mercoledì 25 marzo 2015

Uno specchio lontano


La sera del 9 agosto 1914, il generale Joseph Simon Gallieni, pranzando in borghese in un piccolo ristorante parigino,  sentì un redattore del quotidiano Temps, che sedeva al tavolo accanto, dire a un commensale: “La informo che il generale Gallieni è appena entrato a Colmar con tremila uomini”. Gallieni si avvicinò all’orecchio del suo amico che sedeva a tavola con lui e gli disse: “Et voilà comment on écrit  l’histoire!”.

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Ogni guerra porta con sé follie e brutalità soprattutto a danno delle popolazioni civili, ma riguardo alle più efferate brutalità e agli eccidi, alla nostra memoria affiorano dapprima le immagini drammatiche e tragiche dei crimini di cui si è reso responsabile l’imperialismo e il militarismo germanico durante l’ultimo conflitto mondiale.

E dico questo senza voler minimizzare i crimini di altre potenze e assolvere il colonialismo, incluso quello italiano e l’ecatombe provocata dai belgi in Congo. Se leggiamo la biografia di quel generale Gallieni, ci rendiamo conto di quali terribili orchi era capace di partorire la civile Europa anche in tempi recenti. Non va dimenticato che le potenze coloniali, non esclusi gli Usa, a cavallo tra i due secoli si spartirono vaste aree del pianeta.

La lotta per la spartizione del mondo fu la causa principale del conflitto bellico 1914-1918 che costò la vita a milioni di persone, cui s'aggiunse l'epidemia di "spagnola" che falcidiò la popolazione debilitata a causa della guerra, con circa 50 milioni di morti su una popolazione mondiale che era un quarto di quella attuale.

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Non per questo vanno dimenticati altri crimini commessi dallo stesso militarismo germanico in occasione di precedenti eventi bellici, per esempio quelli perpetrati subito dopo la sconfitta francese di Sedan (1870), quando all’improvviso nacque la resistenza francese. Anche allora la feroce rappresaglia tedesca, segnatamente prussiana, aveva stupito il mondo per la ferocia con le esecuzioni in massa di prigionieri di guerra e di civili sospettati di fare della guerriglia come francs-tireurs.

L’odio dei prussiani per i francesi ha origini antiche, tanto è vero che Federico Guglielmo III, nel 1814, ebbe a far coniare una medaglia commemorativa con la sua firma autografa nella quale venne incisa questa frase: “Dio fu con noi”.  Nulla di nuovo sotto il sole.

Nei cimiteri belgi ancor oggi si possono vedere delle lapidi con singolari iscrizioni, a proposito di fucilazioni di massa. Portano le date del 1914 e del 1940.

Nel 1914, lo stato maggiore germanico partiva dal presupposto che i belgi avrebbero dovuto farsi invadere senza porre alcuna resistenza significativa, limitandosi a sceneggiare una difesa fasulla tanto per salvare la faccia. Loro, i tedeschi, si servivano del corridoio belga, lungo la Mosa, per puntare su Parigi. A tale riguardo le parole espresse dal cancelliere tedesco Bethmann sono eloquenti, come ho ricordato in un post recente.

L’invasione del Belgio costituiva l’asse portante del piano d’attacco tedesco alla Francia messo a punto dal feldmaresciallo Alfred Graf von Schlieffen (†1913). In realtà non si trattava di un piano operativo vero e proprio , ma di un memorandum che aveva finalità diverse.  Al "piano" si attenne nell’agosto 1914 il suo successore, Helmuth Johann von Moltke (†1916), nipote del più noto Helmuth Karl Graf von Moltke (†1891).

Il grosso delle forze francesi nell’agosto 1914 fu schierato al centro dello schieramento, ossia in Asazia-Lorena, cioè secondo il piano preordinato e cocciutamente perseguito, a sua volta, dallo stato maggiore francese nonostante fosse ormai chiaro che i tedeschi puntavano all’aggiramento della sinistra dello schieramento francese, passando per il Belgio.

Anche dopo l’invasione tedesca del Belgio, lo stato maggiore francese rimase fermo nella convinzione che quella belga fosse solo una manovra diversiva, pur se dal fronte giungevano testimonianze plurime che il grosso delle forze nemiche si trovasse proprio ai lati della Mosa. Tempo perso farlo intendere a dei generali che avevano elaborato un piano per una guerra offensiva senza aver mai preso in considerazione, nemmeno per ipotesi, di doversi posizionare sulla difensiva contro i tedeschi (*).

