mercoledì 21 agosto 2013

Robot


Scrive compito Maurizio Ricci, oggi su Repubblica, che un’azienda in Alabama, grazie ai robot, dal 2010 produce 300mila freni in più senza dover assumere alcun operaio. Quello che questi giornalisti, consci delle proprie competenze e pieni di senso critico, non dicono, è che i robot, comunque si voglia mettere la faccenda, non producono alcun valore. E vai a spiegare l’abc dell’economia politica a questi qui. Quell’industria di freni, fino a quando le concorrenti non si metteranno tecnologicamente alla pari, strapperà, nella spartizione del plusvalore complessivo, una quota di superprofitti. Quando anche le concorrenti saranno alla pari, per tutte si ripresenterà, aggravato, il problema della caduta del saggio di profitto. Possiamo spiegare il perché ciò accada a professionisti consci delle proprie competenze e piena di genuino senso critico?

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Oggi mi veniva alla mente la vicenda di Thomas Mann, il celebre scrittore e premio Nobel che a soli 25 anni, senza essersi diplomato e dopo un’esperienza scolastica non esaltante, scriveva un capolavoro come i Buddenbrook. Quando ne ho occasione, ossia quando le circostanze si presentano adatte, ossia in casi rari, consiglio gli insegnati di leggere almeno il capitolo XIII del romanzo, quello ove è protagonista il giovane Hanno. Se ben inteso, questo capitolo dovrebbe evitare le solite annose e fruste diatribe su certe questioni. Come non detto.

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In una società divisa in classi (*), cosa può insegnare la scuola? Potrà mai la scuola andar contro gli interessi della classe dominante? Perciò le parole e i concetti in uso nella scuola non possono essere altro che le parole e i concetti a garanzia dello status quo. Compreso il concetto di “competenze” e le farneticazioni di cui si compenetrano i relativi apologeti.

(*) Nota esemplificativa a uso dei filosofi delle “competenze”. Se una società è divisa in classi significa che una minoranza domina la maggioranza. Sappiamo poi con quali mezzi. Se una classe è sottoposta al dominio di un’altra, i suoi componenti come si chiameranno? Per illuderli possiamo anche chiamarli cittadini, popolo sovrano, eccetera. Se un uomo è dominato da un altro, se per bisogno è costretto a lavorare per un altro, lo chiamo schiavo.

«I mercanti non possono guadagnare senza mentire, e non c'è nulla di più spregevole della menzogna [...] tutti coloro che vendono la loro fatica e la loro industria, [...] chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende se stesso e si mette a livello degli schiavi» (Cicerone, Dei doveri, I, XLII).


«Allorché un individuo è costretto a pagare e a lavorare per altri, questo individuo è lo schiavo degli altri» (Maffeo Pantaleoni, La caduta della Società Generale di Credito mobiliare Italiano, UTET, 1988).

A parlare è un padrone di schiavi e un alto borghese. Marx, ovviamente, era dello stesso avviso:

«Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).


Dunque, in generale, compito della scuola è istruire i figli degli schiavi nelle “competenze” che servono a riprodurre lo status quo. Poco importa se vi sono incluse anche le competenze minime di saper leggere e scrivere e far di conto. Ciò che conta è il risultato nel suo complesso, non il fatto che io sappia scrivere rime baciate alla morosa. Ossia, compito della scuola e della famiglia, della società nel suo complesso, è riprodurre le figure sociali così come servono al capitale. Dopo di che, per giustificare impegno e stipendio, i signori delle “competenze” possono cantarsela come vogliono.

9 commenti:

  1. Raimo e Mariangela Vaglio, ovvero petizione di principio e necessità pragmatica; due prospettive per la conoscenza entrambe corrette a mio avviso anche se non sei d'accordo...tiziana

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    1. mi sembrano le diatribe sulla santissima trinità. in tal modo vincono sempre LORO, la discussione è sempre sul terreno dell'avversario. quanto alla necessità pragmatica, non credo di vivere sulla luna; è chiaro che le "competenze" sono essenziali, ma basta con le capanne dello zio tom. la verità sullo stato di cose presenti va ben detta o dobbiamo morire di pragmatismo in saecula saeculorum?

      grazie Tiziana, ciao

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  2. Esame di diritto del lavoro da sostenere prossimamente.
    Un bel malloppo di 600 pagine, non certo l’ideale per passare il tempo negli assolati pomeriggi estivi.
    Onde evitare di dare troppo credito a tutti quei fulgidi esempi di competenza e capacità che recitano in coro “giovani choosy”, “laurea a 28 anni: sfigato” e “con la cultura non si mangia”, decido tuttavia di mettermi all’opera di buona lena.

