sabato 22 marzo 2014

Liberté, egalité, dané!


Questo è il terzo post sulla crisi francese che portò alla rivoluzione del 1789 (gli altri due sono qui e qui). Ho accennato alla contraddizione insolubile tra l’assolutismo regio e l’ostinato particolarismo aristocratico, la dissipazione da parte di un’élite di privilegiati della ricchezza prodotta, della fiscalità incoerente e assurda, le continue guerre e il fallimento di qualsiasi tentativo di riforma, già con Turgot, il rifiuto dei nobili di corte e dell’alto clero all’uguaglianza fiscale per scongiurare il default, la loro decisione di mettere in mora la monarchia con le rivolte del 1787-’88, costringendola poi a convocare gli Stati generali con l’intenzione dichiarata di stabilire sulle rovine dell’assolutismo il proprio potere politico e di conservare i propri privilegi.

Non era più il 1614, la società stava cambiando e con essa i rapporti di forza tra le classi, la dinamica di sviluppo – è il tema di questo post – entrava in contraddizione con i vecchi rapporti di produzione, subentrava un’epoca di rivoluzione sociale.

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Nel XVIII secolo le manifatture più importanti di Francia producevano prodotti destinati anzitutto ai consumi di lusso, quali stoffe di seta, velluti, merletti, tappeti, porcellane, cipria, carta (all’epoca ancora un articolo costoso), armi. Queste imprese trovavano i loro migliori clienti negli ambienti della nobiltà di corte e in genere nelle persone con buona disponibilità economica. Una parte non minoritaria della borghesia aveva tutto l’interesse a mantenere in piedi lo Stato dei privilegi aristocratici, ma d’altra parte si facevano sempre più urgenti altre necessità.

L’industria era ancora poco sviluppata poiché il contadino si fabbricava da sé quei pochi prodotti di cui aveva bisogno, e tuttavia dagli anni Sessanta cominciò quella rivoluzione tecnica che doveva sostituire la manifattura con la fabbrica e creare la grande industria moderna.

Il movimento, come solito, era frammentario e contraddittorio. Se la borghesia capitalistica rivendicava la libertà economica, le classi popolari – attaccate all’antico sistema di regolamentazione e di tassazione – manifestavano una mentalità anticapitalista [*]. L’artigianato delle corporazioni vessava e ostacolava in ogni modo la concorrenza dell’industria, tanto che la stessa monarchia dovette prendere l’industria sotto la sua protezione essendo essa una delle maggiori fonti di ricchezza del paese. Concesse perciò lettere di privilegio che annullavano la validità degli impedimenti burocratici d’ordine corporativo e feudale, e lo stillicidio d’imposte. Una manifattura che avesse ottenuto tale privilegio poteva fregiarsi del titolo di “manifattura reale”. Sono questi dei lenitivi che non avevano nulla di strutturale.

Norme e regolamenti, tasse di ogni genere, divennero intollerabili per l’industria, una catena molto fastidiosa di adempimenti che impediva spesso i migliori metodi di lavoro. Se il capitale industriale francese voleva competere con quello inglese, doveva liberarsi dei vincoli feudali che ostacolavano lo sviluppo della produzione e del commercio, non poteva accontentarsi di qualche concessione, aveva bisogno di una rivoluzione.

Perché il commercio ricevesse un forte impulso, dovevano cadere i privilegi dei nobili, l’esercito e la flotta dovevano essere riformati, il particolarismo delle province spezzato e i dazi eliminati; in sintesi il liberalismo economico richiedeva “libertà e uguaglianza” nei fatti, e per la “fraternità” sarebbe bastava la parola.

Per compiere la sua rivoluzione, la borghesia sfruttò il malcontento popolare, il declino economico delle manifatture e dell’agricoltura culminato con il disastroso raccolto del 1788. La questione del pane e degli altri generi di prima necessità ebbe non poca influenza sulla rivoluzione, sul “diritto all’esistenza” che sarà poi proclamato dai sanculotti di Parigi.

Gli impedimenti al commercio dei cereali tra le diverse province, soprattutto il divieto di esportare cereali da una provincia all’altra senza un particolare permesso che non era facile ottenere, ostacolavano il trasferimento dalle regioni con buoni raccolti in quelle in cui il raccolto di cereali era stato sfavorevole. Nella Francia pre-rivoluzionaria tali ostacoli divennero potenti leve della speculazione sui cereali che spesso assunse dimensioni enormi e fu uno dei mezzi più efficaci per sfruttare il popolo (a ciò partecipavano anche certe associazioni di commercianti, dunque di borghesi).

Alla testa di questi speculatori c’era tra gli altri il monarca che faceva dello strozzinaggio sul grano una delle sue migliori fonti di entrata. Già ai suoi tempi, Luigi XV era il principale azionista della società di acquisto all’ingrosso Malisset. A tenere i registri della sua corte si trova un tesoriere personale per le “speculazioni sui cereali di Sua Maestà”. Ai nostri tempi, invece, la speculazione sui cereali vede coinvolte le multinazionali, le quali invece di speculare grazie ai dazi come nell’ancien régime, sfruttando al contrario l’assenza di ogni barriera doganale possono imporre il proprio prezzo di monopolio a tutto il pianeta.

Che alla borghesia interessasse anzitutto la libertà economica per l’industria e i commerci, se ne ebbe prova cogente quando vennero successivamente formalizzate le decisioni prese dall’Assemblea costituente nella notte del 4 agosto 1789 [**]. Si era detto che “L’Assemblea nazionale abolisce del tutto il regime feudale”; tale principio si era poi ridotto, nei decreti definitivi, all’abolizione dei diritti che gravavano sulle persone (nuova forza-lavoro libera!), ma quelli che gravavano sulle terre furono semplicemente dichiarati riscattabili. Il contadino era così liberato, ma non la sua terra! Può ben dire Albert Soboul che il sistema feudale,“abolito in teoria, rimaneva nei suoi elementi essenziali”.

[*]  Cfr. Albert Soboul, La rivoluzione francese, cap. III.

[**] Il clero tentò persino di rimettere in discussione l’abolizione della riscossione della decima (per molti parroci la decima era la loro stessa vita). Un suo rappresentante sostenne persino che la soppressione delle decime sarebbe stata fatale ai poveri perché asciugherebbe le principali fonti della carità sacerdotale! Il 6 agosto il deputato Buzot pronunciò queste solenni parole: “La proprietà della chiesa appartengono alla nazione”. L'8 agosto, il marchese de Lacoste propose formalmente l'abolizione assoluta delle decime (cfr. Luis Blanc, Histoire de la Révolution, Bruxelles, 1852, III, pp. 11 e 12).

[continua ??]


1 commento:

  1. Certo che continua! :)
    Le analogie col presente sono infinite: controllo dei flussi migratori, delle materie prime, dei beni di prima necessità, perché eterne (???) sono le leggi che governano la formazione e l'accumulazione del capitale.

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