sabato 6 febbraio 2016

Se il pesce non abbocca, non è colpa del pesce


Quello che segue è un post tecnico adatto a tutti, compresa la terza elementare. Richiede cinque minuti circa per essere letto, e a taluno questa potrà sembrare una fatica incongrua, non meno di altre.

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La domanda non riparte, i consumi sono deboli, la famosa crescita è una chimera e non solo in Italia, ma ovunque. Quella che negli anni scorsi è stata scambiata per una ripresa fu in realtà un breve sussulto, un rantolo. La stagnazione è la febbre, di cui solerti diagnosti raccontano di tutto con corredo di tabelle, grafici, “algoritmi”, e ogni altro ausilio di persuasione. Della malattia invece nada, sulla causa fondamentale della crisi siamo ancora, nella migliore delle specie, alla teoria del “morbo”.

Se le reali cause della crisi fossero legate semplicemente alla domanda, basterebbe favorirla. Come dava da intendere anche quel furbacchione di Keynes, il quale negò quanto avevano sostenuto Say e Ricardo, e cioè che l’offerta crea la domanda. È necessario un “modello” più aderente alla realtà, scrisse, che prenda atto dello squilibrio domanda-offerta. Ed è a questo punto che nasce la famosa “legge psicologica”, corroborata, come si conviene nei casi in cui la parola non basta, da una serie di: D1 + D2 = φ (N), dove φ è la funzione di offerta complessiva … e via di questo passo.



Il modello keynesiano può essere riassunto così: il sistema capitalistico, lasciato alla spontaneità non tende all’equilibrio (come postula la “teoria neo-classica”), ma allo squilibrio dei vari fattori, a causa della divaricazione tra domanda e offerta. All’origine di questa divaricazione sta la legge psicologica della “diminuzione della propensione al consumo”. Per ricondurre il sistema all’equilibrio di piena occupazione è necessario produrre una domanda aggiuntiva (“aggregata”) tramite l’intervento dello Stato, che si esplica essenzialmente mediante la definizione del saggio d’interesse, la politica fiscale, forme di controllo sulla massa complessiva degli investimenti per determinarne il volume complessivo.

Nonostante la critica ai neo-classici, Keynes rimaneva sostanzialmente tutto interno al loro quadro di pensiero. Anche per lui, infatti, alla base dei movimenti economici stanno non ben definiti “elementi psicologici”, che, mentre nei neo-classici vengono utilizzati per risolvere il “misterioso” problema della determinazione dei prezzi, in Keynes giustificano la tendenza, ugualmente “misteriosa”, del sistema allo squilibrio.

È tipico dell’economia politica borghese, e quindi non solo di Keynes, di prendere atto di una contraddizione reale, ma non potendo risolverla senza individuarne le cause vere, di rifugiarsi nelle più strampalate teorie, ivi comprese quelle di carattere “psicologico”. In tal modo la contraddizione perde il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”: non è il modo di produzione capitalistico che contiene in sé le cause dello squilibrio, ma la psiche umana, la volubilità degli attori sulla scena del mercato, e perciò non si tratta di cambiare sistema economico, ma di cambiare la testa degli uomini!

Questo ditirambo viene intonato non solo nell’economia ma anche nelle più varie “scienze” umane borghesi.

La crisi complessiva del sistema capitalistico innescatesi tra gli anni Sessanta e Settanta e giunta con vari sussulti fino ai nostri giorni, accompagnata dalla crisi fiscale dello Stato, ha travolto fra le altre cose anche Keynes e la sua baracca di burattini. Salvo che ora, in qualche modo, alcuni vorrebbero riproporla riverniciata come nuova. Tale posizione però si scontra con un’altra che vede nell’intervento pubblico un ostacolo all’adattamento dell’economia di mercato in relazione agli choc squilibranti. Salvo, va detto, gli interventi a favore delle banche e l’immissione di credito a zero virgola, al fine di suscitare un qualche riverbero inflazionistico e risollevare prezzi e consumi.

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Sui motivi dello “squilibrio” tra domanda e offerta basta guardare i grafici – sostiene un noto economista nel suo blog: “le due principali crisi debitorie dell’ultimo secolo (quella del 1929 e quella del 2008) sono state precedute da periodi più o meno lunghi nei quali i salari in termini reali (il potere d'acquisto dei lavoratori) erano stagnanti, mentre la produttività media del lavoro (la quantità di prodotto per addetto) aumentava”. Prosegue l’analista:

Ma la "domanda" in macroeconomia non è un mero desiderio. La domanda aggregata della quale si parla in macroeconomia è domanda effettiva, domanda che si traduce in capacità di spesa. Se il potere d'acquisto dei lavoratori si sviluppa di pari passo alla loro produttività, la domanda potrà essere finanziata dai redditi dei lavoratori stessi. Ma se la produttività cresce più in fretta dei salari reali, allora ci saranno in giro più prodotti che redditi da lavoro per acquistarli.

