mercoledì 6 novembre 2013

"L'inavvedutezza di Marx"


Scrivevo ieri: “la proliferazione del consumabile non ha un limite fisiologico, non nella cosiddetta propensione ai consumi e allo spreco come credono taluni, ma un limite nella natura stessa del capitale”.  E ciò vale per ogni altro aspetto del capitalismo, ossia il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, un limite che ha nulla a vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale. Questo particolare limite – scrive Marx – testimonia del carattere ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; prova che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo.

Naturalmente Marx non si limita ad enunciazioni di principio come un qualunque filosofo,  come scienziato scopre ed enuncia “la legge in quanto tale”, una legge naturale indipendente dai produttori e che sfugge sempre di più al loro controllo. Tutto nero su bianco, da ben oltre un secolo. Nessuno ha confutato scientificamente tale legge, laddove si è cimentato anche quel confuso di Croce Benedetto, con risultati comici, come già rilevava Plenchanov e poi Gramsci [*].



Al riguardo soggiungo solo che se, oltre il cap. 13 del III Libro, Croce si fosse preso la briga di leggere anche i capp. 14 e 15, forse avrebbe evitato di aggiungere al suo curriculum altre miserabili sciocchezze. Ad ogni modo l’imbecille pone a presupposto della sua “critica” un presunto “errore del Marx”, il quale avrebbe attribuito “inavvedutamente” un valore maggiore al capitale costante che viene messo in movimento dalla stessa forza-lavoro, e ciò nonostante, obietta Croce, il progresso tecnico faccia scendere il valore delle materie prime ed ausiliarie impiegate come capitale costante in rapporto al valore della forza-lavoro.

A quest’asino sfuggiva un fatto assolutamente elementare, e cioè che allo stesso modo che il progresso tecnico fa scendere il valore delle merci impiegate come capitale costante, in modo altrettanto progressivo consente all’operaio di mettere in movimento una quantità notevolmente maggiore dello stesso capitale. È questa una nozione così elementare che anche un qualsiasi operaio, per quanto “inavveduto” di filosofia crociana, può illustrare facilmente.

Se, come dicevo a mia volta, Croce si fosse dato pregio di leggere anche il cap. 15°, avrebbe scoperto che tale legge non funziona solo in presenza di un aumento della composizione organica del capitale, ma anche, come sa qualsiasi Marchionne, con la diminuzione del numero degli operai impiegati sulla base di un determinato capitale. Si tratta della tendenza del capitale alla massima riduzione possibile del numero degli operai da esso occupati, da un lato, in contrasto con la sua assoluta necessità, quella di produrre la maggior massa possibile di plusvalore. Ecco a cosa serve la dialettica materialista applicata alla scienza economica.

[*] Croce, Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, poi raccolto in Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari 1946, pp. 149-61; Plenchanov, À propos du livre de Croce, in Oeuvres philosophiques, Mosca, vol. II, pp. 762-63; Gramsci, Il materialismo storico e la fil. di B.C., Einaudi, 1974, 211-15.

*
Non fa più effetto leggere gli appelli di economisti “de sinistra” affinché siano adottate “condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione”.

Esistono gli economisti “de sinistra”, sono sempre esistiti come economisti borghesi, e, da un certo momento storico in poi, come volgari apologeti del capitale. Consapevoli che il capitalismo lasciato alla sua spontaneità non tende all’equilibrio ma genera mostri, ritengono che per ricondurre il sistema all’equilibrio, ossia fuori dalla crisi, sia necessario far incontrare offerta e domanda. Perciò, stante la natura del modo di produzione capitalistico, bisogna produrre una domanda aggiuntiva tramite interventi di ordine politico, quindi di riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale.

Sia chiaro, si tratta solo di un abbellimento, di un’illusione di breve periodo, una forzatura delle leggi del modo di produzione capitalistico, ma il capitale, infine, procede per la sua strada. Essi dunque prendono atto delle contraddizioni reali, e tuttavia su quali leggi di processo si determinino gli “squilibri” essi ricamano di pura fantasia, illudendo con le loro parole (ecco il ruolo di apologeti) che il sistema possa essere ricondotto all’equilibrio agendo sulla spesa pubblica e una diversa redistribuzione del plusvalore, sorvolando bellamente su quali contraddizioni provochino realmente la crescente divaricazione tra domanda e offerta, la quale è solo l’effetto e non la causa.



2 commenti:

  1. Domanda da uno studente del penultimo banco: nel cap. 14 del Libro III, Marx esamina le "cause antagonistiche" alla caduta del saggio generale del profitto (motivo per cui egli l'ha chiamata "caduta tendenziale"). Esse sono:
    1. Aumento del grado di sfruttamento del lavoro.
    2. Riduzione del salario al di sotto del suo valore.
    3. Diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante.
    4. La sovrappopolazione relativa.
    5. Il commercio estero.
    6. L'accrescimento del capitale azionario.

    Dunque; come forse mai prima d'ora, tali cause sono nel loro pieno vigore: saranno esse tutte insieme a dare il colpo di grazia all'animale morente? Ovvero: fino a che punto tali cause antagonistiche dovranno estremizzarsi per determinare la morte naturale del capitalismo?

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    1. anzitutto è necessario dire che ogni legge in economia è "tendenziale" e con tale aggettivo in questo caso s'intende un carattere organicamente rilevante della legge;

      quando la contraddizione raggiungerà un grado insolubile? Per quanto detto sulla tendenza, non si tratta ovviamente di un "momento" cronologicamente determinato, di un crollo reale del capitalismo. le controtendenze invece di invalidare la legge la confermano e ne rafforzano il valore, tanto che Marx scrive nel cap. 14:

      «le medesime cause che determinano la caduta del saggio del profitto, danno origine a forze antagonistiche che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta. E se non fosse per questa azione contrastante non sarebbe la caduta del saggio del profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario la relativa lentezza di questa caduta. In tal modo la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo.»

      Si tratta dunque di un modello – quello marxiano – fondato sulla dialettica e solo con la dialettica materialistica è possibile la sua corretta interpretazione. Dunque attenzione: gli stessi elementi antagonistici della tendenza (pensa alla resistenza dell’aria nella caduta di un grave), ossia gli elementi che attenuano l’aggravarsi della crisi e che consentono il suo provvisorio superamento, sono poi quegli stessi elementi che conducono di nuovo e più rapidamente l’economia capitalistica nella direzione della sua catastrofe storica.

      Tra gli elementi di controtendenza, Marx cita il commercio estero, vale a dire non solo l’esportazione di merci ma l’esportazione di capitali in cerca di valorizzazione. Dal momento che tutta l'economia mondiale è ormai dominata dal capitale, diventerà sempre più difficile per il capitale superare le difficoltà di valorizzazione. Ma qui siamo già ad un altro tema.

      ciao

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