mercoledì 26 novembre 2014

Il fallimento della strategia americana


Il fallimento americano si può misurare da numerosi fatti, ma da due in particolare: la situazione in Medio Oriente e il caos sociale interno. Ciò che sta accadendo a Ferguson e in altre città è solo la punta dell’iceberg. Questa è la tendenza di fondo, e però si tratta di considerare ciò che avviene nella pluralità dei suoi aspetti (per esempio, assume grande rilievo la lotta interna tra le diverse fazioni della classe dominante) e non come una determinante univoca. L’esempio dell’impero romano e quello molto più recente dell’impero britannico vanno tenuti a mente, pur senza spingere troppo sulle analogie.




Sul piano della politica estera, dopo Reagan, gli Usa sono passati da un errore strategico all’altro. Almeno da ciò che si può leggere e fatto conoscere, si desume che non c’è un solo elemento di rango dell’amministrazione americana che dimostri in qualche modo uno spessore concettuale adeguato (non oso dire in possesso di una visione dialettica delle cose). L’idea generale che ci si può fare è quella anzitutto della mancanza di una chiara strategia globale e di analisi delle tendenze di lungo termine, come del resto vanno mettendo in luce, sia pure con argomentazioni contraddittorie, anche certi analisti americani.

Spicca, per andare sul dettaglio, la sostanziale ignoranza delle situazioni locali e degli avversari che si hanno di fronte, credendo per esempio da un lato che sia possibile usare strumentalmente i movimenti jihadisti senza pagarne lo scotto, e dall’altro di poter vincere quel tipo di guerra con i droni e in assenza di cospicue forze sul terreno, lasciando per esempio in Irak il generale Petraeus a negoziare tra governo sciita e capi sunniti senza una consistente presenza di forze nel territorio, incuranti peraltro della distruzione del tessuto sociale ed economico del paese.

Ed è in questo pericoloso crinale della storia che si può cogliere appieno l’errore di fondo della strategia americana, non volendo prendere atto che il ruolo dettato dalla dottrina Eisenhower (1957), cioè quello che proclama la dimensione globale degli “interessi vitali” degli Usa, risulta insostenibile e intrattabile da una sola potenza sia sul piano di quella che viene definita multipolarità e sia su quello delle risorse necessarie (*).


C’è da chiedersi se gli Usa si rendano conto del mutamento delle forze nella bilancia globale, e se si rendano pienamente conto che le nuove e gravi instabilità che la loro strategia fomenta e non riesce a controllare, possono portare in un tempo non troppo lontano e in una situazione d’escalation incontrollabile, a un conflitto generalizzato nel quale nessuno è autorizzato a priori di pensare che sarebbero mantenuti validi i termini della deterrenza nucleare (vedi qui, per esempio). Credo che questa consapevolezza, se c’è, sia molto labile e soprattutto posta in ombra dagli interessi monopolistici in gioco. E ciò è un grosso guaio per tutti.


(*) A dicembre verrà consegnato alla flotta russa il terzo degli otto esemplari di sottomarino nucleare lanciamissili (i Bulava) di quarta generazione della Classe Borej, si chiamerà Vladimir Monomakh (i primi due si chiamano K-535 Yury Dolgoruky e K-550 Alexander Nevsky). I sottomarini del Project 955 Borej, vanno a sostituire gli 667BDRM (Classe Murena) e i 941 (Classe Akula), costruiti in epoca sovietica. Questi primi tre esemplari sono dotati di 16 tubi di lancio, il prossimo esemplare, Knyaz Vladimir, pare sarà dotato di venti tubi di lancio per i Bulova. Sono già in costruzione gli esemplari che porteranno il nome di Oleg Knuaze e Knyaz Suvorov. I sottomarini della classe Borej sono in grado di lanciare i propri missili mentre sono in movimento e da sotto i ghiacci.

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