martedì 25 agosto 2015

Correre bendati con una fiamma accesa


Pechino taglia i tassi e torna l’euforia. Tutto bene? Manco per niente, durerà quanto durerà, cioè fino al prossimo crollo. Non per via di questo e di quello, non fondamentalmente per i motivi che ci vengono sciorinati da sempre. Scambiare gli effetti (crisi finanziaria e crollo delle borse) con le cause (l’accumulazione capitalistica e la sua contraddizione fondamentale), porta a dimenticare un fatto elementare che peraltro anche la più prosaica delle evidenze conferma: lo sviluppo del capitalismo può avvenire solo attraverso successivi momenti di crisi (*).

Il drammatico crollo dei mercati azionari di ieri, preannunciato nei giorni e settimane precedenti da sinistri scricchiolii, quasi tutti originatisi in Cina, segna la sconfitta epocale della tecnocrazia monopartitica di Pechino, sin qui considerata quasi onnisciente.

Alla stregua di Phastdio si potrebbe dire che il drammatico crollo dei mercati azionari del 2008 segnava la sconfitta epocale dell’oligarchia finanziaria statunitense, o cose del genere.

Secondo questo punto di vista, la crisi più che un fatto economico verrebbe da dire che è il risultato di un certo assetto politico e della sua dottrina economica, come se le contraddizioni da cui muove il capitalismo, compreso ovviamente quello cinese, potessero essere regolate sulla scorta di più o meno accorte manovre monetarie.



Quello citato è un esempio di scuola di quando all’analisi si sostituisce l’ideologia, di quando si prendono gli effetti per le cause a spiegazione di qualcosa che non si sa spiegare se non descrivendo il fenomeno per quale esso appare.

Si scambiano gli effetti, le scelte congiunturali di politica economica di Pechino o di qualunque altra autorità meno tecnocratica e più pluralista, con le cause strutturali delle crisi nel modo di produzione capitalistico. Per seguire l’esempio citato: che cosa ha “portato alla deflagrazione dei mercati di questi giorni”? Risposta: “il gonfiamento delle quotazioni azionarie, frutto delle politiche monetarie eccezionalmente lasche perseguite in questi anni nei paesi sviluppati, per combattere la crisi”.

Questa non è una spiegazione della crisi, si tratta di una mera presa d’atto del fallimento della risposta monetaria alla crisi.

La domanda dovrebbe essere: perché queste politiche monetarie espansive alla fine si rivelano fallimentari, ossia quali sono le contraddizioni da cui origina la crisi? E invece non si giunge mai a strappare un’analisi sulle cause reali di un qualunque fenomeno economico, non ultime le cause effettive che spingono alla finanziarizzazione dell’economia, se non col dire che gli investimenti produttivi rendono poco. Eureka, fin qui ci arrivano tutti. Ciò che vorremmo sapere è cosa determina strutturalmente tali squilibri, e se poi è vero che la crisi è semplicemente il prodotto di tali squilibri o c’è dell’altro.

Secondo le ubbie più accreditate (anche a “sinistra”) la produzione dipenderebbe dal consumo, cadendo i consumi cadrebbero anche gli investimenti. Per ripristinare l’equilibrio occorrerebbe allora o l’intervento coordinato dello Stato nell’economia (posizione cara ai vecchi e nuovi keynesiani) oppure agire sul controllo della massa monetaria (cosa che viene fatta), calcolando di volta in volta un tasso adeguato del suo aumento, riducendo poi i salari, diminuendo il tasso d’interesse allo scopo di favorire gli investimenti e cose del genere.

Ad ogni modo, qualunque sia la ricetta “per uscire dalla crisi” non si tiene conto del fatto che dietro ai fenomeni di mercato si cela la produzione capitalistica di plusvalore. Ed è essa a determinare la domanda, non viceversa. E dunque la crisi capitalistica è anche crisi di sproporzionalità, però la sua causa va ricercata, in ultima istanza, nel meccanismo stesso dell’accumulazione, vale a dire nella produzione di plusvalore per il plusvalore.

In altri termini, la genesi della crisi va cercata nella produzione di plusvalore e non nella sua realizzazione. Procedere in senso inverso, collocando cioè la contraddizione principale nella circolazione, conduce inevitabilmente alle più elusive ed errate interpretazioni della crisi, da quella del sottoconsumo (il “buco della domanda”) a quella collaterale che ha ad oggetto principale il debito e la crisi fiscale dello Stato, ossia la crisi per “eccesso d’indebitamento del settore privato”, di quel debito che sposta “il proprio peso dal settore privato a quello pubblico, a seguito soprattutto dei salvataggi bancari”, e da ciò derivano le sempre maggiori difficoltà dello Stato a reperire risorse per stimolare la domanda, ossia la “crescita”.

E qui viene il bello, il problema del debito. Anche qui gli apprendisti stregoni che vorrebbero dominare le contraddizioni del capitalismo (senza conoscerne peraltro le reali dinamiche) elaborano tesi che alimentano l’illusione sulla possibilità di risolvere la crisi intervenendo nella sfera del mercato, in definitiva agendo sul movimento del denaro e la distribuzione della ricchezza o con default espliciti o con l’inflazione. E però in tal caso è come correre bendati con una fiamma accesa dentro un deposito di fuochi d’artificio.


(*) Qui sorvolo sulla portata storica di questa crisi avendo trattato l’argomento già altre volte.

5 commenti:

  1. Sto cercando sulla tastiera il tasto "Applausi a scena aperta".

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  2. Peccato che..

    Peccato che a correre con la torcia accesa ,infililata non dico dove siano sempre i soliti..
    Vedremo fin dove durera'questa innata direi,propensione al masochism di massa..

    caino

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  3. si parla già di un nuovo quantitative easing americano, altro che taglio dei tassi !

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  4. Da dove origina il plusvalore, posto che ormai siamo a una crisi irreversibile del lavoro salariato? La povertà attuale nasce dall'esclusione del lavoro, più che dallo sfuttamento del lavoro stesso (che ovviamente esiste, come sempre). O sono i miloni di ambulanti del pianeta a produrre plusvalore? In altre parole si puà realmente dire che il plusvalore abbaia ancora origine dal lavoro? I guadagni trilionari dei Paperoni provengono dallo sfruttamento delle masse, o dall'abbandono delle masse al loro destino? E se il plusvalore non proviene più nello specifico ( o proviene in parte minore) dal lavoro, si può ancora parlare di plusvalore?

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    1. scusa se non mi faccio gli affari miei, anonimo delle 14:57,ma ti sbagli: è nei paesi a capitalismo maturo che il lavoro salariato è in crisi, complessivamente invece non si è mai lavorato a salario così tanto

      ricordo che il concetto di "lavoro salariato" non ha nessuna accezione "sindacale" nella teoria del valore

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