martedì 18 ottobre 2016

Fingono di non sapere

La seconda parte del post può anche essere non letta essendo di irrilevante importanza.


Ce la prendiamo con i ricchi, ma se fossimo noi i ricchi, come ci comporteremo? Ci sono quelli, la stragrande maggioranza, che sostengono che il problema dei problemi riguarda la distribuzione della ricchezza attraverso una maggiore, rigorosa e progressiva tassazione. Lasciando ovviamente intonso il modo in cui la ricchezza viene prodotta e accumulata. Sono quelli, molto realisti e pragmatici, che vogliono “salvare” il sistema basato sulla schiavitù salariata, alternativa dal quale non esiste.

Quel bravo e intelligente ragazzo che risponde al nome di Gilioli, nel suo blog scrive:

«… se i giganti digitali decuplicano i profitti con un decimo dei dipendenti (e se questa è la tendenza) solo la tassazione di questi profitti e la loro redistribuzione col reddito minimo può salvare il meccanismo produzione-consumo su cui si regge l'economia.»

Gilioli, ha costruito la sua carriera su questo tipo di contenzioso, e del resto non si può chiedere al calzolaio di andare oltre la scarpa.

Questi signori che invocano la “salvezza” del sistema di sfruttamento su cui regge “il meccanismo produzione-consumo”, fingono di non sapere che per il capitale il plusvalore è l’unica misura della razionalità di un sistema. I singoli capitalisti, in quanto tali, siano essi rappresentati individualmente o come azionisti, sono  interessati solo all’acquisto e allo sfruttamento della forza-lavoro; fuori dal rapporto di scambio e di sfruttamento ogni costo diventa per loro improduttivo, irrazionale e dunque assolutamente privo d’interesse.

I gruppi sociali che consumano senza produrre e senza contribuire in alcun modo alla realizzazione e alla conservazione del valore, potrebbero senza alcun inconveniente, per ciascun singolo capitalista, essere tranquillamente soppressi. Il ragionamento può essere spinto fino al suo estremo limite, restando vero anche in rapporto a tutti i capitalisti nel loro insieme.

*




La ricchezza è legata allo sviluppo della produttività sociale del lavoro. Tale sviluppo si manifesta in due modi:

- nell’enorme volume delle forze produttive già prodotte, nell’entità del valore e della massa delle condizioni di produzione che danno luogo alla nuova produzione e nella grandezza assoluta del capitale produttivo già accumulato;

(ciò è meno visibile in Italia laddove spesso la struttura produttiva è più frammentata e l’innovazione tecnica meno presente, per cui si spiega anche che nonostante gli operai lavorino mediamente per più ore rispetto agli operai di certi altri paesi, la produttività del lavoro italiano risulti più bassa)

- in secondo luogo nella relativa esiguità della parte di capitale spesa in salario in rapporto al capitale complessivo, ossia nella quantità relativamente modesta di lavoro vivo che è richiesta per riprodurre e valorizzare un capitale determinato, per la produzione in massa.

Ciò presuppone nel medesimo tempo la concentrazione del capitale.

Pertanto, lo sviluppo della forza produttiva, in rapporto alla forza-lavoro impiegata, si palesa nuovamente sotto un duplice aspetto:

- innanzitutto nell’incremento del plusvalore, ossia nella diminuzione del tempo di lavoro necessario che è richiesto per la riproduzione della forza-lavoro;

- secondariamente nella riduzione della quantità della forza-lavoro (numero degli operai) che viene impiegata per mettere in opera un capitale determinato.

Questi due movimenti non solo agiscono simultaneamente, ma si determinano reciprocamente, sono manifestazioni di una medesima legge. Essi tuttavia agiscono in senso opposto sul saggio del profitto.

La massa (attenzione: la massa) complessiva del profitto corrisponde alla massa complessiva del plusvalore e il saggio del profitto è espresso dalla formula pv : C, laddove pv sta per plusvalore e C per capitale costante (impianti, macchinari, materie prime, ecc.).

Tuttavia, il plusvalore come totale è determinato in primo luogo dal suo saggio, in secondo luogo dalla massa di lavoro contemporaneamente impiegata a questo saggio o, ciò che significa la stessa cosa, dalla grandezza del capitale variabile.

Da un lato uno di questi fattori, il saggio del plusvalore, aumenta, dall’altro lato il secondo fattore, il numero degli operai, diminuisce in senso relativo o assoluto.

