martedì 16 settembre 2014

La causa fondamentale della crisi spiegata da mio nipote alla Merkel


Pare – e non sembra sia scherzo – che ora anche la Cia e altri servizi d’intelligence siano stati incaricati di scoprire quali siano le cause della crisi economica. Eh sì, perché prima davano la colpa alla bolla immobiliare, quindi alla speculazione finanziaria, che ad ogni buon conto c’entrano con gli effetti della crisi, ma ora, con il perdurare di essa, senza una prospettiva sulla sua fine, ci s’interroga, come fa la Merkel, se siano sbagliate le teorie o se ci si sia rivolti alla persone sbagliate. Da parte mia ho già risposto a tale interrogativo: entrambe le cose.

Ma dobbiamo credere veramente che questa gente che sta sui gradini altissimi della scala sociale non sappia qual è la causa fondamentale della crisi capitalistica, almeno vagamente? Certo che lo sanno bene, ma gli conviene parlare d’altro. E dunque, per svelare l’arcano in termini che anche mio nipote che fa le medie possa comprendere, vedo di rendere la faccenda assai semplice e pur tuttavia con il rischio, sempre minaccioso, di volgarizzare un po’ troppo. Rischio che però correrò volentieri a favore della progenie.



Ieri commentavo il libro di quel furbacchione di Thomas Piketty, il quale propone una migliore distribuzione della ricchezza, con patrimoniali fino all’80 per cento. Ciò risolverebbe il problema della crisi capitalistica? No, ma potrebbe, sul breve periodo, alleviarla. Un po’ come i famosi 80 euro che (non nelle intenzioni, ché quelle erano solo elettorali) si propongono di aumentare i consumi interni e con ciò la produzione.

E dunque da questi due semplici fatti descritti si capisce già che lor  signori sanno bene ciò che sanno tutti: se non aumentano i consumi, non aumenta la produzione, se ristagnano gli uni è in crisi l’altra, con tutti gli effetti collaterali del caso, quali la disoccupazione per esempio. E dunque per quale motivo i consumi sono in calo? Anche a questa domanda c’è risposta negli esempi di cui sopra: chi potrebbe e vorrebbe spendere non ha soldi per farlo. Poi c’è un altro motivo, che ho già descritto in un post precedente e del quale accennerò dopo.

E per quale motivo chi potrebbe e vorrebbe spendere non ha soldi per farlo? La risposta anche in questo caso è facile: perché la ricchezza non è distribuita in modo più equo. Questa però è una risposta che coglie il fenomeno, ma non la causa. La causa, anche in questo caso, viene sottaciuta. Per quale motivo è sottaciuta? Per non gridare: il Re è nudo.

*
L’operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale appartiene il tempo dell’operaio (*). Il prodotto del lavoro è proprietà del capitalista e non dell’operaio. Dunque, il capitalista paga regolarmente all’operaio il valore giornaliero della forza-lavoro e con ciò si appropria del suo valore d’uso; quindi, usa la forza-lavoro per mettere in funzione i suoi mezzi di produzione e per ricavare un prodotto che gli appartiene interamente. Riassumendo: la parte di valore prodotta dall’operaio, oltre il tempo necessario a riprodurre il proprio salario, resta in mano al capitalista.

Il risultato della produzione, cioè del lavoro umano conforme allo scopo, è il prodotto, che nelle condizioni capitalistiche della produzione ha un duplice carattere. Innanzitutto è una merce. Che cos’è una merce? Un valore d’uso, quale può essere un computer, un libro, una penna, una certa quantità di pane oppure un’automobile, insomma un oggetto d’uso in cui si è oggettivato lavoro umano; ma in quanto merce ha una valore di scambio. In secondo luogo, questa merce ha un valore maggiore della somma dei valori delle merci (mezzi di produzione (capitale costante) e forza- lavoro (capitale variabile, salario) che sono occorse per produrla e per le quali il capitalista ha anticipato sul mercato il suo denaro.

Dal processo di produzione della merce il processo del lavoro è semplice mezzo del processo di formazione del valore. Non tutti gli elementi che entrano nel processo produttivo però creano valore, nel senso che il capitale costante è la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro (macchine, ecc.), e che non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Il capitale variabile, invece, è la parte del capitale (salari) convertita in forza-lavoro che cambia il proprio valore nel processo di produzione e che riproduce il proprio equivalente e inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore.

