giovedì 3 ottobre 2013

Chi ha vinto, chi ha perso …



Lo sviluppo capitalistico ha in sé la contraddizione della sua crisi.


A perdere, intanto e soprattutto, sono quei giovani e meno giovani disoccupati stimati essere oltre il 40%. E anche gli altri, gli occupati, sono dei perdenti quando hanno contratti di lavoro e retribuzioni impensabili solo vent’anni fa. Se si dà retta ai sondaggi demoscopici, solo il 5% degli europei ritiene che le politiche economiche attuali siano efficaci (Gallup), e tuttavia non mi pare si muova foglia se non per ingrossare le fila dei movimenti fascisti.

Molti di quel 40% non studiano e non cercano lavoro. Sopravvivono con l’aiuto delle famiglie e arrangiandosi. E le famiglie non risparmiano più e molte erodono i risparmi e altre proprio non ce la fanno. Quei giovani e meno giovani disoccupati anche se trovassero un impiego – quasi sempre precario e sottopagato – fra 30 o 40anni non avranno una pensione o sarà una pensione sociale. Avranno bisogno per altri 20 o 30anni della carità pubblica per campare e la religione in cui sperare (Bergoglio e Scalfari ci contano).



C’è in tutto questo una contraddizione palese di questo sistema sociale che nessuna retorica politica – pure quella più riformistica e radicale – può eludere. Nessuna misura economica può far fronte efficacemente a questa situazione poiché essa poggia su una delle tante contraddizioni di questo sistema economico. Gli economisti e i politici – ossia i principali ideologi di questo sistema – affermano che per uscire dalla crisi è necessario aumentare la produzione e lo sfruttamento del lavoro, salvo non rilevare che per creare nuova domanda servono salari più elevati, e neanche questo infine basterebbe perché la somma dei salari sarà sempre inferiore all’insieme delle merci prodotte.

La prima ragione della crisi riguarda dunque la natura stessa del modo di produzione capitalistico. È questo un fatto evidente nelle sue dinamiche più apparenti anche alle anime più comuni. La questione fondamentale sta nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto. La produzione industriale richiede oggi una quantità di lavoro irrisoria rispetto al passato per produrre la stessa quantità di merci. E tuttavia, da un lato si chiede e ottiene un aumento dello sfruttamento, e, dall’altro, lo sviluppo delle stesse capacità produttive crea un enorme esercito di disoccupati.

Nessun programma di riassorbimento della disoccupazione, sulla base in cui poggia questo sistema economico, può rivelarsi oggi immediatamente efficace e nemmeno nel medio e lungo periodo. La domanda aggregata legata all’aumento della spesa pubblica, dunque le politiche d’intervento di tipo keynesiano, non sono realistiche per l’enorme debito statale, tanto che si tende a ridurre il numero dei dipendenti pubblici anziché aumentarli, anche per l’effetto delle nuove tecnologie.

Fino a quando il valore di scambio non cesserà di essere la misura del valore d’uso, e la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro costituirà la base sulla quale poggia la produzione, e ancora fino a quando il processo di produzione materiale immediato non verrà a perdere anche la forma dell’antagonismo, il problema della disoccupazione e della sottoccupazione, non solo nelle aree di più antica industrializzazione ma anche nelle aeree della disgregazione contadina, è destinato a permanere e anzi si aggraverà man mano che procede lo sviluppo tecnologico e la centralizzazione dei capitali.

L’esplosione di tali contraddizioni, i cui effetti dal loro presupposto economico si trasmettono a quello sociale, è solo una questione di tempo. La borghesia monopolistica e i suoi esperti lo sanno bene, ed è perciò che hanno l’assoluta necessità di controllare il mutamento sociale e quello politico, ma è altresì inevitabile – e già ne vediamo le premesse – un sempre più marcato squilibrio politico e istituzionale di dimensioni inedite per le “democrazie”. Una crisi di non corrispondenza che è particolarmente evidente nei paesi laddove l’impatto della crisi economica, finanziaria e fiscale è più forte.

Se si è distratti dalle ciarle del dibattito borghese, dalle invenzioni di certa “filosofia” a buon mercato, se insomma non si è attrezzati e organizzati dal punto di vista ideologico e da quello operativo ad affrontare questi processi indotti dallo sviluppo del capitalismo, è inevitabile subirli. E vai poi a dolertene sui social network e nelle piazze.



6 commenti:

  1. Innanzitutto buongiorno. E poi volevo dirti che questo tuo procedere "piano" è estremamente didattico ed esaustivo. Grazie

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  2. E le magnifiche sorti e progressive??? Scusa, se non rido mi metto a piangere... sarà che è inverno....

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  3. "e ancora fino a quando il processo di produzione materiale immediato non verrà a perdere anche la forma dell’antagonismo".
    Scusami Olympe, di quale antagonismo parli, quello tra capitale e lavoro per caso?
    Ciao e grazie da Franco.

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  4. @luca Massaro
    Concordo al 100%.
    Un'anima comune.

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