I vertici miliari francesi teorizzavano che se gli invasori avessero rinforzato la loro ala destra passando dal Belgio, sarebbe stato meglio perché in tal modo lasciavano meno forze al centro (Ardenne), laddove si sarebbe sviluppata l’offensiva francese. La realtà doveva dimostrarsi ben più tosta delle illusioni del generale Joseph Joffre (†1931), il quale aveva stampato in testa lo schema, molto articolato, del conflitto franco-tedesco del 1870, nel quale, tra l’altro, l’aggiramento delle forze francesi da parte di quelle prussiane avvenne in senso opposto di quanto stava per accadere nel 1914, cioè da destra e da sud dello schieramento francese, passando dalla Lorena, dai Vosgi e da Worth, quindi per Nancy e a sud di Verdun fino a risalire a Sedan, cioè lasciando neutrali sia il Lussemburgo che il Belgio.

Se la manovra tedesca avesse avuto successo, come tutto lasciava presagire ai tedeschi, avrebbe determinato l’annientamento delle insufficienti forze francesi (5a Armata) e inglesi (corpo di spedizione costituito di sole 4 divisioni) allineate sul tratto belga, e dunque aperto la strada per Parigi agli invasori. Il piano Schlieffen avrebbe avuto successo se la manovra di aggiramento dal Belgio fosse stata portata a termine con rapidità e con il massiccio impiego di tutte le forze.

Tali imprescindibili condizioni non si realizzarono per diversi motivi: dapprima per l’eroica resistenza opposta dai belgi che ritardarono l'avanzata tedesca; poi per la decisione del generale Charles Lanrezac (†1925) di non attaccare i tedeschi perché si trovava in situazione d’inferiorità e quindi ordinò il ripiegamento, fatto che permise la salvezza della 5a Armata e con ciò il successivo riscatto francese. Per questa sua decisione Lanrezac fu silurato da Joffre.

Meno noto un altro motivo dell’arresto dell’avanzata tedesca, che riguarda una singolare decisione dello stato maggiore tedesco.

Infatti, nel momento cruciale dell’avanzata, quando le truppe conquistarono Namur, Mons e Charleroi, lo stato maggiore tedesco, credendo ormai raggiunto l’obiettivo, decise di sottrarre forze essenziali al proprio slancio offensivo per inviarle in aiuto sul fronte russo. Il generale Erich Ludendorff (†1937), a capo delle operazioni sul fronte russo, fu sbalordito dalla notizia che gli dava il colonnello Tappen dal quartier generale di Coblenza, cioè dell’invio per ferrovia (benché le ferrovie belghe fossero distrutte) di ben tre corpi d’armata dal fronte occidentale a quello orientale.

Ludendorff, rendendosi conto dell’incredibile errore che si stava commettendo, supplicò lo stato maggiore dal desistere nell’inviare rinforzi sottraendoli al fronte occidentale, dove giudicava fossero indispensabili, oltretutto perché la battaglia di Tanneberg (Laghi Masuri) era già in pieno e vantaggioso svolgimento e quelle forze aggiuntive, quando fossero sopraggiunte, non avrebbero avuto peso in quello scontro. L’appello rimase inascoltato, poiché pesarono considerazioni prevalentemente di carattere non militare, che qui sarebbe lungo esporre in dettaglio.

In sintesi, a mandare a monte il piano germanico fu l’insufficiente concentrazione di forze nel punto cruciale dell’attacco, cosa che impedì riportare una vittoria decisiva e di perseguirla fino al punto di sfasciare l’esercito francese. Come dimostra l'intervento della 1a Armata tedesca in soccorso della 2a Armata, a Guise, il 29 agosto, con ciò deviando sulla sinistra della direzione di marcia. Mancò la coordinazione tra le varie grandi unità e soprattutto la rapidità di movimento (il tempo è più atto a produrre circostanze favorevoli al perdente che non al vincitore, laddove l’invasore non trovi altri vantaggi consistenti nel possesso dei territori conquistati), impedita, come detto, dalla sorprendente e tenace resistenza opposta dai belgi. Ciò non poteva che costituire fonte di acceso risentimento dei tedeschi verso i belgi, tanto più che questi sabotavano le linee di comunicazione degli invasori.

