martedì 3 febbraio 2015

Far finta di nulla e tutto resti com’è


Il 3 febbraio del 1861 si svolse il ballottaggio delle elezioni politiche per la Camera del Regno di Sardegna, sulla base della legge elettorale del 1848. Alcuni giorni dopo quella stessa Camera approvò la legge che doveva formalizzare il cambio di regime: i Savoia al posto dei Borbone e Vittorio e la Rosina inquilini a La Petraia, già dei granduchi di Toscana, in attesa si liberi il Quirinale (*).

Un’espressione geografica: mai definizione s’adattò meglio all’Italia. L’unico paese al mondo che avesse due monarchi nella stessa capitale, due simbologie sovrane, due corpi diplomatici, due giurisprudenze, due altari, due grandi proprietari immobiliari. Logico che prevalesse la politica religiosa, l’argomentazione biblica, e, ieri come oggi, la lingua del breviario: mattarellum, porcellum, italicum.



Un mutamento che interessò più l’araldica che l’ordine sociale vigente. Nelle campagne si continuò a far la fame, la pellagra, un tetto in paglia, il pavimento in terra e fogli di carta oleata al posto dei vetri alle finestre. Nelle città come Palermo o Milano ci penseranno le truppe di Raffaele Cadorna e di Fiorenzo Bava Beccaris a ristabilire quell’ordine sociale che resterà intonso ben dentro il XX secolo.

Dopo la grande mattanza 1915-‘18, fu inevitabile che malcontento e disperazione fossero usati per fomentare la rivolta. E anche in tal caso la provvidenza venne in soccorso dei relitti del tenace ordine sociale. Fu solo nel secondo dopoguerra che le classi dirigenti italiane si adeguarono, di malavoglia, a un mondo che cambiava sotto la spinta del travolgente secolo americano.

Dopo secoli di un mondo saturo di precarietà e disperazione, cominciò a prendere piede un mondo dove quei problemi potevano essere risolti, una società di azionisti e proletari soddisfatti ognuno del proprio benessere e delle proprie speranze. In tal modo prese sempre più credito l’idea che anche l’ordine sociale fosse mutato e le antiche divisioni di classe stessero scomparendo nel vortice delle magnifiche sorti e progressive.

Veniamo all'oggi. Senza ripeterne i motivi e le cause dobbiamo prendere atto che è sopraggiunta la delusione per un mondo che non può fermarsi e che però non è guidato, lasciato com’è all’arbitrio del mercato. Alla luminosa idea del comune miglioramento s’è sostituita l’opinione meschina, prevale il piccolo calcolo, la mera necessità della sopravvivenza.

È questa un’epoca che annega nella sua stessa passività, ed è passiva anzitutto per aver accettato l’idea mediocre della propria impotenza, laddove non solo ogni trasformazione radicale pare inconcepibile, ma addirittura impossibili delle rivendicazioni minime. Un atteggiamento omogeneo e trasversale, sia in coloro ancora garantiti da un reddito sufficiente e sia in quelli ridotti alla canna del gas.

(*) Vittorio ebbe poi il buon senso di usare il Quirinale quasi solo per le cerimonie ufficiali, risiedendo d’ordinario nella sua villa privata in Roma. Una residenza non sontuosa, in cui egli abitava piacevolmente perché in tal modo, diceva, poteva mettere un chiodo dove gli pareva e i suoi figlioli potevano ancora con la loro irrequietezza fare dei piccoli guasti senza danneggiare il patrimonio artistico e culturale dello Stato. Vittorio era a ben vedere più alla mano di certi monarchi attuali.


1 commento:

  1. Triste ma veritiera "prospettiva d'istraforo", come dicevano gli antichi, della storia patria.

    E, sì, Vittorio era comunque meglio di certi suoi epigoni "democratici".

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