Questi due fattori partecipano in modo diverso alla formazione del valore del prodotto e, pur essendo entrambi necessari, solo uno è fonte di valore.

Il valore del capitale costante si conserva mediante il suo trasmettersi al prodotto e cioè riappare soltanto nel valore dei prodotti senza aggiungervi alcunché. Ciò che trasmette al prodotto è ciò che perde nel processo lavorativo attraverso la distruzione del proprio valore d’uso. In altri termini, il valore di un tornio, per esempio, trasferisce in quota per unità di prodotto il proprio valore, perciò si parla di “armonizzazione” del valore delle macchine.

Il valore del capitale variabile, mentre dal lato del suo specifico carattere utile, col suo semplice contatto – dice Marx –, “risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo”, in quanto forza-lavoro astratta, tempo di lavoro protratto oltre il punto della riproduzione del suo valore (salario), crea un valore eccedente.

“Questo plusvalore – scrive Marx – costituisce l’eccedenza del valore del prodotto sul valore dei fattori del prodotto consumati [nel processo produttivo], cioè dei mezzi di produzione e della forza lavoro”.

Dall’estorsione del lavoro non pagato, cioè del plusvalore, ha origine la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. In definitiva, per farla breve, da questa disuguaglianza ha origine la crisi, poiché dalla massa dei valori prodotti in eccedenza (valore non corrisposta all’operaio), solo una parte viene consumata dalla classe dei capitalisti e, per mezzo delle tasse, dalle altre classi. Dunque, la ricchezza che viene accumulandosi, man mano assume proporzioni tali che dà luogo alle crisi che appaiono nel fenomeno della sovrapproduzione. Ora anche mio nipote sa che la sovrapproduzione (o il “sottoconsumo”, quale rovescio della medaglia) è solo un fenomeno della crisi, non la sua fondamentale causa.

Ecco dunque perché gli economisti di “sinistra”, ossia quelli che vorrebbero riformare in un senso più equo il capitalismo, chiedono una distribuzione diversa di quel plusvalore, in altri termini chiedono una più “equa” redistribuzione dei profitti tra padroni e proletari. Va da sé che i padroni non ci stanno, perché ritengono che la ricchezza prodotta socialmente appartenga loro per diritto divino. E del resto, qui verrebbe in ballo la questione del plusvalore relativo, quindi poi la legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto e altre cosette del genere che a mio nipote per il momento non interessano. Ma per l’essenziale mi pare sia stato detto a sufficienza.

C’è un altro aspetto della crisi, dal lato dei fenomeni e non delle cause, di cui bisogna tener conto, è cioè che la produzione capitalistica non procede secondo un piano, bensì a bischero sciolto, e ciò non può avere che effetti discorsivi dal lato anche della domanda e dell’impiego delle risorse. Ecco, per esempio, che vi sono milioni di automobili invendute, ma mancano aule scolastiche, oppure le proteine necessarie ai bambini.

E noi, dopo quanto detto, possiamo credere che lor signori non sappiano, pur in altri termini e secondo la loro confusa terminologia, le cause della crisi capitalistica, cioè quanto è noto a mio nipote? Intanto ci fanno credere che bisogna tagliare i servizi pubblici e l’assistenza per trasferire risorse a favore degli investimenti. “Ma se –osserva sbalordito mio nipote – mi hai detto che di merce ce n’è anche troppa, che investiamo a fare?”. La risposta è facile: per produrre altro plusvalore, ricchezza da offrire in olocausto agli dèi di questa benemerita e democratica società.

(*) Un tempo lo schiavo apparteneva al suo padrone. Oggi siamo tutti liberali, la cosa si è fatta più sfumata: al padrone appartiene direttamente una certa quantità del tempo di vita dello schiavo. Il resto del tempo gli appartiene indirettamente.


4 commenti:

  1. Avercene di nonne/zie così! :)

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    1. queste cose possono giusto incuriosire i nipotini, ma alla gente non gliene fotte nulla. hanno in mente l'ultimo aifon e altre cazzate

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    2. E tuttavia, i pochi nipotini curiosi e attenti meritano un’insegnante come Lei.
      Ne beneficiano e beneficeranno in concreto: posso testimoniare, dopo quattro anni di assidua frequenza.

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    3. meriti senz'altro un attestato di benemerenza

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