Ed infatti il 23 agosto 1914 comparvero a Liegi dei manifesti in cui il generale Karl von Bülow, comandante della 2a Armata, comunicava di aver dato alle fiamme il borgo di Andenne nei pressi di Namur, sulla Mosa, e fatto fucilare 110 persone quale rappresaglia per non meglio specificata aggressione alle truppe tedesche. Secondo i belgi le persone uccise furono 211. A Seilles, poco lontano, furono uccisi 50 civili e le case saccheggiate e incendiate. A Tamienes l’orda di soldati ubriachi fucilò 400 civili fatti raggruppare nella piazza principale. Al termine dell'esecuzione quelli ancora vivi vennero finiti a colpi di baionetta. Nel cimitero locale vi sono 384 lapidi con l’iscrizione: 1914 Fusillé par les allemands.

Poi l’armata di Bülow prese la cittadina di Namur, vennero affissi dei manifesti in cui si diceva che si stavano prelevando dieci ostaggi per ogni strada, e se un civile avesse sparato a un soldato sarebbero stati uccisi dieci ostaggi. Si trattava di una pratica ordinaria prendere ostaggi e fucilarli, soprattutto tra le persone con cariche pubbliche e gli intellettuali. Quando le truppe del generale Alexander von Kluck, comandante della 1a Armata, entravano in un centro abitato affiggevano gli stessi manifesti, prendevano in ostaggio il borgomastro e altri notabili e una persona per ogni strada. Ma ben presto non bastò e le persone per ogni strada divennero dieci. Nella cittadina di Visé gli spari delle fucilazioni di massa si sentivano fino a Eysden, in Olanda. Seguirono le deportazioni in Germania per la mietitura e altri lavori.

A Dinant, sulla Mosa, il 23 agosto i sassoni della 3a Armata del generale Max von Hausen rastrellarono “diverse centinaia di ostaggi”, tra i quali donne e bambini. Furono allineati in due file, le donne da una parte e i maschi dall’altra, inginocchiati. Due gruppi di soldati spararono loro finché tutti i bersagli non furono a terra. Uno degli assassinati era Felix Fivet, di tre settimane. Eccetera.

Un quarto di secolo dopo l'esercito di Hitler non inventò nulla di nuovo quanto a ferocia.

I tedeschi erano ossessionati dalle violazioni del diritto internazionale compiute – a loro dire – dai belgi che sabotavano le loro linee di comunicazione, distruggendo ponti e tagliando i fili del telegrafo. Non gli passava per la mente di quali violazioni si erano resi responsabili invadendo un paese pacifico e neutrale.

Bülow, Kluck e Hausen morirono, colmi di onorificenze, in pace nel proprio letto, e al loro funerale furono tributati gli onori dovuti.  

*

Paul von Hindemburg, richiamato in servizio, si trovava in quel momento a comandare nominalmente l’esercito sul fronte russo. Più tardi ebbe a scrivere nella sua autobiografia: “Esiste un libro che non è mai invecchiato: Della guerra. Il suo autore è Clausewitz. Egli conosceva la guerra e conosceva gli uomini. Avremmo dovuto ascoltare e seguire i suoi consigli, sarebbe stato meglio per noi” (Dalla mia vita, 1925).

Carl von Clausewitz († 1831), nel suo celebre libro (molto citato e pochissimo conosciuto), nel capitolo dedicato alla “guerra di popolo” del Libro VI, non parla di “rappresaglia”, bensì di “punizione” (Strafe) per gli atti di guerriglia compiuti da civili, di villaggi saccheggiati, incendiati, ecc.. Clausewitz  nel Libro II parla di “principio del terrore”, e nel capitolo 16° del Libro V, quando parla della difesa delle linee di comunicazione, scrive che l’esercito deve profittare “del timore e del terrore che la propria presenza incute negli abitanti” (la versione originale tedesca è anche, se possibile, più incisiva della traduzione italiana).