E qui si comprende tutta l’incomprensione degli economisti borghesi non solo sulle cause reali della crisi, ma delle leggi su cui poggia il modo di produzione capitalistico. Scompare il “misterioso” e anche lo “psicologico”, ossia la domanda come “desiderio”, ma si resta ancora nell’ambito dell’inganno. Va da sé che la domanda si traduce in capacità di spesa (più giusto sarebbe dire l'opposto, ma lasciamo stare), e non si scopre nulla dicendo che se i salari crescono meno della produttività ci saranno in giro più prodotti che i redditi da lavoro non possono acquistare. Tuttavia, anche se la produttività del lavoro non aumenta e rimanendo fermi i salari, o anche se questi aumentano entro ceri limiti, lo squilibrio tra domanda e offerta, ossia la crisi, si manifesta ugualmente. Com’è possibile? Per dimostrarlo non servono grafici né complesse equazioni, tantomeno “algoritmi”.

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Marx distingue nel capitale due parti: capitale costante e capitale variabile.

Capitale costante è “la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro”, e che “non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione”.

Capitale variabile è “la parte del capitale convertita in forza-lavoro, che cambia il proprio valore nel processo di produzione e che “riproduce il proprio equivalente e inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore”.

Questi due fattori partecipano in modo diverso alla formazione del valore del prodotto e, pur essendo entrambi necessari, solo uno è fonte di valore.

Il valore del capitale costante si conserva mediante il suo trasmettersi al prodotto e cioè riappare soltanto nel valore dei prodotti senza aggiungervi alcunché. Ciò che trasmette al prodotto è ciò che perde “nel processo lavorativo attraverso la distruzione del proprio valore d’uso”.

Il valore del capitale variabile, mentre dal lato del suo specifico carattere utile, “col suo semplice contatto, risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo di lavorativo”, in quanto forza lavoro astratta, tempo di lavoro protratto oltre il punto della riproduzione del suo valore, crea un valore eccedente.

“Questo plusvalore costituisce l’eccedenza del valore del prodotto sul valore dei fattori del prodotto consumati, cioè dei mezzi di produzione e della forza-lavoro” (*).

E veniamo al punto. Poiché nel capitalismo gli oggetti d’uso disponibili dipendono dalle esigenze del capitale, il cui scopo esclusivo e diretto è il valore e non il valore d’uso, la produzione di valori d’uso si restringe quando le merci non possono realizzarsi come valori, quando cioè il capitalista non è più in grado di realizzare il plusvalore contenuto nelle merci.

Ne consegue che la ricchezza non viene creata, non perché non ci siano bisogni umani da soddisfare (qui si astrae dalla loro natura), ma perché non vengono soddisfatti i bisogni del capitale.

È il modo capitalistico di concepire e di misurare la ricchezza che impedisce il suo estendersi all’intera società come ricchezza reale, come “universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc., degli individui: pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze naturali, tanto su quelle della cosiddetta natura, che su quelle della sua propria natura”.

La contraddizione tra valore d’uso e valore è la contraddizione fondamentale del capitalismo, che, con la crescita dell’accumulazione, pone le premesse per la sua negazione, in quanto lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti.

“Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.

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Si chiama saggio di plusvalore (s’) il rapporto tra il plusvalore (Pv ) e il capitale variabile (v), cioè il salario. Espresso in formula, questo rapporto diventa: s’ = Pv/v.

Il saggio di plusvalore mostra in quale proporzione il nuovo valore creato dalla forza-lavoro nel processo produttivo è distribuito tra l’operaio e il capitalista. Per questa ragione il saggio di plusvalore indica anche il grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitalista: il saggio di plusvalore può dunque chiamarsi anche saggio di sfruttamento.

Gli economisti borghesi, invece, identificano il saggio di plusvalore con il saggio del profitto e, così facendo, lasciano credere che il plusvalore sia prodotto da tutto il capitale, dal capitale complessivo anticipato, e non invece dalla sola sua parte variabile, vale a dire dal lavoro non pagato dell’operaio.

Dopo gli economisti classici, lo scopo fondamentale dell’economia politica borghese è divenuto essenzialmente quello di nascondere l’origine del plusvalore.

