portaerei, così come se fosse stata lanciata la terza ondata d’attacco, le sorti del conflitto non sarebbero infine state diverse. La differenza di risorse materiali ed umane, di potenziale industriale, tecnologico e scientifico tra Usa e Giappone era troppo netta e sfavorevole a quest’ultimo. Ultima e definitiva dimostrazione fu l’attacco nucleare americano nel territorio metropolitano nipponico. Settantacinque anni dopo si è riaperta la contesa per il Pacifico. Invece del Giappone, sulla scena gli Usa trovano la Cina, potenza industriale ed atomica con una popolazione di 1.380.000.000. La strategia Usa fin qui è stata un fallimento. Dovranno venire a patti con la Russia.

Una curiosità: nel 1942, al regista John Ford fu affidato l’incarico di girare un documentario su ciò che era accaduto quel giorno alle Hawaii. A riprese ultimate, la marina militare pretese che dal filmato, con il titolo 7 dicembre, fossero tagliate alcune scene “eroiche” ritenute troppo inverosimili. Il documentario fu premiato con l’Oscar, ma il pubblico, sia in America che altrove, non ha mai potuto vederlo.

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Due giorni prima dell’attacco nipponico alle Hawaii, il 5 dicembre 1941, una controffensiva dell'Armata Rossa fermò le armate di Hitler alle porte di Mosca. I russi avevano trasferito 18 delle 25 divisioni siberiane a Mosca, dopo la firma del patto di non aggressione sovietico-giapponese dell’aprile 1941. Queste divisioni erano dotate dei veloci e versatili T-34, carri armati con cannone da 76, dai larghi cingoli, con armatura di circa 50 mm (inclinata di 60 gradi, che equivaleva a 90 mm verticali). Questo primo contrattacco russo infranse l'illusione che gli eserciti di Hitler fossero invincibili.

Senza l’impegno sul fronte orientale, dove i tedeschi e i loro alleati schierarono complessivamente quasi 10mln di uomini, nessuno sbarco anglo-americano in Europa avrebbe avuto la minima chance di successo, e anche nel Nordafrica il rapporto di forze in campo sarebbe stato assai diverso. Senza contare che i massicci bombardamenti su Londra, sospesi il 31 dicembre 1940 in preparazione dell’operazione Barbarossa, sarebbero continuati e ingenti risorse sarebbero state disponibili per la guerra subacquea e per quella missilistica. Per nostra fortuna le cose andarono altrimenti.

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Le perdite statunitensi nella prima guerra mondiale assunsero a 115.000 unità, delle quali 57.500 per malattia, e meno di 50.000 quali caduti sul campo di battaglia. Il raffronto forse più significativo può essere fatto con i combattimenti di Verdun del 1917, noti per essere stati sanguinosissimi. I dati ufficiali francesi, sebbene notoriamente sottostimati, parlano di 162.308 tra morti e dispersi e 214.932 feriti in dieci mesi. I tedeschi persero 420.000 uomini, anche se i dati ufficiali parlano di 100mila tra morti e feriti. Cifre irrisorie se paragonate a ciò che avvenne venticinque anni dopo.

Nel secondo conflitto mondiale i morti statunitensi sono stati, secondo stime, 304.014 [*]. Secondo altre fonti, le perdite statunitensi in entrambe le guerre sarebbero state 344.959. Quest’ultima cifra appare assai sottostimata, probabilmente essa si riferisce solo ai caduti sul campo. Del resto, questo genere di contabilità è sempre un po’ sdrucciolevole, ma ad ogni modo le cifre sono sostanzialmente quelle riferite, complessivamente non raggiungono le 500mila unità.

Per un raffronto con le perdite germaniche, nel solo fronte orientale, nei tre anni giugno 1941- maggio 1944, il tasso medio di perdite umane della Wehrmacht sfiorò i 60.000 morti il mese. Solo nell’aprile e giugno 1943 non superarono i 20.000 caduti mensili, ma già nel luglio il numero salì a 85.000. Nel gennaio dello stesso anno, in coincidenza della caduta di Stalingrado, i morti furono 180.000. Nel solo mese di agosto 1944, tali perdite raggiunsero l’incredibile cifra di quasi 280.000, mentre nel luglio precedente furono 165.000. Si tratta di quasi mezzo milione di caduti in due mesi e solo sul fronte orientale.

Oltre l'80% delle perdite subite delle forze germaniche nell'intero II conflitto fu dovuto all'Armata Rossa. Tra il 19 novembre 1942 al 2 febbraio 1943, dunque in meno di due mesi e mezzo, l'Armata Rossa distrusse quasi 70 divisioni degli invasori (più di 30 quelle tedesche, 15 rumene, 10 italiane e 10 ungheresi), per un totale di oltre 1 milione di soldati, ma perse circa 600mila uomini. Solo nell'operazione Bagration [**] (iniziata il 22 giugno 1944), una delle più vaste della guerra, costò all'Armata Rossa 765.815 morti, dispersi e feriti; i tedeschi contarono circa 445mila perdite, tra cui oltre 100.000 prigionieri. Nella sola battaglia per Berlino (13 gennaio - 25 aprile), i sovietici registrarono 584.788 perdite umane; nella sola conquista della capitale tedesca (dal 16 aprile all'8 maggio) l'Armata Rossa ebbe 361.367 tra morti, dispersi e feriti.