Nel suo saggio, I cannoni d’agosto, Barbara Tuchman scrive che “Clausewitz aveva indicato nel terrore un metodo appropriato per abbreviare la guerra [si rammenti quanto avvenne in Spagna durante l’invasione napoleonica]; infatti la sua teoria era basata sulla necessità di rendere la guerra breve, brusca e decisiva. La popolazione civile non doveva essere risparmiata dalla guerra, ma doveva sentirne la pressione e costretta, da misure più severe, a spingere i suoi capi a fare la pace. Questo dettame – continua la Tuchman – apparentemente sensato veniva a quadrare con la teoria scientifica della guerra che era il risultato di un vivo sforzo intellettuale da parte dello stato maggiore tedesco per tutto il diciannovesimo secolo” (p. 368).

Da questa premessa “scientifica” degli stati maggiori germanici del XIX secolo, la Tuchman ricaverebbe il motivo, sotto il profilo teorico, da cui discenderebbero poi gli atti di sconsiderata rappresaglia perpetrati dai prussiani nel 1870 e dai tedeschi nel 1914. Anche dei teorici e storici militari, come per esempio Fuller e Liddell Hart, hanno affermato che Clausewitz, con la sua concezione della guerra come strumento di una politica avente lo scopo di “disarmare l’avversario”, è il teorico della distruzione fisica del nemico, padre spirituale della scuola strategica che ha provocato i massacri delle due guerre mondiali e che ha posto la politica al servizio della guerra e non viceversa.

Indubbiamente la scuola strategica tedesca del periodo post moltkiano ha dato un’interpretazione estremista alle idee clausewitziane, provocando un’inversione di concetto di preminenza della politica rispetto alla guerra. Tuttavia Clausewitz fa una netta distinzione tra guerra assoluta (che è un concetto astratto) e guerra reale, e sostiene la possibilità di limitare l’escalation degli eventi. Inoltre è del tutto evidente che egli pone la “grammatica” militare in obbedienza alla “logica” e agli scopi della politica. Non per nulla egli dà preminenza al combattimento rispetto all’ordine generale della manovra, riconoscendo esplicitamente che la manifestazione più completa di tale atteggiamento è rappresentata dalla battaglia d’annientamento napoleonica, la quale non presuppone la distruzione totale del nemico e la lotta a morte, ma solo la resa dell’avversario e l’apertura delle trattative (**). Senza dire che per Clausewitz i rapporti politici non cessano allo scoppio delle ostilità.

Ludendorff, influente esponente della casta militare tedesca, riconsiderava la celebre frase clausewitziana nel senso che la guerra è la continuazione della politica estera con altri mezzi, e poi completava la massima sostenendo che l’intera politica dovrebbe essere al servizio della guerra. Si tratta di un punto di vista idealistico il quale non tiene conto che le forme e l’intensità della guerra, come elemento della totalità politica che la contiene, dipendono dal momento storico e dalle circostanze.

Del resto cosa aspettarsi da delle mentalità forgiate in un ambiente dove l’esercito era l’essenza dello Stato, il corpo ufficiali la classe più elevata nella società, un generale comandante un grado superiore a quello di un ministro, il servizio militare la scuola della nazione, nella quale il popolo, come affermava il vecchio Moltke, era educato “al vigore corporale, all’amor patrio e alla virilità”. Insomma, lo spirito e la disciplina militare permeavano ogni aspetto della vita, dalla culla alla tomba. Quando ci provò Mussolini con gli italiani a scimmiottare i tedeschi, il tentativo, dapprima assolutamente comico, di farne un popolo guerriero, finì in umiliante tragedia.

Infine a voler considerare le cose sul piano della dialettica, c’è da osservare come tra fini e mezzi intervenga sempre un terzo elemento: il caso. E, dal punto di vista del materialismo storico, rilevo come assolutamente idealistico il concetto clausewitziano secondo cui lo Stato abbia dei propri interessi e che la politica costituisca “l’intelligenza dello Stato personificato”. La politica di uno Stato è innanzitutto espressione degli interessi della classe dominante, e dunque anche il concetto di guerra come strumento razionale della politica estera degli Stati poggia su tale premessa.

La vera guerra è quella tra le classi sociali degli sfruttati e dei loro sfruttatori, tra chi vuole lasciare le cose come stanno e impedire il mutamento di civiltà che si profila all’orizzonte, e coloro che per contro, costretti dalle circostanze, prenderanno “l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli”.




