sabato 28 marzo 2015

Se il lavoro non è una merce per quale motivo si vende e si compra? E perché il suo prezzo cala quando c'è troppa offerta?


Mi risulta oscuro (ma non tanto) il motivo adotto dal segretario della Fiom, Maurizio Landini, per affermare che “il lavoro non dove essere ridotto a merce”. Quale favola più bella agli orecchi dei padroni.

Ma che cos’è la merce? È il prodotto del lavoro, anche se non tutti i prodotti del lavoro umano sono merci. Solo in certe condizioni sociali, infatti, un prodotto si trasforma in merce: queste condizioni storicamente determinate sono rappresentate dai rapporti di produzione mercantili, basati sull’esistenza di lavori effettuati indipendentemente l’uno dall’altro e collegati dallo scambio.

Sia chiaro che la forma mercantile di produzione non s’identifica con il modo di produzione capitalistico: ad esempio, all’interno del modo di produzione antico e poi feudale esistevano già rapporti di mercato (produzione mercantile semplice).

È soltanto con il capitalismo che la produzione mercantile si sviluppa a tal punto da diventare la forma produttiva assoluta e dominante. Nella società capitalistica, infatti, si trasforma in merce non solamente il prodotto del lavoro, ma persino, con buona pace del simpatico e combattivo Landini, la stessa forza-lavoro umana. In questo modo, i rapporti di mercato penetrano fin dentro il processo di produzione diventando i rapporti generali e più frequenti della società.

*



Ora, senza voler ripercorrere passo passo tutto il Capitale di Marx, offro solo qualche accenno del quadro di riferimento della teoria del valore-lavoro, consapevole che Marx si starà rigirando nella tomba per questo genere di volgarizzazione. Tuttavia lo faccio con un’attenuante prevalente sull’aggravante: certi suoi sedicenti estimatori “critici” a Marx gli combinano ben di peggio!

Se vendo qualcosa e un altro l’acquista, questo atto come si chiama? Compravendita. L’oggetto di questo scambio è ovvio che deve avere un valore d’uso per l’acquirente, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. Dal punto di vista economico la natura di questi bisogni non ha alcun interesse, potessero essere bisogni sessuali oppure dello stomaco. E non si tratta neppure del come la cosa soddisfi il bisogno umano.

Ogni cosa utile dev'essere considerata da un duplice punto di vista, secondo la qualità e secondo la quantità. Ognuna di tali cose è un complesso di molte qualità e quindi può essere utile da diversi lati. Pensiamo quanti e quali usi si può fare, per esempio, della carta secondo le sue qualità. La carta filigrana ad esempio non è adatta da usare nella stanza più piccola della casa bensì per stampare moneta, anche se la cartamoneta può essere poi usata in modi diversi da quelli per i quali fu originata.

È dunque l’utilità di una cosa a fare di essa un valore d’uso: il valore d’uso della tastiera con la quale sto scrivendo è di per sé evidente. Nell’economia capitalistica il valore d’uso, in quanto tale, è soltanto il mezzo per raggiungere un fine, ossia la produzione di valori di scambio.

Ma che cos’è il valore di scambio? Il valore di scambio (o semplicemente: valore) è, innanzitutto, il rapporto, la proporzione secondo la quale una certa quantità di valori d’uso di una specie viene scambiata con una certa quantità di valori d’uso di specie diversa.

Negli scambi che avvengono quotidianamente sul mercato capitalistico si stabiliscono dei rapporti di equivalenza tra i valori d’uso più diversi e meno comparabili l’uno con l’altro.

E allora che cos’hanno in comune tutte queste cose diverse, e che cos’è che le rende comparabili?

In comune hanno il fatto di essere prodotti del lavoro umano. Attraverso lo scambio dei prodotti, gli uomini stabiliscono dei rapporti di equivalenza tra le diverse specie di lavoro. Quello che le merci hanno in comune non è quindi il loro valore d’uso, bensì il lavoro umano astratto, il lavoro umano in generale, vale a dire il loro valore di scambio.

Ed infatti non basta dire che le merci, al pari dei prodotti di epoche economicamente precedenti e successive a quella capitalistica, sono semplicemente risultati del “lavoro”. Occorre, invece, distinguere il duplice carattere del lavoro rappresentato nelle merci: il carattere di lavoro concreto e di lavoro astratto. Scrive a tale riguardo Marx in una sua lettera:

“[…] a tutti gli economisti senza eccezione è sfuggita la cosa semplice che, essendo la merce un che di duplice, di valore d’uso e di valore di scambio, anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere un carattere duplice […].”