[*] Morrison e Commager, St. degli Stati Uniti d’America, Tavole statistiche, pp. 1254-55.

[**] Pëtr Ivanovič Bagration era stato un generale dello zar Alessandro. Nella battaglia di Austerlitz, comandava l'ala destra dell'esercito alleato, l’unica che riuscì a contenere i francesi e poi costituì la retroguardia che coprì la ritirata delle forze principali. Pare che Napoleone lo ritenesse il migliore generale dell'esercito russo. Nel 1812, Alessandro gli affidò la guida dell'ala sinistra dell'esercito russo (II armata) nella battaglia di Borodino, col grado di maresciallo. Durante la battaglia fu gravemente ferito a una gamba, rifiutò l’amputazione e pochi giorni dopo morì per sepsi, anche per l’imperizia dei medici, come riporta un resoconto clinico.

Lo zar volle che fosse sepolto laddove fu ferito e che vi fosse eretto un monumento (sta in cima alla collina che dista alcune centinaia di metri dal museo), così come altre memorie gli furono dedicate altrove e nella stessa capitale.

Nel 1800, per espressa disposizione dello zar Paolo, Bagration si vide costretto a sposare Ekaterina Pavlovna Skavronskaya, a sua volta innamorata del conte Pëtr Alekseevič Palen. Caterina, che assumerà il nome e il titolo del marito, era una donna molto bella e di modi raffinati, allevata alla corte di Pietroburgo, di natali napoletani, poiché suo padre fu ministro plenipotenziario dello zar a Napoli. Sua madre, Ekaterina von Engelhardt, fu nipote e amante di Potëmkin, dal quale prese nome l’omonima corazzata e il relativo film di Ėjzenštejn.

Il marito di Caterina, Pëtr Ivanovič, nonostante fosse un rampollo dell’antichissima famiglia reale georgiana (tutt’ora uno dei rami di questa famiglia continua ad usare l'appellativo di famiglia reale di Georgia), nipote del re Jese di Kartli, e facesse parte della nobiltà di corte a Pietroburgo, è descritto esattamente come l’opposto della consorte: di non bell’aspetto, rude e greve quanto poteva esserlo un militare di carriera, e tuttavia seppe essere molto comprensivo e accomodante a riguardo della disinvolta Caterina.

Cinque anni dopo il matrimonio, Caterina Bagration piantò in asso il marito e si mise a errare per l’Europa, dove ottenne grande successo e diventò ben nota nei circoli di corte, famosa ovunque come Bel Angel Nu, soprannome che denota i suoi costumi. Divenne amante anche di Klemens von Metternich, dal quale ebbe nel 1810 una figlia, Marie-Clementine Bagration, non riconosciuta dal principe austriaco. In seguito Caterina Bagration fu intima e confidente dello zar Alessandro.

Non fu l’unica nobildonna ad esercitare grande influenza nel corso del congresso di Vienna. Dorothea von Biron, per esempio, fu un’altra donna che ebbe parte attiva quale amante del ministro francese Charles-Maurice de Talleyrand, il quale l’aveva data sposa a suo nipote Edmond. Il celebre vescovo/diplomatico francese ebbe a dire che Dorothea era la persona più intelligente che avesse conosciuta. Di nobile famiglia tedesca, pare che Dorothea fosse figlia non già del duca Peter von Biron, bensì dello statista polacco Aleksander Batowski.

Caterina Bagration, dopo il congresso di Vienna, abitò per lungo tempo a Parigi, dove venne in contatto con personaggi come Stendhal, Benjamin Constant, il marchese di Custine, la regina di Grecia. Il cuoco della principessa per un certo periodo fu Marie-Antoine Carême, fondatore della haute cuisine. Morì a Venezia nel 1857, ed è sepolta nel cimitero dell’isola di San Michele.


Sua figlia, Marie-Clementine Bagration, morì invece molto giovane, nel 1829, a seguito del parto con cui mise alla luce Otto Paul Julius Gustav von Blome (1829 -1906), nipote biologico di Metternich. Gustav von Blome ebbe dieci figli.

5 commenti:

  1. dalle sue prime mosse il Pacifico ha tutta l' attenzione anche di Donald Duck, Abe è stata la prima visita e Taiwan la prima telefonata

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    1. non ne fa mistero. è la strategia suggerita da kissinger nel suo ultimo libro

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  2. https://www.rt.com/news/369577-us-provoking-china-nuclear-war/

    Ciao,g

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  3. Per gli amanti delle curiosità storiche, segnalo che al comando della 12a batteria di artiglieria russa nel ridotto di Shevardino, uno dei punti focali della battaglia di Borodino, c'era un leccese di nobile famiglia, Roberto Winspeare.

    Giovane artigliere, mentre nel 1806 (caduta dei Borboni di Napoli) suo fratello passava ai francesi, Roberto (come non pochi altri italiani) decise di non aderire e si unì ai russi che lasciavano l'Abruzzo per essere traghettati a Corfù. Da quel momento fece carriera nell'esercito zarista. Insieme alla sua batteria Winspeare difese Shevardino per 17 ore contro massicci attacchi francesi. Nel 1814, sotto Parigi, una cannonata gli portò via il braccio sinistro.

    Rientrato a Napoli, Winspeare - che era un uomo colto e aveva imparato il russo alla perfezione - passò il resto della vita negli studi, arrivando a tradurre in italiano la cronologia russa di Lomonosov.

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