I padroni, soprattutto tramite i loro portavoce (economisti, politici, prostituzione varia), sbraitano che l’introduzione d’impianti e macchinari automatici nel processo produttivo riduce progressivamente la funzione dell’operaio nella produzione, il che dimostrerebbe – a sentire questa barzelletta – che il capitalismo limita sempre più lo sfruttamento della forza-lavoro.

In realtà, le macchine, per quanto automatiche, sono sempre capitale costante: il loro valore può essere solamente trasferito nei nuovi prodotti, ma non può produrre il minimo incremento.

Si noti bene, prima di propalare altre cazzate: il fatto che i capitalisti impieghino macchinari automatici ed assumano un minor numero di lavoratori produttivi, dimostra soltanto che si è ancor più intensificato lo sfruttamento della forza-lavoro mediante l’estrazione di plusvalore relativo (vedi qui), ottenuta attraverso l’intensificazione dei ritmi, dei carichi di lavoro e l’impiego di nuove tecnologie.

E tuttavia, come s’è doluto pubblicamente un noto manager (il quale chiama il capitale costante col nome di capitale fisso, confondendo un po’ la cosa), il mutamento del rapporto tra capitale costante e quello variabile, l’incremento del primo rispetto al secondo, cioè l’incremento della massa dell’investimento rispetto alla forza-lavoro impiegata, pur consentendo al saggio del plusvalore di aumentare (rapporto tra plusvalore e capitale variabile), il rapporto tra plusvalore (che chiamano profitto) e capitale complessivo (costante + variabile) tende a decrescere.

Pertanto cosa fa il capitalista, non solo perché è avido di guadagno ma perché vi è costretto? Cerca di aumentare il saggio del profitto con l’estorsione di una quota maggiore di plusvalore, ossia sfruttando di più il lavoratore, in modo da aumentare la redditività dell’investimento (tanto per esprimerci nei termini mistificanti dell’economia borghese). In tal modo aumenta la produttività del lavoro in rapporto al salario, e con ciò siamo daccapo.

La dinamica divaricantesi tra valore d’uso e valore di scambio nella massa di merci prodotte, conseguente alla sostituzione di lavoro vivo con sistemi di macchine, è alla base della crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico. Questa crisi generale-storica che investe il capitalismo nella sua totalità, si estende nel tempo quanto più aumentano le difficoltà di valorizzazione.

Un argomento questo sul quale conto di ritornare, intanto, se volete, potete ripassarvi questi post: (1) e (2).

(*) Cerco di esprimere gli stessi concetti in modo ancora più semplice. Il capitalista non avrebbe alcun interesse ad acquistare forza-lavoro “al suo valore” se poi dovesse limitarne il tempo di lavoro allo stretto necessario per la sua riproduzione. Infatti, egli compra forza-lavoro per sfruttarne il suo valore d’uso per un tempo di lavoro più lungo del tempo di lavoro necessario alla sua riproduzione.

Il tempo di lavoro della giornata lavorativa si può pertanto dividere in due parti: tempo di lavoro necessario e tempo di pluslavoro. La parte di valore prodotta dall’operaio oltre il tempo necessario a riprodurre il proprio salario, plusvalore, si concretizza in merci che l’operaio stesso evidentemente non può acquistare.

È chiaro pertanto che la disparità tra la quantità delle merci offerte sul mercato e quelle che il salario può acquistare (qui si fa astrazione dalla quota di plusvalore relativa al consumo del capitalista e da quella che si destina in redditi e rendite varie) crea un’eccedenza, uno squilibrio, e con ciò la crisi, la quale appare anzitutto come crisi di sovrapproduzione (di merci e di capitale).


7 commenti:

  1. Tento una sintesi per quelli della prima elementare.

    Il capitalista (il padrone) realizza i suoi guadagni (profitto) esclusivamente sfruttando la mano d'opera (schiavi).
    Dunque per aumentare il suo guadagno il padrone cerca di far lavorare sempre di più lo schiavo e di pagarlo sempre di meno (aumento della produttività).
    Dal momento che lavorando di più (aumento produttività) aumentano i beni in circolazione scatta la crisi economica poiché contemporaneamente diminuiscono i compratori (diminuzione del salario).
    Esempio sono i piazzali pieni di auto nuove che sempre meno persone possono comprare.
    I negozi chiudono perché perché le persone hanno sempre meno soldi per comprare.
    Si dice che aumenta l'offerta e diminuisce la domanda.
    Non si risolvono le crisi tentando di regolare semplicemente l'offerta e la domanda (gli 80 € di Renzi) ma bisogna cambiare completamente il sistema e la società (marxismo al posto del capitalismo).