Per forma concreta del lavoro s’intende l’insieme delle qualità che gli conferiscono il carattere di utilità. Il lavoro concreto non produce valori di scambio, bensì oggetti destinati all’uso. Il lavoro del calzolaio, del falegname, ad esempio, in quanto “attività produttiva conforme allo scopo” diretta all’appropriazione di ciò che la natura fornisce è una necessità “naturale”, valida per tutte le formazioni economico-sociali e per tutte le epoche storiche.

Il lavoro astratto, universalmente umano, è quell’alcunché di comune – il dispendio di forza lavoro umana – contenuto nei differenti lavori che producono le varie merci, che crea valore di scambio ed opera nel processo di valorizzazione. Esso fa la sua comparsa soltanto in una formazione sociale storicamente determinata, quella capitalistica.

È soltanto nella sua forma di valore di scambio che l’oggetto diventa merce.

Il lavoro astratto prima di essere una forma di pensiero è una forma della realtà oggettiva, una “astrazione” oggettiva che si compie quotidianamente nella realtà stessa dello scambio.

Come dice la vecchia barba già all’inizio del suo inutile librone, “un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano”. Poco dopo, parlando del carattere feticcio della merce e del suo arcano, scrive: “Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno”.

Il lavoro diventa sociale solo perdendo la sua forma concreta determinata, solo trasformandosi da lavoro concreto in lavoro astratto (*).

Nel capitalismo, ogni padrone (**) produce per il proprio interesse, senza sapere con precisione di quali merci abbia bisogno il mercato ed in quali quantità, né se egli potrà vendere la merce podotta. Tutti i capitalisti, inoltre, conducono una spietata concorrenza sia nella produzione che nella vendita delle loro rispettive merci.

Con tutto questo, la produzione sociale si sviluppa in modo relativamente ordinato tra i diversi settori produttivi. Ciò può avvenire perché la produzione e la circolazione sono soggetti alla regolazione spontanea della legge del valore. Essa ci dice che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla.

Questa legge, che è la legge economica fondamentale del modo di produzione capitalistico, il “cuore della critica dell’economia politica”, rappresenta prima di tutto lo strumento che consente di comprendere il processo di formazione e l’origine del plusvalore, di ricostruire scientificamente il concetto di sfruttamento capitalistico.

Lo sfruttamento, infatti, non è prerogativa del solo modo di produzione capitalistico; e tuttavia solamente nel capitalismo lo sfruttamento assume la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato.

Pur avendo il lavoro salariato come presupposto lo scambio libero tra persone alla pari, il rapporto monetario che s’instaura tra capitalista e operaio cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione, ossia quella quantità di lavoro che l’operaio non impiega per produrre il proprio salario.

Anche parlare di valore del lavoro è però un’espressione irrazionale poiché si tratta di valore della forza-lavoro, il quale deve essere sempre minore della sua produzione di valore, in quanto il capitalista fa funzionare la forza-lavoro sempre per un tempo maggiore di quello necessario alla riproduzione del valore della forza-lavoro. Scrive al riguardo Marx nel cap. 17 de Il Capitale:

«Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso.

Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare».

Pertanto, se neghiamo il fatto che la forza-lavoro sia una merce, neghiamo lo sfruttamento capitalistico dell’operaio.

Ecco perché ai capitalisti, quando Maurizio Landini afferma che il lavoro non è una merce, luccicano gli occhi dalla commozione. Landini è il candidato ideale di quel guazzabuglio di belli spiriti “de sinistra” che non saranno mai né una vera opposizione e tantomeno un’alternativa.



(*) Ci troviamo di fronte a una contraddizione reale, di cui peraltro il pensiero comune non ha chiara consapevolezza: nella società capitalistica l’attività concreta dei produttori non è direttamente lavoro sociale, ma privato; è costituita cioè dal lavoro mediante lo scambio di un produttore individuale di merci, che organizza autonomamente la propria attività economica. E questo lavoro privato può diventare sociale solo in quanto viene equiparato ad ogni altro mediante lo scambio dei prodotti come valori. Sociale è considerato il lavoro in rapporto al lavoro complessivo della società.

In altri termini, nel capitalismo, il lavoro privato non diviene sociale in quanto lavoro concreto, che produce valori d’uso, ma in quanto lavoro astratto. Il lavoro dell’operaio cinese che produce smartphone non diventa sociale perché il telefono è utile per comunicare, ma solo perché quel tipo di merce viene equiparata come valore ad una data somma di denaro, e attraverso il denaro, come equivalente universale, ad ogni altro prodotto.



