venerdì 12 febbraio 2016

Potrebbe sorgervi la domanda ...

Post "tecnico", per giunta di venerdì.

La produzione capitalistica tende continuamente a superare le proprie contraddizioni, ma riesce a superarle unicamente e momentaneamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.

Avendo il capitale come suo scopo l’accrescimento illimitato della produzione, ossia la produzione come fine a se stessa, pone lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro permanentemente in conflitto con il suo fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.

Infatti, non bisogna mai dimenticare che scopo della produzione capitalistica non è il processo vitale della società dei produttori, bensì la conservazione e la valorizzazione del capitale, dunque la produzione è solo produzione per il capitale.

Storicamente il modo di produzione capitalistico è un mezzo potente per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, ma esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.

Ed è proprio su questo punto che cade ogni illusione borghese, laddove si ritenga che tale compito storico di sviluppo della forza produttiva materiale e di creazione di un mercato mondiale possa proseguire indefinitamente. Per altri versi è illusione che il “capitalismo crollerà spontaneamente”, di modo da dover praticare una collaborazione col nemico di classe sul piano del riformismo.

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Vediamo come nell’evoluzione della forza produttiva si sviluppa anche la composizione superiore del capitale, con la diminuzione relativa della parte variabile (v) in rapporto alla costante (c). Si giunge così ad una diminuzione del saggio generale del profitto, poiché il plusvalore cresce sempre meno del capitale complessivo (c + v).

In altri termini, una massa determinata di lavoro vivo (lavoratori produttivi) mette in azione, con lo sviluppo della produttività sociale, una massa di lavoro morto (macchine, materie prime, ...) sempre maggiore. Poiché il saggio del profitto è calcolato sul rapporto fra il pluslavoro (plusvalore) prodotto dalla forza lavoro ed il capitale complessivo messo in opera, esso decresce con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico (vedi qui).

Com’è possibile, tuttavia, che un numero (il saggio di profitto, esprimendo un rapporto tra due grandezze quantitative, è una percentuale) provochi la crisi di un sistema economico reale?

In effetti, scrive Marx, la “caduta del saggio del profitto è così soltanto un indice che rinvia alla caduta relativa della massa del profitto”. Infatti, il decrescere del saggio del profitto non implica la diminuzione della massa di plusvalore prodotto, poiché quest’ultimo può crescere in assoluto a condizione che “il capitale complessivo [cresca] in proporzione maggiore della diminuzione del saggio di profitto”.

In proposito, Marx osserva che lo “stesso sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime quindi, nel progresso del mondo capitalistico di produzione, da un lato in una tendenza alla diminuzione progressiva del saggio del profitto, e dall’altro in un incremento costante della massa assoluta del plusvalore acquisito o del profitto”.

Se siete arrivati fino a qui, potrebbe sorgervi la domanda: come può il movimento crescente del profitto dar luogo alla crisi?

Se la caduta del saggio del profitto è compensata dall’aumento del saggio del plusvalore, quindi, dall’incremento complessivo del profitto, al capitalista non converrebbe accumulare con una rapidità sempre maggiore di quanto diminuisca il saggio del profitto?

È proprio così che ragionano i padroni e i loro leccaculi, e, paradossalmente, è proprio per questo che i loro problemi anziché risolversi, si aggravano!

Poiché esiste un limite all’ulteriore estensione del plusvalore assoluto e di quello relativo, si giunge egualmente ad un punto del processo di accumulazione in cui la massa del plusvalore è insufficiente a valorizzare una massa ancora accresciuta di capitale accumulato.

Il saggio generale del profitto cade, quindi, perché – come dice Marx – “la massa del profitto diminuisce relativamente al capitale anticipato: la diminuzione del saggio del profitto esprime il rapporto decrescente tra il plusvalore stesso e il capitale complessivo anticipato”. Quanto più si sviluppa l’accumulazione, tanto più il saggio del profitto cade, in quanto la massa del profitto, pur potendo aumentare in assoluto, aumenta in maniera insufficiente a consentire  la valorizzazione del capitale sempre crescente sulla base precedente: “l’estensione della produzione e la valorizzazione” entrano in conflitto.

