lunedì 19 ottobre 2015

La causa principale della “sconfitta politica, sociale, morale”


Scrive Luciano Gallino in apertura della sua ultima fatica, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti:

«Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, quest’ultima strettamente collegata con la prima. La stessa crisi del capitalismo ha molte facce: l’incapacità di vendere tutto quello che produce; la riduzione drastica dei produttori di beni e servizi i quali abbiano reale valore d’uso; il parallelo sviluppo del sistema finanziario al di là di ogni limite … .»

Lasciamo da parte il discorso sull’uguaglianza che riprenderò in chiusura al post e andiamo subito alla “ciccia” della tesi di Gallino, ossia l’incapacità di vendere tutto quello che si produce. Sarà mai una questione di marketing la crisi?



Come ogni economista, sociologo, politologo, anche Gallino anziché cercare la causa delle crisi nel carattere stesso del capitale, e con ciò mettere in luce anzitutto il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro, preferisce cercarla nella circolazione, in modo da poter scrivere e riscrivere che la crisi in cui si dibatte il capitalismo è crisi di sovrapproduzione di merci.

Ciò significa semplicemente una cosa, e cioè che la società nel suo insieme ha prodotto più di quanto abbia consumato o che ha consumato meno di quanto si è prodotto (chiarisco: la crisi di sovrapproduzione è anche crisi di sottoconsumo, benché quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un aspetto, e non la necessità). La differenza tra produzione e consumo sarebbe causa di quello “squilibrio” che dà luogo alle crisi, aggravate dal ruolo che ha assunto, “oltre ogni limite”, la finanza nell’economia.

Poiché ad illudersi che si possa riformare il capitalismo sono legioni, specie a “sinistra”, va chiarito in premessa che se fosse per questo motivo, ossia se la causa immanente delle crisi coincidesse con il suo modo di manifestarsi, con la sovrapproduzione di merci, nel susseguirsi periodico di espansione e ristagno, all’attuale modo di produzione sarebbe garantita vita eterna.

Con buona pace di ogni illusionista borghese, le cose non stanno affatto così. Ad ogni modo vediamo in sintesi cosa raccontano gli economisti e i sociologi ai loro nipoti.

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Per lungo tempo la pseudo-scienza economica borghese ha tentato di trovare risposta alle crisi di sovrapproduzione, ossia al sottoconsumo. Keynes imputava il ristagno nei consumi a una presunta “legge psicologica della diminuzione del consumo in caso di crescente ricchezza”. In altri termini, la ragione dell’insufficienza dei consumi andrebbe ricercata nell’aumento del risparmio, e la propensione al risparmio sarebbe caratteristica di una non meglio precisata “natura umana”.

Sia pure con un prassi più rozza e teoricamente pasticciata, anche gente come Renzi-Padoan cerca di dare alimento ai consumi con qualche mancia in deficit e soprattutto alimentando con le buone novelle la propensione psicologica al consumo, dichiarando guerra al risparmio (salvo i titoli di Stato).

Ci si è però resi conto, specie nelle correnti di pensiero della sinistra critica, che l’idea di “ritornare a una crescita quale si è registrata in pochi decenni della seconda metà del Novecento sia impensabile quanto rischiosa”. Rischiosa per due motivi, scrive Gallino: perché tale tentativo, messo in atto con le note politiche neoliberiste, costituisce “un attacco alle libertà democratiche”; e perché oltre a quella economica siamo a una “crisi ecologica che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno” (pp. 6 e 7).

È lo scopo di ogni volenteroso economista e sociologo riformista, e dunque a buon diritto anche di Gallino, quello di: 1) far apparire di per se stessa la sovrapproduzione come una spiegazione scientifica della crisi, cioè come analisi non di una delle possibili manifestazioni della crisi, ma come suo fattore scatenante; 2) che sia possibile regolare la produzione capitalistica a piacere e cioè risolvere la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico con l’intervento politico riformatore.

In buona sostanza il rimedio sarebbe semplice: basterebbe intervenire sugli “squilibri” e in tal modo eliminare la sovrapproduzione di merci e con essa la causa principale della crisi, assicurando una crescita armonica della produzione sociale. In fin dei conti, gratta-gratta, è la riproposizione della vecchia teoria della “programmazione”.

Perché ciò non viene fatto? Per pagine e pagine Gallino ci spiega che il mondo va così male a causa della “stupidità” delle sue élite. E dunque tra le cause del disastro attuale avrebbe un rilievo particolare, secondo il sociologo torinese, l’aspetto ideologico e culturale di formazione delle élite. E qui non mi sento di dargli torto, ma dobbiamo essere comunque un poco più esigenti sul terreno analitico, altrimenti si potrebbe dire altrettanto delle tragedie enormi del Novecento e degli eccidi di massa che hanno costellato la modernità.