(*) Negli stati maggiori di ogni esercito raramente primeggiano le menti più brillanti, poiché la selezione per i posti di vertice segue criteri di anzianità e logiche politiche, senza troppo riguardo per le capacità professionali e le doti intellettuali degli ufficiali. Nei paesi belligeranti della prima guerra, per un lungo periodo e in taluni casi per tutta la durata del conflitto, a gestire e decidere furono in modo assoluto dei generali ancorati a concezioni belliche superate sia sotto il profilo tattico che strategico dall’introduzione dei nuovi armamenti (p. es. la mitragliatrice). L’esito di tali antiquate concezioni, la perseveranza con la quale quelle idee venivano imposte, produsse inediti massacri.

C’è da chiedersi se le classi dirigenti non vedessero di buon occhio quei massacri che comportavano l’eliminazione di tanti proletari e allontanavano i pericoli di sovversione sociale. La guerra servì a sfiancare la lotta parlamentare e sindacale. Al Reichstag i socialdemocratici contavano su una presenza ragguardevole di propri rappresentanti (110 seggi), e una base elettorale di quattro milioni; tuttavia, data la legge elettorale di tipo non proporzionale, una forza di opposizione isolata, cioè non in coalizione con altre forze, nello scontro nei collegi elettorali dov’era minoranza perdeva tutti i voti raccolti. Pur essendo il primo partito, i socialdemocratici non raccoglievano un numero di seggi adeguato alla loro forza. Il sistema elettorale maggioritario è l’escamotage delle classi dominanti per tenere in scacco le forze di opposizione sociale.

Oltretutto si deve considerare che oltre al Reichstag, dove si faceva soprattutto dibattito politico, esistevano anche i parlamenti locali, e d’importanza essenziale era ovviamente quello prussiano, cioè la Camera Alta. In essa un terzo dei seggi era riservato ai proprietari fondiari, un altro terzo agli alti burocrati e alla casta militare, dunque solo un terzo dei seggi poteva essere occupato dagli altri. Come si vede, le élite trovano sempre il modo per disinnescare la forza dei movimenti dal basso. Alla loro dittatura si può rispondere in un solo modo efficace: con la dittatura degli sfruttati e la liquidazione degli sfruttatori.



(**) «Così, dall’epoca di Bonaparte, la guerra, divenendo dapprima per l’una parte poi per l’altra una causa nazionale, cambiò interamente di natura; o piuttosto si avvicinò molto alla sua essenza originaria, alla sua perfezione assoluta. I mezzi impiegati non ebbero più limiti visibili; questi limiti si confusero nell’energia e nell’entusiasmo dei governi e dei sudditi. L’energia nella condotta della guerra venne straordinariamente aumentata, sia per l’entità dei mezzi, sia per l’esaltazione veemente dei sentimenti. Scopo militare divenne l’abbattimento dell’avversario; solo dopo averlo abbattuto e reso impotente, si credette di potersi arrestare per intendersi sui reciproci scopi. E così l’elemento della guerra, sbarazzato da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua naturale violenza» (Della guerra, Stato Maggiore R. Esercito, 1942, Libro 8°, pp. 793-94).

13 commenti:

  1. Come rendere giusto omaggio a post siffatti? Mi sembra così poco dire grazie...

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    1. conosci l'indirizzo, manda una bottiglia di vino
      grazie a te che ti prendi la briga di leggere in un'epoca in cui 20 righe sono considerate come una palla da ergastolani

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  2. PER cui si puo'concludere che la 1gm fu combattuta nella m delle trincee,voluta da classi dirigenti di m e condotta da generali di m.
    Nella m morirono milioni di proletari al costo di una cartolina per ognuno.

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    1. Siamo abituati a pensare, dopo un secolo di letteratura, ai proletari in divisa al fronte come pecore al macello, costretti in trincea dalla paura della fucilazione e totalmente rassegnati e passivi quando non silenziosamente contrari alla guerra. In parte era certamente così, ma non sempre e non per tutti.

