mercoledì 13 novembre 2013

Del commercio


Così come lo scopo fondamentale del capitalista – frega niente se individuale o collettivo – è la produzione del plusvalore e non quella delle merci (mezzo cui raggiungere lo scopo stesso), il commerciante vende e acquista indipendentemente dai suoi bisogni di consumo di quelle stesse merci. Che egli scambi ossidiana di Melo o cuscinetti a sfera di Heidelberg, egli assicura lo scambio delle merci e il suo patrimonio esiste sempre sotto la forma di patrimonio monetario e il suo denaro funziona sempre come capitale.

La sua attività è l’accrescimento del valore di scambio, in altri termini il motivo propulsore e il suo scopo è quello di trasformare denaro in più denaro. Più è arcaica la figura e la funzione del commerciante nello scambio dei mezzi di sussistenza, più appare determinante la sua funzione, ossia quella del suo denaro, come capitale; ecco dunque perché storicamente è il capitale commerciale ad apparire come capitale per eccellenza, anziché il capitale investito nei rami produttivi.



E, sempre dal punto di vista storico, cioè in determinate condizioni, il capitale commerciale è stato la premessa indispensabile per la concentrazione dei patrimoni monetari, e il presupposto della produzione capitalistica, ossia della produzione per il commercio su larga scala. È questa funzione del capitale commerciale ad orientare sempre più la produzione verso i valori di scambio, la trasformazione dei diversi prodotti in merci.

Il profitto del commerciante è innanzitutto creato esclusivamente nel processo di circolazione, ossia nella compra-vendita, e poi nell’atto successivo, nella vendita. A prima vista le merci che si scambiano sembrano delle grandezze di uguale valore, quantitativamente esse sono delle espressioni analoghe del lavoro che contengono, ma la legge del commercio non è lo scambio di equivalenti, ma l’acquistare a buon mercato per vendere caro.

Non per nulla il ruolo del commerciante, quanto più una società è poco sviluppata, la sua produzione orientata verso i valori d’uso e le transazioni molto semplici, è visto come quello dell’approfittatore, ossia di colui che lucra il suo profitto nell’intermediazione frodando a danno di consumatori e produttori.

Man mano si sviluppa la produzione per lo scambio e la regolarità degli scambi stessi, tende a scomparire sempre più alla vista questo carattere particolare dello scambio tra prodotti per assumerne un altro, quello tra equivalenti espressi in denaro, laddove l’intermediario tra produttori e consumatori, ossia il commerciante, confronta i prezzi in denaro e ne intasca la differenza. Mediante il suo movimento stesso egli stabilisce l'equivalenza.

Come detto in precedenza, lo sviluppo del commercio e del capitale commerciale orienta ovunque la produzione verso il valore di scambio, aumenta il volume degli scambi e ne accresce la varietà, imprimendo al movimento un carattere internazionale, e, con ciò, trasforma il denaro in moneta mondiale.

In tal modo sottometterà sempre più la produzione al valore di scambio facendo dipendere sempre più i consumi dalla vendita, anziché dall’uso immediato dei prodotti, dissolvendo con ciò gli antichi rapporti, e non agisce più semplicemente nella sfera dell’eccedenza della produzione, ma a poco a poco investe la produzione stessa e sottomette al suo potere interi rami di produzione.

Tuttavia, questo tipo di sviluppo del capitale commerciale, contrariamente a quanto si crede comunemente, non è sufficiente di per sé a determinare, senza che vi concorrano altre circostanze, la nascita di un nuovo modo di produzione. A ben vedere si tratta di un’evidenza storica se si pensa, per esempio, che già nell’ultimo periodo repubblicano di Roma antica si sviluppa il capitale commerciale ad un grado che l’antichità non aveva fino allora conosciuto, senza tuttavia che vi sia stato un adeguato progresso industriale.