La legge dell’aumento della composizione organica, infatti, non va analizzata esclusivamente dal lato del valore, solo come aumento di (c) relativamente a (v), ma anche dal lato della materia, come aumento della grandezza fisica dei mezzi di produzione (Mp) relativamente alla forza-lavoro che li attiva.

Oltretutto, dal punto di vista quantitativo, Mp cresce rispetto a L più rapidamente di quanto (c) cresca in rapporto a (v), dal momento che, a causa dei progressi tecnici, il costo dei mezzi di produzione si riduce dal punto di vista del valore.

Ad un determinato livello dell’accumulazione, quindi, la scala della produzione è data tecnicamente: poiché per la sua espansione è necessaria una quantità definita di capitale, la grandezza del plusvalore che si richiede per consentire la valorizzazione non è arbitraria, ma sottoposta a vincoli tecnici.

L’estensione della produzione richiede, ad esempio, l’acquisto di tutta una serie di macchine complementari che costituiscono un’unità, per cui l’espansione produttiva può essere data solo da questa unità o da un suo multiplo.

Le difficoltà di valorizzazione, nelle fasi storiche di crescita del capitalismo, si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche. In altre parole, quando il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario salto di composizione organica si determina la crisi di sovrapproduzione.

Per sovrapproduzione di capitale, peraltro, non s’intende sovrapproduzione di merci (benché la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di merci) ma sovraccumulazione di mezzi di produzione e sussistenza in quanto questi possano operare come capitale.

Il concetto di sovrapproduzione di capitale, scaturendo prima di tutto dal processo di produzione, mostra – come dice Marx – in che modo “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso” e come la crisi scaturisca “dalla natura stessa della produzione capitalistica, come necessità logica”.

Lo sviluppo logico delle categorie economiche dimostra il carattere storico del sistema capitalistico, e ciò significa, tra l’altro, che la crisi di sovrapproduzione è un fenomeno tipico del capitalismo. E tuttavia il limite che segna l’arresto dell’accumulazione e, di conseguenza, il destino del modo di produzione capitalistico, nella realtà concreta non coincide con il “crollo spontaneo” o automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del modello è un istante logico e non immediatamente storico, ma anche perché il movimento reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin – che “il fenomeno è più ricco della legge” (*).

Le contraddizioni operano all’interno delle leggi del modo di produzione capitalistico, e giungono a maturazione (massima divaricazione) nella fase della sua crisi generale-storica. Questo processo, mentre da un lato crea le condizioni materiali a un nuovo modo di produzione, dall’altro fa sorgere nelle masse proletarie, le cui condizioni di vita si fanno sempre più dure, il bisogno vitale di una trasformazione rivoluzionaria. Tale processo, dal lato della lotta di classe, ha subito per diversi motivi una fase d’arresto, è entrato, per così dire, in sonno, ma i segni di un risveglio dell’antagonismo sociale sono già nelle cose.


(*) La teoria marxiana della crisi, nella misura in cui nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, disperde le nebbie delle concezioni che deducono il superamento del capitalismo dall’ingiustizia e dalle disuguaglianze sociali, o dal semplice squilibrio nel ricambio organico con la natura, oppure dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato, sia esso chiamato “moltitudine” o in altro modo.

3 commenti:

  1. questo bel post mi conferma che l'opera marxiana sia ancora tutta da scoprire nella sua freschezza e radicalità, non accettando mai le opzioni date che oscillano tra idealità (ricomporre lo iato tra storia e logica) e materialismo volgare (la dura realtà dello iato)

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    1. come lo dici bene, ma di ricomporre mi sa che interessa ben pochi. un pragmatismo e un cinismo esasperati domina su tutto

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    2. tempi pesi per le colombe: durano come i gatti sulla Aurelia...

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