lunedì 13 gennaio 2014

L'etica di che?



È etico lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Eppure ciò avviene da migliaia di anni, a ogni ora del giorno, sotto i nostri occhi, nelle forme più varie, distillando sudore, sofferenza, ingiustizia, alienazione. Spesso l’oggetto di sfruttamento siano noi stessi (ovvio che non mi riferisco qui al lavoro sociale come mero scambio di prestazioni necessarie e utili). Molte delle forme in cui avviene oggi tale sfruttamento non solo sono considerate assolutamente pacifiche e legali, ma non sono percepite comunemente come contrarie all’etica.

Siamo pronti a ripudiare la condizione nella quale era considerato e tenuto l’antico schiavo, poiché egli non era “libero” e la sua esistenza totalmente dipendente da un padrone. Per contro, il salariato moderno non è forse un uomo libero, cittadino con pieni diritti davanti alla legge uguale per tutti? Ed è proprio tale uguaglianza a nascondere la più grande mistificazione della società borghese.



L’attuale condizione di operai e salariati è considerata assolutamente legale ed eticamente come la più elevata possibile, tanto che non solo le correnti più reazionarie e conservatrici della società, ma anche molti tromboni sedicenti progressisti, stigmatizzano le “troppe” tutele di cui godrebbero i lavoratori,  le quali non garantirebbero ai padroni di disporre come meglio vorrebbero dei loro liberi salariati, o altrimenti di licenziarli a capriccio.

La realtà è assai diversa. Costretto a vendere la propria forza-lavoro, il salariato è posto, come libero proprietario di se stesso, nella determinazione della proprietà privata, e, sotto l’apparenza di un riconoscimento della sua libertà è messa in atto la sua negazione, in modo che l’uomo nell’essenza della proprietà privata viene privato della sua essenza.

Basta scorrere un qualsiasi manuale di economia politica per accorgersi che il lavoro è considerato esclusivamente come fonte di guadagno e l’operaio soltanto un fattore produttivo, soma da lavoro, bestia ridotta ai più elementari bisogni vitali, servo del proprio corpo, la cui riproduzione è garanzia per il capitale da un lato di avere acquirenti per le proprie merci e dall’altro di trovare sempre sul mercato la manodopera necessaria alla produzione di plusvalore.

Tra l’antica condizione e quella moderna, pur con tutti i distinguo del caso, non trovo sostanziali differenze, se non in peggio considerate le enormi potenzialità odierne e i progressi inediti nell’organizzazione del lavoro.


*

E a proposito di etica, osservo che anche il cristianesimo delle origini non era contrario alla schiavitù, ed infatti in molti luoghi dei vangeli si parla di servi utili e inutili, di servi fedeli e infedeli, non solo in senso lato (**). Con i sinodi, i concili e la patristica, poi, si può scegliere fior da fiore.

Il cristianesimo ad ogni modo accompagna un cambiamento di mentalità, del modo in cui è visto lo schiavo, indotto dalle trasformazioni in atto nell’impero romano. Si pensi solo all’estensione della cittadinanza romana con Caracalla, o la lex Petronia de servis, di Augusto e Tiberio, la quale interviene ben prima della diffusione del cristianesimo e limita il diritto di vita dei padroni sugli schiavi, e proibisce di usarli nei combattimenti mortali con animali, se non come pena comminatagli da un giudice.

Già agli inizi del primo secolo si fa obbligo di seguire nei giudizi uguali procedimenti per i liberi e per gli schiavi; sotto Claudio, dunque oltre tre secoli prima che il cristianesimo diventi religione ufficiale (la stessa distanza temporale tra noi e Luigi XIV), l’uccisione di schiavi ammalati o storpi è considerata come assassinio; sotto Domiziano e Adriano è proibita la castrazione degli schiavi senza il loro consenso (uso barbaro che si protrarrà invece fino a tempi recenti per i cantori delle voci bianche per le corti e per la Cappella Sistina).  Sotto Adriano stesso è proibita la vendita di uno schiavo per farne un gladiatore, o di una schiava ad una mezzana se già non è una prostituta (negli Stati Uniti d’America, così costituzionalmente civili, ciò era invece permesso fino a 150 anni or sono: non c’è etica cattolica o protestante che tenga e lo spirito del capitalismo è tutt’altro che democratico). La tortura, si badi bene, era ammessa solo in pochi e circoscritti casi, contrariamente a quanto poi avvenne nel mistico medioevo e anche molto dopo.

Questo lento processo di trasformazione degli istituti dell’antica schiavitù ha poco a che vedere, nelle sue ragioni profonde, con l’etica e la morale, tantomeno con quella cristiana, la quale è altresì un prodotto della condizioni sociali del tempo. C’è da osservare, al riguardo e quale esempio concreto delle ragioni di tale mutamento, l’essiccarsi delle fonti schiaviste con la diminuzione dei territori e delle guerre di conquista; la frequenza delle manomissioni e quindi l’aumento massivo dei liberti che vanno ad occupare posizioni di primo piano lasciate vacanti dalla denatalità o dal disinteresse delle classi alte.

Inoltre, la rovina verso cui correva l’economia generale minata alla base dalle condizioni disastrose del latifondo, obbligava di porre un qualche rimedio col sostituire al lavoro servile quello dei manomessi, i quali mentre cedevano ai padroni il proprio peculio in cambio della libertà ricevuta, assicuravano un lavoro più produttivo pur sempre sulle terre degli antichi signori, insieme con gli obsequia che rappresentavano un guadagno libero da ogni spesa, da cui trae origine la servitù della gleba formalizzata già sotto Diocleziano.