  

6 commenti:

  1. Con la vittoria quasi totale della grande distribuzione (classica e online), i commercianti (insieme ai piccoli produttori spodestati dalla grande manifattura) sono entrati a far parte della classe degli sfruttati. Quali sono i fattori che nel '900 hanno impedito (e impediscono ancor oggi) la coalizione di costoro col movimento operaio? Perché insomma commercianti e produttori falliti preferiscono la reazione (che difende gli interessi di coloro che li hanno ridotti sul lastrico) alla "rivoluzione"?

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    1. bella domanda caro amico, magari ne farò oggetto di un prossimo post

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  2. "frega niente se individuale o collettivo"

    aiaiaiaiaiai

    Frega molto invece, moltissimo!

    La dai per scontata e poi prosegui. Un modo curioso di analisi!

    Vediamo le implicazioni.
    E' vero, all'interno del sistema attuale, se le imprese fossero anche autogestite alcune parti della società potrebbero sfruttare gli outsider alla pari degli imprenditori individuali attuali. Ma, se le imprese autogestite fossero aperte? Nel senso che esista l'obbligo di accettazione alla pari degli outsider.

    La vera differenza con oggi sarebbe il minor potere contrattuale, spalmato di fatto tra milioni di persone, invece che racchiuso in un pugno di persone e la consapevolezza immediata e diretta dei provvedimenti da implementare.

    Allora, se una società qualsiasi di persone realizza profitti positivi attirerà sempre più outsider cancellandoli tendenzialmente tutti; in alternativa, per i piccoli artigiani, non sarebbe un problema tassare gli utili, come anche lo si sta facendo adesso, perché sprovvisti di qualsiasi potere contrattuale, ma, appunto, essendo il loro potere spalmato su milioni di persone.

    Puntualizzo come sempre.
    Certo, una tale organizzazione della società non sarebbe comunista, forse neanche socialista (ho i miei dubbi), ma sarebbe attualmente per lo meno giustificata e con prospettiva, visto che la creazione del comunismo non può avvenire in un posto qualsiasi e isolandosi dal resto del mondo. E' comunque un ottimo compromesso tra la realtà di oggi e la dittatura del proletariato, o anche solo di una qualsiasi forma di socialismo centralizzato (democratico o nazionalista).

    Ciao

    Tony

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  3. Mi viene da fare un'osservazione ... che secondo me è un nodo importante da affrontare quando si cerca di confrontarsi con l'intellettuale "borghese" su questi temi. Tu dici:

    "Il profitto del commerciante è innanzitutto creato esclusivamente nel processo di circolazione, ossia nella compra-vendita, e poi nell’atto successivo, nella vendita. A prima vista le merci che si scambiano sembrano delle grandezze di uguale valore, quantitativamente esse sono delle espressioni analoghe del lavoro che contengono, ma la legge del commercio non è lo scambio di equivalenti, ma l’acquistare a buon mercato per vendere caro."

    In questa frase manca un dettaglio a mio avviso, ovvero che il piccolo commerciante molto spesso offre un servizio, cioè il plusvalore che io pago quando faccio la spesa è IN PARTE il corrispettivo per il servizio di vendita al dettaglio. Detto in soldoni, il mio fruttivendolo sotto casa si alza al mattino alle 4, va al mercato, si spacca la schiena a forza di portar cassette e io bel-bello esco, entro nel negozio, e compro le zucchine come se le avessi comprate dal contadino... è giusto che io paghi questo servizio e le sue ore di lavoro.

    Ecco, questo nodo è difficile da affrontare perchè, diamine, c'è del vero... e c'è del vero a qualunque livello... tradotto, quasi in ogni situazione una parte della differenza tra prezzo allo step N e allo step N+1 è un corrispettivo del lavoro speso per effettuare lo step stesso.

    Esempio ultramoderno:
    Mediaworld compra il Samsung S4 in Corea a 50 euro (sparo a caso), e me lo rivende a 600... una parte di questa differenza copre i costi di gestione e trasporto di Mediawolrd e di tutti gli intermediari (che consentono a Mediaworld di mettermi in vetrina il dannato telefonino supersbrillucicoso), un'altra parte ovviamente corrisponde al guadagno dei singoli attori dello "scambio commerciale".

