mercoledì 30 aprile 2014

Dalle alpi alle piramidi, passando per Firenze


La Montagna incantata è un romanzo triste, cupo, eppure un capolavoro (di “ampiezza umoristica”) forse superiore a I Buddenbrook, eccezione fatta per l’XI capitolo, partendo dal quale poi lo scrittore sviluppò la trama della saga della decadente famiglia anseatica. La vicenda narrata in Der Zauberberg è nota, rammento qui solo il nome del protagonista, lo sfortunato Hans Castrop, e la location (come si dice oggi), ossia un sanatorio per tisici posto sulle Alpi svizzere, dove il tempo e le cose si dissolvono nella magia, precisamente in quel di Davos dove nei nostri anni si riunisce il gotha della plutocrazia.



Erano numerosi in quell’epoca i sanatori in alta montagna, per chi se li poteva permettere, ovviamente, secondo le prescrizioni mediche: per la cura della tisi era necessaria aria pura e riposo assoluto. Questo isolamento diventava più una profilassi per i sani che una cura per gli infetti. La tubercolosi era la seconda causa di morte dopo polmonite e influenze, e prima dei sulfamidici e degli antibiotici essa rappresentava un flagello sociale e umano, anche se è vero, come dimostrano le statistiche, che l’elevarsi del livello di vita e i progressi avvenuti nel campo dell’igiene e dell’alimentazione hanno contribuito non poco alla sua “scomparsa”.

Tra virgolette perché tale malattia infettiva è tutt’altro che eradicata se si pensa a certi dati che indicano come un terzo della popolazione mondiale sia stato esposto al patogeno della TBC (il 90% dei casi sono asintomatici) e i decessi annuali sono ben superiori al milione (circa quelli per HIV, di cui però si scrive molto di più), soprattutto nei paesi più poveri come l’India, paese che insieme all’Iran e all’Italia detiene, così leggo, un altro primato, ossia quello di casi di tubercolosi totalmente resistente ai farmaci.

Il trattamento della tisi nella fase conclamata non è facile, come invece si potrebbe pensare. C’è, tra gli altri, un vecchio rimedio chemioterapico, l’isoniazide, dieci volte più efficace della streptomicina e di altri prodotti, che oltre alle sue qualità di agente antitubercolare possiede anche delle proprietà psicostimolanti e antidepressive, tanto che i primi malati sottoposti al trattamento, nel 1952, presso il Sea View Hospital di Staten Island a New York, danzavano nelle sale tra lo stupore di giornalisti e fotografi.

«La vittoria sulle grandi endemie – scriveva Daniel Bovet – rappresenta per gli uomini di laboratorio e per i medici un valido titolo di fierezza e un giusto motivo di orgoglio». Perciò, soggiungo, quei medici (stimati in circa 4.000 in Italia, ma numerosissimi anche altrove) che prescrivono prodotti omeopatici per la cura delle malattie, andrebbero radiati e mandati a zappare, poiché o sono in completa malafede e/o sono aderenti, disconoscendo i fondamenti basilari della terapeutica, a una cultura dell’irrazionale e dell’ignoranza.

Per quanto la penicillina e i farmaci derivati rappresentino una vera e propria rivoluzione nel campo del trattamento terapeutico delle infezioni, di per sé sono inefficaci nei riguardi della Tbc, trovano invece efficacia i sulfamidici in associazione con le rifamicine.

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Per oltre 100 secoli la vita media degli esseri umani è stata molto bassa, le condizioni di vita loro erano spesso durissime, come dimostrano i reperti archeologici. Anche nelle classi alte, pur privilegiate, le malattie di ogni tipo erano diffuse (compresa la tubercolosi) e la sopravvivenza molto bassa. Alcuni mesi fa ho letto un pregevole lavoro di Donatella Lippi, Illacrimate sepolture, uno studio compiuto sui resti riesumati delle salme dei Medici di Firenze (si può scaricare dalla rete); ebbene, è davvero sorprendente leggere di quante e tali patologie gravi soffrissero quelle persone pur appartenendo al più alto rango sociale. E leggere dei rimedi di cura applicati fa molto pensare.

In Europa, ancora nel XVII secolo, la mortalità era rimasta quella della preistoria e dell’antico Egitto: la metà soltanto dei nati perveniva ai 14 anni, un quinto appena raggiungeva i 40 anni (ho letto, in una sala d'attesa ambulatoriale, un fascicolo con le prescrizioni ginecologiche tratte dagli antichi papiri: roba da non credere). Su mille neonati quasi un terzo non sopravvivevano. Si aggiunga poi lo stato di guerra quasi permanente (vedi la guerra dei Trent’anni, per esempio).

È solo a cominciare dalla fine del ‘700 che in Francia si registra un mutamento dell’evoluzione demografica. Bisogna leggere le pagine del Taine per comprendere cosa fosse la vita dei contadini francesi fino al 1789, laddove l’età media era di circa 28 anni! Solo alla fine dell’Impero essa sfreccia a 37, con evidente miglioramento della sopravvivenza neonatale che passa da 210 a 290 maschi per mille e da 180 a 250 per le femmine. E da quel momento non tornerà più indietro. Per strano che possa sembrare, né il Terrore durante la Convenzione né le guerre napoleoniche hanno minimamente inciso sulle curve demografiche.

Tutto ciò è stato reso possibile da una combinazione di fattori, ossia dallo sviluppo economico e scientifico e dal mutato clima sociale, dalle nuove concezioni dell’igiene e dell’etica, nonché ovviamente dai progressi medici.


Di penicillina e delle trame della CIA avrei dovuto cazzeggiare in questo post. Pazienza, sarà per un’altra volta.

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