Poi le grandi beneficenze pubbliche di alcuni schiavi imperiali; il superiore grado di cultura di non pochi schiavi (græci capti feros victores ceperunt), come maestri, amministratori, medici, ecc.. Non ultimo – contrariamente alla nostra civilissima società moderna – il carattere non esclusivo della cittadinanza romana che non faceva discriminazioni per ragioni di razza e nazionalità, per cui venivano accolti anche gli schiavi manomessi.

Pertanto le disposizioni umanitarie che s’incontreranno – laddove esse si rintraccino – nella legislazione degli imperatori cristiani, saranno ispirate allo spirito mite dei giureconsulti precedenti e soprattutto suggerite dall’interesse stesso dello Stato e della nuova classe dirigente cristiana. Del resto è fuori luogo ritenere che il principio della piena uguaglianza ideologica e astratta tra padrone e servo sia semplicemente un portato autonomo della nuova religione di Stato e non invece segno di un terreno sociale già favorevole e maturo di ciò. Piuttosto osservo che in tal senso la Chiesa stessa non sempre seppe nei secoli successivi mantenersi all’altezza dell’insegnamento antico.

Chi è in attesa di un’altra vita, beata ed eterna, poco deve curarsi se in questa breve esistenza è sottoposto a schiavitù, con la fine di questo mondo infame passerà anche la schiavitù. Quando poi il loro promesso regno parusiaco si allontanò sempre più dall’orizzonte delle ingenue speranze, allora il problema della schiavitù ebbe subito una soluzione radicale, ossia la Chiesa sancì che l’uguaglianza universale di tutti i cristiani battezzati doveva intendersi solo davanti a Dio (***), poiché padrone e servo erano fratelli e partecipi allo stesso modo della salvezza divina. L’obbedienza, la rassegnazione, l’umiltà e la pazienza furono inculcate come le virtù più miti, per chi non poteva altrimenti; gli altri, i padroni, potevano in tal modo continuare a far valere la legge del più forte (non già quella assurda dell’amore), sancita dal diritto o imposta con arbitrio, e, nel caso, secondo le sacre scritture (****).

In tal modo il problema, pur presente e reale, sembrava non porsi più, in quanto le catene erano formalmente scomparse e il clima di mutuo e mistico amore doveva prevalere visto che non si doveva annettere più alcun interesse per le cose terrene, e quelli che noi oggi chiamiamo diritti umani venivano lasciati alla discrezione dei sentimenti personali del padrone. In tal modo la Chiesa venne progressivamente a sostituirsi all’autorità romana per diventare gelosa custode della legislazione schiavista, la quale, nelle sue forme più crude e antiche, non scomparve di certo nel medioevo (*****).

Particolarmente sintomatico del clima di quella nuova epoca, fu il fatto che padroni e servi potevano assistere alla stessa messa e ricevere l’eucaristia, ma per quanto riguarda il resto, compresa la sepoltura dei corpi, le differenze essenziali restavano intatte. E così il pensiero ozioso ecclesiologico non ebbe troppa difficoltà a trovare un compromesso utile agli interessi delle classi dominanti, stabilendo che l’uguaglianza riguarda le anime, non i corpi.

In tal modo la servitù e il suo sfruttamento potevano essere considerati un male fisico, ma non un’immoralità, così come avviene tutt’ora, laddove servitù, comunque mascherata, e ricchezza, comunque accumulata, diventano quelle “cose” che si devono a Cesare, senza pregiudizio a Dio e al diritto di classe. Bisogna ammetterlo, il padrone e il suo prete (sia esso un economista o un editorialista) ne sanno sempre una più del Diavolo.


(*) È vero che la ricchezza come tale non è ancora potere politico, ma conferisce immediatamente e direttamente – come osservava già Adam Smith – il potere di comprare, il che consiste in un diritto di comandare sopra ogni lavoro altrui, e su ogni prodotto di questo lavoro esistente in qual momento sul mercato (Cfr. : Indagine sulla natura e le cause …., Mondadori, I, p. 33).

(**) Nel Vangelo di Luca: Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?

(***) La Chiesa non si prese certo cura, non solo per ragioni tattiche, di stabilire che se padroni e schiavi dovevano essere uguali davanti a Dio, tali andavano considerati anche davanti alla legge degli uomini. Tuttavia, come sappiamo, la storia cammina molto più lentamente di un sillogismo.

(****) Paolo, Corinzi, I, 7-20: Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato; Timoteo, I, 6-1 e 2: Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare.


(*****) In pieno XVI secolo, Paolo III, con motu proprio del 1535 concede la libertà agli schiavi rifugiatisi in Campidoglio, ma con un successivo motu proprio del 1548 non solo annulla il precedente, ma sancisce il commercio schiavista. E mezzo secolo prima, i cristianissimi sovrani spagnoli, dopo la presa di Granada, inviano a papa Innocenzo VIII cinquecento mori perché servano nelle galere pontificie.

5 commenti:

  1. Scusami Olympe, è un po di tempo che volevo chiedertelo.
    Ma tu, che definizione daresti al termine "economia politica"?
    La domanda forse ti apparirà banale, (forse lo è), ma non riesco a darmi una definizione precisa, pur capendo di cosa si occupa...l'economia politica.
    Ciao, e grazie per la risposta.

    Franco

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    1. Allora, scusami per la domanda Olympe. Evidentemente, l'hai ritenuta banale.
      Ciao e buona giornata.

      Franco

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    2. e perché banale? solo che non ho avuto il tempo di risponderti immediatamente.
      so, caro Franco, che ti piace leggere, perciò ti invito a una brevissima lettura dalla quale credo possa ricavare risposta più esauriente delle mie parole:
      il primo manoscritto [salario] dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx. puoi trovarli qui:
      http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/Salario.html

      buona giornata a te

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