lunedì 9 marzo 2015

I teorici del flogisto


Oggi leggo sul New York Times quanto ha scritto il 23 febbario Paul Krugman sul tema della disoccupazione e i suoi larghi dintorni, laddove dice che il collegamento tra scolarizzazione e occupazione è un mantra politico, a valere “più dello studio, specializzazione e bravura, è il potere”. Un po’, apparentemente, quanto ho scribacchiato (si parva licet) quattro giorni fa in un post dal titolo: I signori del merito.

Krugman specifica anche di che potere si tratti: un piccolo gruppo di persone che coprono posizioni strategiche ai vertici delle corporation o che siedono in posti chiave della finanza. E tuttavia, come solito, non parla di classi sociali, ma d’indeterminati gruppi di potere. Poi propone le solite cose, tassare i ricchi per elargire elemosine ai poveri cristi, eccetera.

Spero non sia intesa come spocchia, ma questi economisti quando scrivono di queste cose mi ricordano i teorici del flogisto prima di Lavoisier. Anzi, le loro teorie non reggono il confronto con quelle degli economisti classici (*). Per nostra fortuna il nostro Lavoisier per quanto riguarda la critica dell’economia politica l’abbiamo avuto, anche se viene ignorato o citato a sproposito e di terza mano.



La questione è mal posta da Krugman poiché non parte da un presupposto essenziale, ossia dall’analisi della struttura della composizione di classe. Tale struttura nel modo di produzione capitalistico non è immobile ma in continua mutazione, e ciò va da sé. Quanto invece il premio Nobel per l’economia non rileva è: 1) non tutto il “lavoro” è uguale (**); 2) che il capitale non ha bisogno solo della forza-lavoro necessaria alla produzione, ma anche di forza-lavoro non occupata in modo da tenere i salari più bassi possibile.

La forza-lavoro non occupata, o non occupata stabilmente, ossia precaria, tende ad aumentare con la diminuzione della parte variabile del capitale, cioè con la diminuzione dei salari; per contro il capitale variabile (forza-lavoro) diminuisce relativamente all’aumentare della grandezza del capitale (impianti fissi, macchine, materie prime ed ausiliarie, ecc.). Per quanto paradossale possa apparire è questo un effetto dello sviluppo della forza produttiva del lavoro che comporta il cambiamento della composizione organica del capitale, ossia il rapporto tra capitale costante (mezzi di produzione) e quello variabile (forza-lavoro) (***).

In altri termini è l’aumento della produttività del lavoro a creare disoccupazione, come chiunque empiricamente può constatare. Tale aumento della produttività produce però anche altre conseguenze, affrontate in altri post e qui non è il caso di richiamarle.

Pertanto la popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione del capitale e l'eliminazione degli operai mediante le macchine, i mezzi per render se stessa relativamente eccedente. È questa la legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico, un’altra legge fondamentale scoperta di Marx. Tutte le congetture escogitate dal pensiero borghese in relazione al fenomeno della disoccupazione e al cosiddetto “problema demografico” sono di ordine ideologico (****).

Se si comprende questo, si comincia a veder chiaro anche sul resto. Ma non è il caso dei premi Nobel per il semplice motivo che essi devono difendere l’esistente, né di tutta quella marmaglia che su internet spara raffiche di bischerate su temi che vanno affrontati scientificamente.

(*) I più importanti esponenti del pensiero economico classico sono: William Petty (1623-87), David Hume (1711-76), i Fisiocratici (tra i quali il citato François Quesnay, 1694-1774), Adam Smith (1723-90) e David Ricardo (1772-1823).

(**) Gli economisti borghesi non distinguono la forza-lavoro, in quanto merce, dalla capacità produttiva (lavoro), in quanto forza produttiva. Così facendo, essi tendono a dissimulare lo sfruttamento capitalistico e di negare il carattere storico, transitorio, del modo di produzione fondato sull’asservimento della forza produttiva del lavoro alle esigenze di arricchimento della classe che detiene la proprietà/possesso dei mezzi di produzione.

(***) Osserva a tale proposito Marx: “Con l’aumentare del capitale complessivo cresce, è vero, anche la sua parte costitutiva variabile ossia la forza-lavoro incorporatale, ma cresce in proporzione costantemente decrescente”.

(****) La sovrappopolazione relativa assume tre forme: fluida, stagnante, latente. Per quanto riguarda quella fluida e quella stagnante è intuitivo comprendere di cosa si tratti. Quella fluida è tipica di quei salariati che alternano periodi di occupazione ad altri di disoccupazione; quella stagnante interessa l’enorme massa di lavoro occasionale, precario, a domicilio, impiegata in particolari settori ove occorre stillare profitti o servizi senza vincoli dagli schiavi. Invece per quanto concerne la forma latente della sovrappopolazione relativa, non è possibile individuarne e comprenderne l’enorme sviluppo se non a partire dall’internazionalizzazione del mercato del lavoro (aspetto relativo alla cosiddetta globalizzazione).


Nei paesi di antica industrializzazione tale forma di sovrappopolazione relativa si annida ancora nelle “zone di sottosviluppo” e anche in alcune sacche regionali e razziali. A partire dall’internazionalizzazione del mercato del lavoro su scala planetaria, la parte latente dell’esercito industriale di riserva abbraccia interi continenti: anzitutto la “periferia”, ove masse sterminate di forza-lavoro vengono rese “libere” di morire di fame o costrette a dirigersi – con i mezzi e i rischi che sappiamo – verso i paesi e le zone industrializzate.

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