In quanto lo sviluppo delle forze produttive fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, esso accresce il plusvalore aumentandone il saggio; in quanto tuttavia diminuisce la massa complessiva del lavoro impiegato da un determinato capitale, esso diminuisce il coefficiente numerico con cui viene moltiplicato il saggio del plusvalore per ricavarne la massa.

Andiamo ad un esempio: due operai i quali lavorassero 12 ore il giorno non potrebbero produrre la stessa massa di plusvalore di 24 lavoratori che lavorassero solo due ore giornaliere. Sotto questo rispetto, la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti insuperabili; pertanto la caduta del saggio del profitto può essere ostacolata, ma non annullata.

Con lo sviluppo del modo capitalistico di produzione diminuisce dunque il saggio del profitto, mentre la sua massa aumenta unitamente alla massa crescente del capitale messo in opera. Questo aspetto è stato qui esaminato più volte e anche recentemente. Ad un determinato livello dell’accumulazione, la scala della produzione è data tecnicamente, poiché per la sua espansione è necessaria una quantità definita di capitale, la grandezza del plusvalore che si richiede per consentire la valorizzazione non è arbitraria, ma sottoposta a vincoli tecnici.

Le difficoltà di valorizzazione, nelle fasi storiche di crescita del capitalismo, si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche. In altre parole, quando il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario salto di composizione organica si determina la crisi di sovrapproduzione.

Per sovrapproduzione di capitale, peraltro, non s’intende sovrapproduzione di merci (benché la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di merci) ma sovraccumulazione di mezzi di produzione e sussistenza in quanto questi possano operare come capitale.

Le crisi cicliche esprimono periodicamente le difficoltà dell’accumulazione. Infatti, il plusvalore sociale, se da una parte è insufficiente a valorizzare l’intero capitale esistente, dall’altra, però è in grado di valorizzarne una parte. Nella realtà concreta, storica, s’inaspriscono la concorrenza e la pressione contro la classe operaia e dei salariati in generale per la riduzione dei salari; i grandi capitalisti divorano quelli piccoli; si formano i monopoli, la centralizzazione si accentua, fino a superare i confini dei singoli Stati nazionali (sorgono le multinazionali); interi settori o branche produttive scompaiono e se ne formano altri; il capitalismo entra nella sua fase imperialistica, ecc..

Con tutto questo, le crisi cicliche rappresentano momenti solo temporanei di risanamento del sistema.

Nel momento in cui si ristabiliscono (anche se in modo sempre più violento e con perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il processo di accumulazione capitalistica riprende, benché a fatica e su una base produttiva ancor più ristretta, fino a superare il limite  oltre il quale il plusvalore comincia nuovamente a ridursi e la valorizzazione stessa inizia progressivamente a venire meno, approssimandosi sempre più al momento in cui si arresta.

La tendenza allo sfacelo del modo di produzione capitalistico, in quanto “tendenza di fondo”, oggettiva, del capitalismo, si suddivide quindi, in una serie di cicli (crisi) che appaiono soltanto come deviazioni transitorie dal percorso che l’accumulazione deve necessariamente compiere, proprio come il processo naturale di crescita dell’erba che viene interrotto ad ogni falciatura per poi ricominciare daccapo più vigorosamente.

Senza addentrarmi in altri dettagli, è sufficiente dire che il sistema è entrato in una fase in cui la crisi generale-storica investe il capitalismo nella sua totalità e si estende nel tempo quanto più aumentano le difficoltà di valorizzazione.


6 commenti:

  1. Multinazionali:

    Perkins: dopo il terzo mondo, ora stanno depredando noi

    Leggi tutto: https://it.sputniknews.com/punti_di_vista/201610183511582-perkins-terzo-mondo-noi/

    Ciao,g.

    RispondiElimina
  2. bellissima la parte irrilevante.
    Cosa si intende per capitale più frammentato in Italia?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. dovevo scrivere: la struttura produttiva è più frammentata
      grazie molte

      Elimina
    2. maggiore divisione del lavoro?

      Elimina
    3. non proprio o non solo. si tratta di una minore concentrazione e centralizzazione del capitale, in altri termini di una struttura composta da piccole entità produttive: piccola e media impresa

      Elimina
    4. io la chiamo maggiore divisione del lavoro.

      Se togli alla "nostra" piccola e media impresa le banche (centralizzazione e concentrazione massima) non rimane niente di "nostro", non rimane che una famiglia, laboriosa quanto vuoi, ma limitata al suo interesse particolare. Spesso - e lo vediamo sempre più di frequente - se togli loro la banca non rimane neppure una famiglia...

      Elimina