venerdì 5 giugno 2015

Il primo passo


Pilastro dell’ordine sociale contemporaneo è il welfare, nonostante i massicci attacchi cui è stato sottoposto negli ultimi decenni. Welfare significa un mercato in grado di garantire adeguata offerta di occupazione per la forza-lavoro e alti margini di plusvalore al capitale, sanità universale gratuita e previdenza in cambio del consenso al sistema (*).

Per decenni il riformismo di ogni colore politico ha potuto cantar vittoria e felicitarsi con se stesso: le crisi di sovrapproduzione che diffondevano miseria erano risolte, la pace sociale tra le classi non era più in discussione e il comunismo messo fuori gioco, bollato come utopia totalitaria sull’esempio dei regimi sedicenti comunisti (**).



Un aspetto saliente del welfare è costituito dalla previdenza, ossia dalle pensioni. Al riguardo, spesso è richiamato il cosiddetto patto tra generazioni: quelle più giovani con i loro versamenti coprono le pensioni delle generazioni più anziane. Ciò corrisponde al vero solo in parte poiché la contribuzione previdenziale non copre la spesa complessiva per le pensioni. E anche per quanto riguarda gli altri segmenti del welfare, il vorticoso aumento del debito pubblico in ogni paese dimostra la sua insostenibilità e perciò si parla di crisi fiscale dello Stato.

Nel post precedente alludevo all’enorme evasione fiscale, dato questo inequivocabile e invocato dai pompieri del sistema, da coloro cioè che pensano di poter riequilibrare il sistema coprendo il disavanzo con maggiori entrate provenienti dalle classi più ricche. Sempre nel post precedente dicevo che l’insostenibilità dipende fondamentalmente dal fatto che per il capitale l’unica misura della razionalità è il plusvalore e che esso non è disposto a farsi carico della spesa improduttiva. In altri termini, gran parte della ricchezza prodotta dal lavoro produttivo non viene redistribuita socialmente.

Nella fase monopolistica è il capitale a dettare le regole del gioco, esso ha preteso e ottenuto la restaurazione del regime neo-liberista. Non si è trattato solo di ridimensionare la quantità dei redditi finalizzati alla riproduzione delle classi salariate ma anche d’imporre una diversa ripartizione tra quantità appropriata dalla borghesia di Stato e quantità appannaggio della borghesia privata. Lo scontro tra le due frazioni della borghesia (viene in luce per esempio ora in Grecia) si oggettiva in due logiche complementari dello sviluppo capitalistico, tra loro in contraddizione e tuttavia solidali nel colpire da una sola parte.

Ciò che l’ala liberista più oltranzista della borghesia contesta è l’esplosione della spesa pubblica, laddove il principale imputato è individuato, manco a dirlo, nelle classi sociali più basse che, abusando della democrazia, hanno costretto i governi, in cambio del consenso elettorale, ad eccessi di spesa per pensioni, assistenza, sussidi, posti di lavoro inutili, istruzione, sanità, eccetera.

Naturalmente, degli investimenti diretti a favorire l’accumulazione e dei trasferimenti alle imprese sotto forma diretta e indiretta di sussidi, incentivi, sgravi fiscali, fiscalizzazione degli oneri sociali (vedi da ultimo Jobs act), e altre misure del genere (pensiamo al denaro regalato alle banche) si parla molto meno.

Alla prova dei fatti, dunque, il riformismo si è dimostrato, anche alla luce dei tassi di crescita economica, un ennesimo trucco, laddove i bilanci degli Stati hanno uno spazio finanziario sempre più esiguo per i loro interventi; e non poteva che essere così, posto che le ragioni profonde delle contraddizioni che scuotono il modo di produzione capitalistico e hanno generato le sue crisi cicliche e infine la sua crisi storica, trovano una loro effettiva spiegazione solo a partire dalla struttura produttiva (***).

La grande borghesia ha perseguito la limitazione del ruolo degli Stati ridefinendone le funzioni-obiettivo, riducendo la quota di reddito distribuita in welfare e puntando a ridurla sempre più. Lo Stato, come si evince ormai ad ogni tornata elettorale, è sempre meno in grado di comperare il consenso e pertanto non potrà far altro che imporlo! Lo sgretolamento della coesione sociale si accompagna dunque ad una trasformazione del quadro istituzionale verso una forma di “democrazia limitata”, nella convinzione, mai tarda a morire, che la crisi abbia un carattere sovrastrutturale.

