sabato 17 agosto 2013

Lincoln


Il senso comune, ossia il mito che lo circonda, vuole Abramo Lincoln favorevole all’abolizione della schiavitù. Come ho fatto notare incidentalmente altre volte in questo blog, Lincoln non fu un abolizionista assoluto e, anzi, egli fu fondamentalmente un razzista. Ciò che per esempio si legge su Wikipedia, ossia che la sua personale posizione sulla questione della schiavitù sarebbe assai controversa, e che tuttavia la frequenza e la chiarezza con cui sostenne anche prima della sua elezione come presidente la posizione a riguardo della liberazione dalla schiavitù, è un falso deliberato.



Tutti i suoi discorsi pubblici e le sue lettere, compresi i brani riportati in Wikipedia, attestano palesemente la sua posizione classista e razzista in merito all’argomento schiavitù. Del resto, Lincoln sapeva benissimo che in una società classista la schiavitù esiste comunque, sia pure camuffata sotto forme diverse, più benigne ed emancipate come in generale nel caso della schiavitù attuale.

Ciò che a Lincoln interessava, e in ciò egli è chiarissimo, è preservare il dominio della razza bianca da un lato, e dall’altro il potere della classe dominante, quindi non diversamente da qualunque altro presidente, sia prima e dopo di lui.

La sua posizione personale, la sua storia, erano assolutamente coerenti con tale impostazione ideologica. Egli aveva sposato una Todd, Mary Todd. I Todd erano una grande famiglia del Kentucky, proprietaria di schiavi, e molti dei suoi componenti erano dei secessionisti attivi. E ciò era fonte di grande imbarazzo per lei e per suo marito, il presidente. E tuttavia Mary non rinunciò alla sua cameriera nera quando approdò a Washington.

Il 27 febbraio 1860, un anno prima del suo insediamento alla Casa Bianca, Lincoln tenne un discorso al New York Cooper Institute, insieme ad altri oratori. Presiedeva la riunione il giornalista William Cullen Bryant, dell’Evening Post di New York, mentre il giornalista più influente della città, Horace Greeley, sedeva in platea. Lincoln, con la sua indubbia eloquenza di brillante avvocato, si era detto favorevole al mantenimento della schiavitù nel Sud ma contrario alla sua estensione altrove. Insomma, Lincoln era per lo status quo, per il mantenimento della schiavitù laddove essa fosse legale. Questa fu sempre la sua posizione; se essa, nei suoi atti di presidente, ebbe a mutare, fu solo in conseguenza degli avvenimenti, delle circostanze storiche alle quali la posizione presidenziale si adattò.

Il giorno dopo questo discorso, Lincoln “era noto a tutta la nazione”. E come egli ammise in seguito, fu questa l’occasione che lo lanciò quale candidato del partito repubblicano alla presidenza.

Scrive Wikipedia: “Nonostante le conseguenze che ebbe la sua azione determinante nella lotta alla schiavitù, le sue posizioni sul problema delle diverse popolazioni non erano naturalmente come quelle odierne”.

Anche questo non è esatto, anzi è falso, poiché tende ad accreditare l’idea che la posizione di Lincoln fosse la più avanzata in materia, ammonendo “di non dare facili ed errate interpretazione della visione di Lincoln sulle uguaglianze razziali” poiché esse “sono tipiche manifestazioni della psicologia di chiunque in quel periodo”.

Col cazzo! Il partito repubblicano, per esempio, era spaccato in due proprio perché da un lato stavano gli abolizionisti assoluti, come per esempio il celebre oratore Charles Summer, senatore del Massachusetts, il quale era uso tenere infiammati discorsi sul tema “con la convinzione che non vi fosse maggior compito sulla terra che quello di liberare gli schiavi e punire i loro padroni”. E anche William H. Seward, poi segretario di Stato e primo ministro della presidenza Lincoln, fu inizialmente un abolizionista assoluto per poi in seguito assumere posizioni più “moderate” (Wikipedia dice che fu contrario alla diffusione della schiavitù, cioè assunse la stessa posizione di Lincoln). Un altro appassionato antischiavista fu Salmon P. Chase, al quale Lincoln il "moderato", strappò la candidatura repubblicana.

La domanda a cui rispondere è una sola, inequivocabile: Lincoln era o no favorevole all’abolizione della schiavitù?

Lincoln non era tra i favorevoli – e non lo sarebbe stato anche in seguito se cause di forza maggiore non avessero predominato sui suoi convincimenti e la sua azione. Egli fu sempre favorevole al mantenimento della schiavitù laddove essa esistesse legalmente, solo questioni politiche lo indussero a cambiare posizione. Ciò non toglie nulla alla sua caratura di politico e di presidente, ma deve essere chiaro che a questa gente importava, come detto, solo il potere dei bianchi e il dominio dei ricchi. Le forme attraverso cui tale potere e dominio si attua è chiaro che sono destinate a mutare nel tempo storico. Pertanto, la posizione di Lincoln non poteva essere altro che una conseguenza, ossia un adattamento pragmatico alle circostanze. E le circostanze non potevano che seguire, prima o poi, le leggi della necessità storica.
  

