mercoledì 25 maggio 2016

Una svolta che oggi non siamo ancora in grado di valutare appieno


“Un mese poco brillante per la produzione, peggiore per le vendite. A marzo i ricavi dell’industria italiana cedono l’1,6% su base mensile destagionalizzata, il 3,6%in termini annui, peggior dato da agosto 2013. Una caduta in entrambe le misurazioni Istat legata soprattutto alla frenata sul mercato interno, dove il fatturato cede il 4,4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente”.

“Su base mensile il fatturato è invece in flessione dell'1,6% a marzo e nella media dei primi tre mesi dell'anno dell'1,1%. L'andamento del fatturato è peggiore per il mercato interno mentre sul mercato estero si registra un leggero aumento sul mese (+0,1%) e una diminuzione del 2,2% sull’anno. I ricavi su base annua segnano una diminuzione del 4,4% sul mercato interno e del 2,2% su quello estero.”

C’è sempre da imparare qualcosa dalla stampa economica, specie quando mischia pere e patate, ossia quando parla di calo dei ricavi mettendoli in rapporto al calo del fatturato (e viceversa). Tra l’altro sarebbe bene sapere che non sempre i ricavi, ossia i profitti, vanno di pari passo con l’andamento del fatturato.

Il mondo dell’informazione procede così, zoppo. Si titola, per esempo: “Siderurgia, in aprile l’Italia leader globale della crescita”, per poi scoprire due cosette interessanti: 1) su oltre mezzo miliardo di tonnellate di acciaio prodotte annualmente, l’Italia è leader globale della crescita con … circa lo 0,4 per cento della produzione globale; 2) tale pseudo primato della crescita pare peraltro dovuto alla “diversa scansione delle ferie pasquali tra il 2015 e il 2016: il maggiore tonnellaggio di questo aprile si giustificherebbe perché rapportato con un periodo condizionato dal rallentamento produttivo dovuto ai fermi pasquali”.

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C’è guerriglia tra diversi potentati economici attorno al possesso del Corriere della sera. Per quale motivo degli imprenditori, dei capitani coraggiosi, dovrebbero farsi la guerra per la proprietà di una testata in perdita e con un passivo stratosferico? Vogliono bene all’informazione oppure desiderano “indirizzarla”? Certo, si tratta di un quotidiano prestigioso, dove vi scrivono le più “autorevoli” firme.

Sennonché l’informazione incide in modo decisivo nella formazione della cosiddetta opinione pubblica, e dunque è chiaro il motivo politico sul perché un’attività economica con bilanci perennemente in rosso interessi tanto i capitani coraggiosi dell’imprenditoria e della finanza, ma anche, per fare un esempio di rilievo, la Chiesa cattolica e altri gruppi di potere e di pressione.

L’informazione è un ganglio vitale di questo sistema dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (Luciano Canfora, La democrazia, p. 331). Ne abbiamo un esempio in questi giorni con l’attacco sferrato contro il presidente dell’Inps, che di là della bontà rilievi che gli sono mossi, ha lo scopo precipuo della minaccia: stai al posto tuo e non rompere.

Quanto alle grandi firme, gli editorialisti e gli opinionisti noti al grande pubblico che i giornali (e gli altri media) si contendono a colpi di cospicui contratti d’ingaggio, essi hanno funzioni di diversione ma anche d’indirizzo: possono scrivere come e quello che vogliono, così s’ingenera l’impressione che nei giornali si possa scrivere come e quello che i giornalisti vogliono. La loro indipendenza recintata dà al giornale l’odore dell’indipendenza, la loro stravaganza dà al giornale un tocco di brio, il loro coraggio nel sostenere opinioni impopolari dà al giornale l’impronta dell’anticonformismo. Se poi a causa di un editoriale si perdono anche dei contratti pubblicitari, questa diventa la prova dell’indipendenza del giornale.

Il rovescio della libertà dell’editorialista è la non libertà della redazione. Gli editorialisti non hanno influenza diretta sul restante contenuto del giornale, gli editoriali sono articoli di lusso, gli editorialisti dei divi ben pagati. Il resto del giornale, la parte cospicua del lavoro, è svolta nelle redazioni. Spesso si tratta di un mero lavoro di copia incolla, di “foraggio” che passano le agenzie, di redazionali pubblicitari o lobbistici camuffati da articoli specialistici, di comunicati stampa governativi fatti di annunci volutamente contraddittori e di contraddittorie smentite, di prove tecniche di confusione per sondare le reazioni.

Scrivevo nell’agosto scorso: Da molto tempo questo paese è entrato in una nuova fase della sua storia democratica e però, grazie all’uso sapiente dei media, alle apologie, non sembra accorgersene. Siamo ora giunti a un nodo cruciale di questo processo involutivo, fatto passare proprio nei media come un percorso obbligato di “riforma” dell’esistente (la rottamazione del vecchio e putrescente), come una necessità imposta dalla situazione, dall’emergenza in cui tutto precipita, di cui i “semplici cittadini” si fanno carico. Si tratta altresì, per le sue conseguenze immediate e future, di una svolta pericolosa che oggi non siamo ancora in grado di valutare appieno.


1 commento:

  1. tanto più se l' economia non tira e non redistribuisce più niente, quel niente deve subire un indirizzo statale sempre più indiscutibile nei suoi interessi di classe. l'italia vanta una secolare tradizione in merito

    non sono invece d'accordo con Canfora, di cui ho letto il libro scritto con Zagrebelsky. in qualche modo il grande capitale italiano si è sempre mosso in ordine sparso, disunito in mille cordate e salotti -cioè interessi, tanto da aver convenienza a lasciar governare nani, ballerine e altra gente ricattabile, tratto che unisce la prima e la seconda repubblica.

    Hanno fatto i loro interessi meglio nel bordello (metaforico ma non troppo) politico-economico italiano piuttosto che suggerire un piano industriale serio e vincolante, pur all' interno della dinamiche "terziarizzanti" del capitalismo avanzato. Il risultato di queste molteplici incapacità è stato il lasciare l'illusione che una economia del G7 potesse stare in piedi con il turismo, la comunicazione e i prodotti di nicchia.

    queste riforme -chiamiamole così, non solo quelle costituzionali, soprattutto quelle più direttamente economiche- arrivano tardissimo, superate ampiamente dai rapporti di forza già in essere nella società, li sanciscono e li recepiscono a livello istituzionale.

    il punto a mio avviso, per il proletariato, è che a causa della lunga egemonia del partito stalinista italiano (e replicanti "estremisti" ancora non-estinti), non c'è modo di esprimere una rappresentanza politica che sappia cogliere quanto nel riformismo (l'ultima brutta copia l'ha tentata Craxi) ci potrebbe essere di potenzialmente emancipante non dal capitalismo, ovviamente, ma dalla secolare presa dello Stato italiano sul sistema socio-economico.

    Sarebbe il primo passo per costruire un primo nucleo di autonomia di classe pratica e teorica (distinzione formale)che si possa rappresentare di per sè, direttamente. vedremo quanti e perchè si asterranno.

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