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Non siamo in presenza semplicemente di “crisi di sovrapproduzione di merci” determinata da mancanza di sbocchi sul mercato, in ultima analisi a delle “crisi di sottoconsumo”. Le crisi non sono solo un problema di realizzazione, “incapacità di vendere tutto” come sostiene Gallino. Queste sono idee che riducono un fenomeno complesso della crisi del capitalismo ad un suo aspetto. Come ho già detto qui sopra e ridetto varie volte in precedenza, individuare la crisi come crisi di sovrapproduzione di merci, significa individuare la contraddizione principale non nella produzione, bensì nella circolazione. E ciò ha delle implicazioni essenziali che eludono il reale processo storico capitalistico.

Dall’estorsione del lavoro non pagato, cioè dell’estorsione del plusvalore, ha origine la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, e non dunque, come vuole dare da intendere Gallino, dall’esito delle “stupide” politiche neoliberiste. Le quali sono invece una conseguenza da un lato della lotta tra capitale e lavoro, e dunque della lotta tra le classi, e dall’altro sono espressione del dominio del capitale nella sua fase di massima espansione ed egemonia.

Tali politiche puntano a sostenere il capitale contro le difficoltà di valorizzazione allorché il saggio generale del profitto cade, dunque di estendere attraverso lo sfruttamento e il peggioramento delle condizioni di lavoro degli operai il limite del plusvalore assoluto e relativo. E tuttavia non possono nulla tali politiche quando il processo di accumulazione raggiunge il punto in cui la massa del plusvalore è insufficiente a valorizzare una massa ancora accresciuta di capitale accumulato (ne ho scritto varie volte).

Da un punto di vista più propriamente tecnico la sovrapproduzione di merci è innanzitutto sovrapproduzione di capitale (benché questa determini sempre sovrapproduzione di merci), cioè sovraccumulazione di mezzi di produzione e di sussistenza. Il processo di sovrapproduzione di capitale, scaturendo prima di tutto dal processo di produzione, mostra ­– come dice Marx – in che modo “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso” e come la crisi scaturisca “dalla natura stessa della produzione capitalistica, come necessità logica”.

La produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, laddove la valorizzazione del capitale è l’intrinseco fine della produzione capitalistica. Nello sviluppo delle forze produttive, il capitalismo trova un limite che ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale. La crisi dunque non sta, nel suo motivo fondamentale, nella “incapacità di vendere” o semplicemente nell’eccesso di produzione di merci, ossia in queste semplicistiche formulazioni che nulla hanno di scientifico.

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Qui l’uguaglianza e altre chiacchiere consimili non c’entrano, i singoli capitalisti, o chi sta a capo delle corporation, sono interessati solo all’acquisto e allo sfruttamento della forza-lavoro; ma, fuori del rapporto di scambio e di sfruttamento, ogni costo diventa per loro improduttivo, irrazionale e, dunque, assolutamente privo d’interesse. Che si tagli la spesa sociale per dare soldi ai padroni, in nome della crescita e della competitività, rientra nella logica dell’intervento dello Stato appaltato dal capitale.

Lo scontro sociale è stato abbondantemente perso, non come dice Gallino, perché sono venute meno “l’idea di uguaglianza, anzitutto politica” e quella “di pensiero critico”, con la “vittoria della stupidità”. Lo scontro è stato vinto dalla borghesia innanzitutto sul piano dei rapporti sociali prima ancora che ideologici, sul piano concreto dello dispiegarsi della nuova fase globale, nell’internazionalizzazione del mercato del lavoro e dello scambio, e infine agendo proprio sulle determinazioni politiche della crisi.


L’abbandono di ciò che abbiamo di più solido e scientifico in materia di critica dell’economia politica, e dunque l’abbandono e anzi lo sputtanamento, questo sì scientifico, della critica marxiana del modo di produzione capitalistico, è stata la causa principale della “sconfitta politica, sociale, morale” alla quale allude Gallino rivolgendosi ai suoi “cari nipoti”. Invece di scrivere e poi far leggere le sue fantasie ai propri nipoti, Gallino farebbe bene di studiare Marx insieme a loro. In Marx c’è tutto ciò che devono sapere su questo argomento.

4 commenti:

  1. il gallino sarà pure un bravo sociologo ma di economia non capisce un tubo. infatti da anni ormai scrive anche di economia, solo che le sue elucubrazioni sull'economia sono coglionate assolute.
    franco valdes piccolo proletario di provincia

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  2. in fondo Gallino ha scoperto pochissimi anni or sono che "il lavoro è una merce", ed io che mi reputo un ignorante mi sono inorgoglito tutto

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    1. questi sapienti del cazzo lo sanno bene che la contraddizione fondamentale da cui scaturisce tutto il resto è il lavoro non pagato. ma gli fa comodo così, scrivono libri e incassano

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  3. Chiunque si occupi di problemi politico-economico, e dunque, sociali a qualunque titolo e a qualsiasi livello e prescinda da Marx non può che essere in malafede.

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