(**) Si chiama padrone poiché è proprietario dei mezzi di produzione e con il denaro acquista la forza-lavoro dell’operaio che per un certo numero di ore giornaliere è costretto dal suo bisogno a sottoporsi al comando del capitalista.
«I mercanti non possono guadagnare senza mentire, e non c'è nulla di più spregevole della menzogna [...] tutti coloro che vendono la loro fatica e la loro industria, [...] chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende se stesso e si mette a livello degli schiavi» (Cicerone, Dei doveri, I, XLII). «Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).

12 commenti:

  1. Secondo me, Marx non si rigira nella tomba, ma ne esce per stringerti la mano.

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  2. Abbia pazienza ma devo spingermi oltre nella volgarizzazione. Dunque in sociologia si afferma che il mercato del lavoro non è un vero e proprio mercato in quanto la supposta merce non viene alienata completamente dal suo offerente, di qui l'affermazione "il lavoro non è una merce" come ha titolato qualcuno in un suo libro (che non ho letto).

    Il punto è che quest'ultima osservazione solitamente tiene conto proprio del concetto di lavoro astratto a cui facevi cenno. Ora magari dovrei rileggere con più attenzione il suo post, ma la domanda sorge spontanea: siamo di fronte allo stesso fenomeno o trattasi di due visioni completamente inconciliabili? grazie.

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    1. La sociologia, che citi, non ha nulla a che vedere (ma proprio nulla) con le leggi dell’economia. Marx tutto è stato salvo che un sociologo (anche se spesso è comodo presentarlo in tale versione) e nemmeno “un filosofo” dell’economia politica.

      Noi dobbiamo affrontare le questioni dal punto di vista della scienza, non delle chiacchiere di sociologi e sindacalisti, di ruffiani e politicanti.

      Or dunque, la differenza tra lo schiavo antico e l’operaio moderno sta proprio in questo:

      premesso che denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza, occorre dunque che siano trasformati in capitale.

      ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte, e mettersi in contatto, due specie diversissime di possessori di merce:

      1) da una parte i proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta;
      2) dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso, ossia che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza.

      Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la SEPARAZIONE fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro.

      Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati.

      Scrive Marx:

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    2. «Il produttore immediato, l’operaio, ha potuto disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato di essere legato alla gleba e di essere servo di un’altra persona o infeudato ad essa. Per divenire libero venditore di forza-lavoro, che porta la sua merce ovunque essa trovi un mercato, l’operaio ha dovuto inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni, ai loro ordinamenti sugli apprendisti e sui garzoni e all’impaccio delle loro prescrizioni per il lavoro. Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neo affrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco.

      I capitalisti industriali, questi nuovi potentati, hanno dovuto per parte loro non solo soppiantare i maestri artigiani delle corporazioni, ma anche i signori feudali possessori delle fonti di ricchezza. Da questo lato l’ascesa dei capitalisti si presenta come frutto di una lotta vittoriosa tanto contro il potere feudale e contro i suoi rivoltanti privilegi, quanto contro le corporazioni e contro i vincoli posti da queste al libero sviluppo della produzione e al libero sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Tuttavia, i cavalieri dell’industria riuscirono a soppiantare i cavalieri della spada soltanto sfruttando avvenimenti dei quali erano del tutto innocenti. Essi si sono affermati con mezzi altrettanto volgari di quelli usati un tempo dal liberto romano per farsi signore del proprio patrono».

      Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata la servitù del lavoratore.

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  3. Scriveva Erri de Luca in un suo libro: "Ho fatto il mestiere più antico del mondo, ho prestato la mia forza lavoro in cambio di un salario".
    Se le "prostitute" vendono il proprio corpo, l'operaio vende la propria forza-lavoro.
    AG

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  4. In sostanza a tali teorie sociologiche lei riserverebbe la stessa considerazione già manifestata per i temi quali la sostenibilità del capitalismo e simili. Per quanto riguarda la sua esaustiva risposta direi che è in linea con le sue pubblicazioni abituali. Ok grazie, è un piacere leggerla.

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  5. A lei che piace la fotografia, le dedico questa: http://www.ansa.it/webimages/img_1000x563/2015/3/28/af7d24e53b97b732a2d7e6fbf5413d95.jpg

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  6. questo post è un capolavoro. punto.

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    1. anche punto e virgola, via. in abundantia abundantis, come disse l'immortale.

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