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    1. grazie per il contributo, ma lei descrive proprio ciò che invece intendo contestare: la crisi prescinde dall'aumento della produttività, infatti questo aumento l'aggrava, ma non ne è la causa fondamentale.
      la sua spiegazione per la prima elementare è identica alla tesi di Bagnai, non a quella di Marx e nemmeno, si parva licet, la mia. la crisi si manifesta come sovrapproduzione a prescindere dall'aumento della produttività. la crisi è in nuce già nel lavoro non pagato, cioè nel plusvalore. chiaro che aumentando la quota non pagata all'operaio aumenta anche, a parità delle altre condizioni, la quantità delle merci che non possono essere acquistate.
      il marxismo, quale analisi e critica del modo di produzione capitalistico, non prenderà il posto del capitalismo.

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  2. Che bella risposta!
    Allora la mia banalizzazione è servita a qualcosa!
    Ewwiva!

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  3. Promosso in seconda ?
    Vabbè siamo arrivati alla seconda stella !
    Ma le stelle sono tante, milioni di milioni, come diceva quella pubblicità di quando ero piccino.
    Il mio maestro Alberto Manzi sempre diceva che non è mai troppo tardi, ma Lui faceva il maestro non il comico.

    Caino

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  4. questi non sono problemi per nulla risolvibili dentro i muri di casa tramite interventi statali - o europei

    eppure questa semplice acquisizione per ora solo teorica, l' unica all' altezza della sfida dei nostri tempi, ancora non passa

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  5. Personalmente apprezzo molto le tue ottime e splendide analisi economiche - "tecniche" come tu preferisci definirle - che, nonostante lo sforzo di semplificazione (splendido!) di linguaggi e concetti a tutto favore della maggiore fruibilità e comprensione per i "meno preparati in materia economica", mantengono intatta la loro validità e soprattutto utilità. Che, a mio avviso, non è solo "tecnica" ma politica, almeno potenzialmente.
    Che intendo dire? Niente di più che, una volta compresi, accettati e condivisi i concetti fondamentali, è richiesta l'assunzione di un impegno successivo, altrettanto fondamentale: quello della militanza politica il cui scopo è tradurre la comprensione non solo 1) in coscienza di classe nella classe, attraverso un quotidiano e difficile lavoro politico che per superare i limiti dell'isolamento e dell'individualità (nota bene: non parlo di individualismo) necessita di una dimensione organizzativa di lavoro (politico) che sia collettiva. Ma anche 2) essere capaci di tradurlo in programma per l'azione, in azione rivoluzionaria.

    Mi riferisco con ovvietà alla necessità di affiancare la concreta militanza teorica - oggi ancor più necessaria data l'assoluta confusione teorica dilagante e la predominanza ideologica pervasiva dell'ideologia dominante - con una militanza politica che abbracci anche l'organizzazione politica e l'intervento politico nella classe. Militanza politica che necessita di un'organizzazione collettiva per la propaganda, la diffusione, il radicamento, il rafforzamento nella classe sia del programma comunista che di quello che è l'indispensabile strumento di lotta politica degli sfruttari: il partito rivoluzionario di classe, il partito comunista internazionale e internazionalista.
    Insomma, e in estrema sintesi: compresi i meccanismi di funzionamento e la barbarie del capitalismo, nonché la sua assoluta irriformabilità, occorre propagandare nella classe il programma politico per il suo superamento rivoluzionario.
    Mi piacerebbe conoscere la tua opinione su questo, cara Olympe. E mi scuso per il pippone ;-)

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    1. Come scriverò nel prossimo post (però non so se lo metto nel blog poiché tratta dell’autobiografia di un personaggio verso il quale non so bene come comportarmi, cioè cosa dire e non dire: vedremo) la mia idea è di non intendere il superamento del capitalismo come semplice evoluzione da un modo di produzione ad un altro, bensì come processo di trasformazione sociale complessiva. Tale processo di trasformazione – che non potrà essere lineare considerando la complessità, vastità e le forze in campo – non potrà che interessare e impegnare parecchie generazioni. E però solo nel maturare della crisi della legge del valore, la quale toglie razionalità al capitalismo (l’esempio dello sfruttamento del lavoro di gente anziana quando i giovani sono disoccupati, tanto per citare), potrà prendere forma una nuova consapevolezza tale da innescare quel salto qualitativo necessario perché nella lotta di classe la soggettività delle masse giochi un ruolo importante.

      Per quanto mi riguarda personalmente, non colgo nel panorama politico e organizzativo alcuna formazione a cui aderire, e poi le mie condizioni di salute m’impedirebbero qualsiasi partecipazione realmente attiva, posto che la mia potesse sortire qualche utilità.

      Grazie per il commento e per il benevolo giudizio.

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