8 commenti:

  1. Mi perdoni, ma quali furono le questioni politiche che indussero Lincoln a cambiare posizione sull'abolizionismo.

    Grazie anticipato per la risposta

    P.S.
    Ha visto il film di Spielberg?
    Io l'ho trovato la solita "americanata"!

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    1. dal momento che gli stati del sud hanno dichiarato guerra, il motivo nobile per combatterla poteva essere uno solo.

      no, non l'ho visto, me l'ha sconsigliato il medico
      saluti

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  2. Se ti può interessare ti sottopongo un problemino che mi arrovella.
    Su Sollevazione MPL teorizzano il cambio sistemico del turbo capitalismo il cui succo è :

    "Il processo di finanziarizzazione consiste essenzialmente nel fatto che il capitale, giunto al suo massimo punto di espansione nel periodo keynesiano, con l’ausilio determinante del potere politico imperiale nordamericano da Nixon in poi, per diverse cause (tra cui l’avanzata delle lotte operaie e dei popoli oppressi, la concorrenza forsennata tra monopoli, il declino dei tassi di plusvalore) è stato spinto ad orientarsi verso la speculazione (denaro che riconsegna più denaro) senza passare per un ciclo produttivo di plusvalore che implica investimenti produttivi, accumulazione di capitale e quindi sviluppo delle forze produttive materiali. In termini marxiani, inceppatasi la “riproduzione allargata”, il capitale, che per sua natura cerca anzitutto profitto, ha finito per scegliere le modalità speculativo-finanziarie per ottenerlo. Abbiamo che in Occidente il capitale monetario fa fatica a convertirsi in capitale produttivo, che l’eccedenza ottenuta nel processo di produzione, invece di essere riconvertita in plusvalore, preferisce ottenere plusvalenza monetaria nei mercati finanziari, del debito e delle valute."

    Da questa anlisi fanno discendere una serie di conseguenze tra cui la più rilevante:

    "Un simile modello sistemico è per sua natura parassitario, instabile e destinato a passare, nel contesto della fine della crescita e dell’opulenza, da un crack all’altro, senza la possibilità (salvo un redde rationem bellico) di potere invertire il corso decadente, producendo nuove e inedite tensioni sociali all’interno stesso delle roccaforti imperialistiche, e dunque il ritorno al centro della scena della necessità di una rottura rivoluzionaria e della fuoriuscita dal capitalismo»"

    Rimanendo in un solco più classico, sono portato a pensare che questa iper finanziarizzazione non sia altro che il classico contorno delle crisi: nient'altro che un mezzo utilizzato per arrivare ad una nuova e più massiccia concentrazione di capitali ( disegnando anche nuovi assetti negli equilibri mondiali) come preludio per un nuovo ciclo. Mi sembra che Marx parli, come effetto delle crisi, di un periodo in cui si assiste ad di una specie di bisca in cui i capitalisti cercano di rubarsi il mazzo l'un l'altro

    In effetti i piccoli spariscono e le casse delle mutinazionali straripano di utili.

    Che poi il gioco abbia mostrato la corda, e quindi sia dubbio che il ciclo di una ripresa possa funzionare e comunque durare per molto, è un' altra storia.

    http://sollevazione.blogspot.it/2013/06/marx-e-il-capitalismo-di-moreno_5.html

    Un saluto, gianni

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    1. si tratta della solita minestra riscaldata. marx ha già detto tutto e definitivamente sull'argomento. tutto l'essenziale, ovviamente. la finanziarizzazione è un'aggravante, non la contraddizione principale.
      ritornerò sull'argomento con più calma.
      molti saluti a te.

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  3. Uno dei motivi - non il principale - che spinsero l'Amministrazione Lincoln a respingere l'offerta di Garibaldi di combattere per l'Unione fu che tra le condizioni poste da Garibaldi per il suo contributo c'era l'abolizione totale e permanente della schiavitù su tutto il territorio americano.

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    1. mi era noto, ma forse non tutti lo sanno. e ciò conferma quanto detto. molte grazie.

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  4. Grazie.

    Avevo postato un'aggiunta ma non è arrivata. Provo a riscrivere.

    Marx aveva già analizzato come effetto delle crisi di sovrapproduzione la distruzione di forze produttive e di capitali. Parlava anche, non ricordo dove, del periodo di crisi come un periodo in cui la finanza viene utilizzata come bisca in cui i capitalisti si rubano il mazzo a vicenda.

    Giuletto Chiesa vede l'attuale orgia di debito, finanza e di stampa di carta come un mezzo per rastrellare i mezzi di produzone e i beni collettivi. Prevede che alla fine del processo la carta verrà bruciata lasciando a loro le proprietà e alla gente un pugno di mosche. Una versione moderna dell'"Enclosure".

    Ciao, gianni.

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    1. vedrò di dedicare un post a questo. chiesa non è un marxista, e questo va sempre ricordato quando si trattano queste faccende. di norma scambiano il fenomeno per la causa, e il casuale per il necessario, oppure li intendono separati e non come unità dialettica.

      buona serata

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