    A questo punto il borghese medio concluderebbe che il tuo discorso è disonesto perchè dai dell'approfittatore a chi fa un lavoro e per questo si aspetta di essere pagato.

    Dove sbaglia il nostro amico borghese medio?

    Sbaglia perchè trascura:
    1) che molto spesso molti degli step di cui sopra sono assolutamente inutili e non danno alcun valore aggiunto al prodotto finale, nè costituiscono una qualsivoglia forma di servizio.
    2) che la parte negativa del ruolo del commerciante è quella sottile linea d'ombra tra il guadagno meritato (fruttivendolo che si spacca la schiena) e il re-impiego (dicesi investimento) del capitale in attività dove l'unico ruolo del commerciante è "metterci i soldi"... ed è proprio qui che si innesca l'accumulazione del capitale e il ruolo di approfittatore del commerciante, che "nasce" come commerciante e diventa, nel divenire del processo storico, grande commerciante, grossista, usuraio, banchiere, cambiavalute, assicuratore, gestore di fondi...............
    3) attraverso la storia socio-economica degli ultimi due millenni (e qui mi non mi dilungo :P !!!!!!) si arriva alla situazione attuale in cuicosta molto meno comprare il telefonino in Korea/Cina (...), pagarlo niente, portarlo in europa, e rivenderlo, piuttosto che produrlo a Ivrea. Tradotto: l'evoluzione dei rapporti di produzione da una parte e l'evoluzione degli scambi commerciali dall'altra, ha portato a una situazione completamenta assurda, dove il medesimo lavoro, svolto a 10000 km di distanza, ha valore di scambio completamente diverso....
    4) cos'altro trascura... ah sì, la schiavitù di chi produce... ma son dettagli.... (ma ci hai dedicato il post successivo se non erro, ora lo leggo!)

    Ciao
    Marco

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  4. caro Marco, anzitutto io non ho dato giudizi di valore sul ruolo del commerciante. infatti scrivo: Non per nulla il ruolo del commerciante, quanto più una società è poco sviluppata, la sua produzione orientata verso i valori d’uso e le transazioni molto semplici, è visto come quello dell’approfittatore, ossia di colui che lucra il suo profitto nell’intermediazione frodando a danno di consumatori e produttori.

    non vi è dubbio che il commerciante venga visto, specie nelle società più arretrate, spesso proprio in questo ruolo.

    dal lato oggettivo della faccenda, ossia in termini scientifici, non vi può essere alcuna implicazione d'ordine morale ("la disonestà").

    quando il piccolo commerciante "si rompe la schiena", si tratta di un lavorante dei servizi in conto proprio, così come, p.e., nella sfera produttiva esistono dei padroncini che sono allo stesso tempo dei salariati di se stessi.

    quanto ai costi di trasporto, ossia all'attività connessa, quella di stoccaggio, ecc., non fanno parte, in senso stretto del commercio, si tratta di rami industriali distinti dal commercio.

    permettimi infine un'annotazione pedante: quello che paghiamo al commerciante non è plusvalore, ma salario o reddito.

    molto stimolante la tua osservazione. ciao

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  5. Dannazione, sapevo mi avresti corretto sul plusvalore :D (grazie per la precisazione, ovviamente)

    Tornando seri, condivido la tua risposta, ma lascia essere pedante anche me..
    Io intendevo proprio che la distinzione tra piccolo commerciante e grande commerciante (giusto per capirci), che tu hai esemplificato in maniera più chiara e concisa di quanto abbia fatto io, spesso non appare chiara per nulla all'uomo medio.

    Il senso del mio commento era proprio che, molto spesso, quando si parla con persone che non hanno adeguata disposizione mentale verso questi argomenti, ci si scontra con la solite trite e ritrite argomentazioni sulla libera iniziativa e blabla.
    Queste argomentazioni hanno come substrato culturale l'idea che il fruttivendolo non sia sostanzialmente diverso dall'azionista di Goldman Sachs (e nota che ho detto azionista, non operatore)!!!
    Mentre la sostanza è ben diversa, e l'hai appunto spiegata molto bene nel rispondermi.

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