Sepolto il mito dello Stato assistenziale se ne forma un altro: quello del controllo sociale totale. E però meno lo Stato riesce a soddisfare la richiesta di assumersi la riproduzione generale delle classi nell’ambito della divisione imperialista del lavoro sul piano mondiale, quindi gli standard di consumi sociali individuali e collettivi, e meno riesce a comprare il consenso dei salariati e degli strati di classe emarginati. Con ciò lo Stato getta la maschera e più rivela la sua natura di classe.

Basta accendere un televisore, prendere visione di un quotidiano, navigare da un sito internet all’altro per rendersi conto di come sistema dei partiti, governo, padroni, sindacati si stringono in uno stesso patto di sopravvivenza, si corresponsabilizzano, diventino variabili dipendenti di uno stesso sistema di sfruttamento e degradazione degli esseri e delle cose, di antiche e nuove povertà, di corruzione e di folle spreco.

Che cosa può fare ognuno di noi in tale situazione? Privare questo sistema di legittimità. Una lunga marcia comincia con un primo passo. Non votare è il primo passo di questa lunga marcia.

(*) Lo Stato, nella visione cosiddetta keynesiana, interviene nell’economia con politiche di sostegno e stabilizzazione del sistema, cioè con iniziative anticicliche e di aiuto all’accumulazione capitalistica, in altri termini e tra l’altro con la creazione di domanda aggregata e l’aumento della liquidità. La domanda aggregata favorisce l’occupazione e irrobustisce il cosiddetto welfare in modo da creare le condizioni più favorevoli per la pace sociale, con tutte le ricadute politiche che ben conosciamo.

Storicamente il New Deal roosveltiano e la politica economica del nazionalsocialismo esemplificano bene tale tipo d’intervento nei due paesi capitalistici più sviluppati. La crisi fu temporaneamente contenuta, anche se non superata, e il conflitto di classe arginato e represso. Questo tipo d’intervento statale fu proseguito anche nel dopoguerra, con la ricostruzione e la corsa agli armamenti, l’ampliamento della spesa pubblica e la promozione dell’inflazione, eccetera.

(**) Vero che il Pci rappresentava il più grande partito comunista d’Europa, ma altresì l’appartenenza dell’Italia all’ambito del blocco occidentale era fuori discussione. Il monito cileno del 1973 perfino superfluo.


(***) Essendo il modo di produzione capitalistico incapace di sviluppo lineare indefinito, e perciò incapace di soddisfare le richieste sociali delle classi subalterne, ossia i livelli di welfare raggiunti, la borghesia ha deciso di sbarazzarsi di un sistema entro i quali essa non è più in grado di soddisfarli.

6 commenti:

  1. Analisi perfetta del non detto che sta accadendo.
    Mi pare che la strategia preveda scenari americani in via di consolidamento.
    Gli strati crescenti di diseredati, privi di qualsiasi organizzazione politica, vengono semplicemente eliminati dal discorso pubblico e lasciati marcire nella marginalità, gestita come ordine pubblico e carità pelosissima.poi si vedrà. g
    ps. amici italo tedeschi mi dicono quanti siano ormai i poveri per strada anche nella germania felix.

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    1. ce ne sono ormai parecchi anche lì, ma soprattutto moltissimi precari come qui e altrove

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  2. Si il " conflitto di classe" sfocia sempre in "rivolte", ma la storia ci mostra molti esempi che quando il sistema di potere non riesce a " riempiere le pance" dei sudditi puo' sempre "riempigli le teste" ( sempre purtroppo vuote) di bischerate e falsi nemici ( vedi gli odierni giovani occidentali e i giovani islamici ) di modo che la rivolta ( comunque sempre a carico dei sudditi) non comporti nessuna rivoluzione sociale.

    In altre parole le " rivoluzioni" del XX secolo non sono la "regola" ma eccezioni dovute a particolari condizioni storico-economiche che i dominanti ovviamente hanno capito e che quindi cercheranno di non far ricomparire. :-(

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  3. bel post

    anche chi una volta ha pagato effettivamente il 50% delle tasse sul fatturato dovrebbe essere considerato quasi un salariato, diciamo un "salassato" il cui capitale viene sussunto da capitali più concentrati,
    non è forza lavoro ma è spremuto anche lui per bene





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    1. su questo non ci piove, conosco la situazione. qui si parla in generale, sempre.

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  4. in questo balletto il secondo passo deve essere chiudere il conto in banca, ma qui qualche borghese rischia di incespicare malamente. Un passo alla volta, mai due! asteniamoci e partite.

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