    Arrivo a pagina 94.
    Riporto testuale:
    « “Il lavoro non è una merce” » può essere considerato il primo dei principi su cui si fonda l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). »

    E ancora:
    « … principio “il lavoro non è una merce” sancito dalla Convenzione OIL n.2 del 1919 (ratificata dall’Italia con R.D.L. 29 marzo 1923, n. 1021). »

    Salvo poi raccontarmi, una pagina dopo, che il principio è stato “rivisto ed attenuato” a metà anni ’90.
    Mi chiedo cosa mai avrà smosso una così granitica convinzione.
    Presto detto: ammettere anche i privati all’esercizio della mediazione di manodopera.
    Leggasi: somministrazione di lavoro.
    Volgarmente: lavoro interinale.
    Benvenuti nell’epoca della morte di tutte le ideologie!!!

    Chiudo il libro e guardo gli autori sulla quarta di copertina.
    Manuale scritto a 4 mani, tutti professori ordinari di prestigiose Università italiane: Bologna, Napoli, Torino, Milano.
    A conti fatti, questo testo passerà tra le mani di almeno il 70% degli aspiranti giuristi italiani.
    Un frammento dell’egemonia culturale è lì, sotto i miei occhi.

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  3. "...Dopo di che, per giustificare impegno e stipendio, i signori delle “competenze” possono cantarsela come vogliono."

    Gentile Olympe, a mio modesto avviso, ritengo che le competenze (nel mondo del lavoro) siano, in molti casi, necessarie. Il problema di fondo è che siamo immersi e sommersi nella e dalla società della competizione selvaggia che, mai come nel nostro paese, è l'antitesi della meritocrazia. Saluti

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    1. negare ruolo alle competenze è un'assurdità e crerdo non sia questo il punto, che, come giustamente rilevi, è un altro, e poi un altro ancora e via di seguito. di là delle buone intenioni e delle belle parole, infine, come rileva qui sopra MARCOS, la realtà è un'altra. con molta cordialità

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  4. "Quello che questi giornalisti, consci delle proprie competenze e pieni di senso critico, non dicono, è che i robot, comunque si voglia mettere la faccenda, non producono alcun valore".

    Quindi il capitale non produce mai valore aggiunto (o plusvalore)? Se ne deduce che l'economia politica di stampo marginalista è da buttare o c'è qualcosa che ancora non ho afferrato in materia?

    Marco

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    1. Bravo. Solo il lavoro umano crea valore. Ai cosiddetti marginalisti appartiene l’idea che il mercato, purché vi sia concorrenza perfetta (!?), dia a ciascuno un compenso corrispondente al contributo dato alla produzione sociale, contributo che può essere correttamente misurato dalla cosiddetta “produttività marginale di ogni risorsa” (donde anche l’appellativo di “teoria marginalista”).

      Tali presupposti “teorici” no hanno nulla di scientifico, essi presumono un sistema di “armonie” che non esiste nella realtà. L’occupazione fondamentale di questi cialtroni è quella di costruire modelli matematici sempre complessi al fine di dimostrare (??) che diano conto dell’equilibrio perfetto (vedi, ad esempio, la “teoria dell’equilibrio generale” di quei pezzi di merda della cosiddetta scuola di Losanna – Walras, Pareto, K. Wicksell e altri farabutti), i quali non si curano affatto se i loro deliri corrispondono o meno con la realtà.

      Ecco un classico esempio per cui in alcuni post me la prendo NON con la matematica, ma con l’USO che i farabutti ne fanno (non solo in economia).

      ciao

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    2. la risposta non è scritta molto bene ma rischiavo di bruciare la peperonata. comunque mi sembra che il senso sia chiaro.

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  5. Sì ho colto il senso, mi rimane solamente molta curiosità circa la teoria del valore. Riguardo invece ai vaneggiamenti di certi economisti ormai ci sono abituato, c'è chi ha teorizzato ben di peggio in quest'ultimi anni. Grazie della risposta e buona peperonata!.

    Marco

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