      Anzi, moltissimi uomini - come mostrano studi recenti - e niente affatto solo tra gli ufficiali, non erano per nulla avversi all'ideologia bellicista che li aveva mandati al fronte e la loro reazione all'esperienza della guerra andava da una sostanziale accettazione ad un vero e proprio entusiasmo. Entusiasmo che a volte si estendeva, è terribile dirlo ma è così, all'atto di uccidere il nemico. Ci sono lettere, diari e testimonianze che non lasciano dubbi in proposito. La guerra è un fenomeno anche psicologicamente complesso che, come si evince anche dai bellissimi post di Olympe, non si lascia ingabbiare in formule semplificatorie, partiti presi e prese di posizione ideologiche (e il pacifismo irenista è un'ideologia, come il bellicismo nazionalista).

      La vicenda dei soldati della Grande Guerra è illuminante anche e soprattutto perché a mio avviso si sposa perfettamente alla citazione del Capitale I, VII, 3 che Olympe ha messo qui a destra sulla pagina del blog. Come il capitalismo, padrone del linguaggio e della comunicazione, forgia le menti degli operai al punto che essi non sono più in grado di intravedere o immaginare come possibile o perfino solo auspicabile una realtà sociale ed economica diversa da quella nella quale vengono fatti vivere, così quei soldati assumevano senza sforzo il nazionalismo guerrafondaio come la loro propria legge naturale, quella "giusta".

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  3. Eccellente, interessantissimo.

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    1. grazie. ho provveduto ora a correggere qualche frase involuta, senza alterare la sostanza.

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  4. Olympe, non a caso per indicare la Pace c’è una sola parola, e DUE, invece, per indicare la Guerra: Guerrafondai e Bellicisti. I primi organizzano le Guerre, i secondi le fanno.
    Dice Plutarco. “I poveri vanno in guerra a combattere e morire per i capricci, le ricchezze, ed il superfluo di altri”.
    Saluti

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    1. "altri" è troppo generico. le cose hanno tutte un nome. ciao

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    2. Olympe, CI SONO I POVERI ED I RICCHI = GLI UNI E GLI ALTRI.
      Ciao, buona serata

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    3. ah, non sapevo di queste sottigliezze
      ciao

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  5. Trovo il suo post come al solito ben documentato e provo anche una punta di invidia per la ricca bibliografia che controlla e padroneggia benissimo. Volevo invece formulare un'osservazione nel merito della controversia su Clausewtiz e sulle sue teorie.
    Clausewtiz teorizzò lo stretto rapporto che incorreva tra la guerra e la politica, nel senso che le scelte politiche dettano le scelte militari, anche se spesso nella cronaca sia giornalistica sia cinematografica sembrerebbe che sia l'inverso e si indulge oggi nel far credere al fatto che la politica si faccia condizionare dai "cattivi" militari. In realtà la scelta politica, fatta in prima persona dai politici, oppure demandata ai militari - come spesso avviene - determina la decisione di che tipo di conflitto, delle sue modalità e del livello di scontro.
    Clausewtiz non teorizzò mai la guerra d'aggressione come strumento principale, anzi esaltò la difesa come forma superiore, e la guerra di popolo come aspetto specifico della guerra. Aveva compreso sia la lezione della guerra di Spagna, persa da Napoleone per la ribellione popolare, sia la guerra in Russia dove alla guerra d'aggressione napoleonica fallì su tutti i piani: come obiettivo politico, militare.
    I generali prussiani, la classe politica tutta, nella prima guerra mondiale esaltarono Clausewitz ma si imbarcarono in una guerra d'aggressione, e qui vorrei fare un'osservazione che le sottopongo, con un obiettivo politico assurdo: trovare l'intesa con l'Inghilterra.
    Non comprendendo che mai la classe dirigente inglese avrebbe acconsentito a una trattativa da pari a pari: la logica imperialista prevede solo la distruzione dell'avversario con ogni mezzo.

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    1. Clausewitz nel suo lavoro analizza in dettaglio i motivi della sconfitta napoleonica in russia
      ancora meglio l'analizza, non dal punto di vista strettamente militare (David G. Chandler su tutti), Kissinger nel suo Diplomazia della restaurazione
      diciamo, per essere brevi, che se il belgio si fosse trovato da un'altra parte della carta geografica, alla GB sarebbe importato nulla della sua neutralità. ciò che gli inglesi non potevano tollerare era di trovarsi i tedeschi padroni dei porti sull'atlantico, oltre al fatto che mai hanno tollerato una qualsiasi egemonia di un paese in europa continentale. comunque kissinger su tutti per la questione. saluti

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