martedì 28 maggio 2013

Inchiodati


Ho letto l’intervento tenuto all’Astana Forum dall’ex direttore del Fondo monetario internazionale, Strauss-Khan, messo due anni fa fuori combattimento dall’intervento dei servizi segreti a causa delle sue posizioni da outsider sulla Germania “arcipeccatrice” (così ebbe a definirla) e dintorni. Il suo è un pensiero poco allineato e tuttavia riconducibile ugualmente al punto di vista borghese.

Strauss-Khan denuncia come il problema del debito sia stato sottovalutato a suo tempo, di come la Germania faccia ora la prima della classe ma che in passato si fu assai comprensivi con i suoi problemi economici interni, poi parla della riottosità della stessa Germania e della Francia per un comune sistema bancario europeo. Cose note. Ha messo in luce anche quale sia secondo lui il problema dei problemi, ossia la competitività. L’età dell’oro europea, dice, è passata e il sistema di vita, le garanzie sociali, non è più sostenibile. Insomma le solite geremiadi dovute al fatto che la borghesia non può guardare in faccia il presente se non da un punto di vista strettamente legato agli interessi di classe.



Che senso ha parlare di competitività in un sistema economico – quale quello europeo, statunitense o giapponese – dove le potenzialità produttive sono enormemente superiori alla domanda e gli impianti industriali chiudono o restano sottoutilizzati? Allora a quale scopo gli operai e i salariati di queste aree dovrebbero produrre di più di quanto già non producano?

Per l’interscambio dei prodotti e delle lavorazioni di cui abbiamo bisogno non sono forse sufficienti le enormi quantità di merci che già si producono per l’export? E per il resto non siamo forse in grado e capaci di produrre abbigliamento, automobili, pannelli fotovoltaici e gamberi agli ormoni? Perché dunque produrre queste merci ai quattro angoli del globo? Perché lì le produzioni sono più competitive, ci dicono. Che tradotto in soldoni significa solo una cosa: ossia che si pagano salari più bassi e le condizioni di lavoro sono peggiori.

Un sistema di 787 grandi corporation controlla l'80 per cento delle più importanti imprese del mondo, e al suo interno un gruppo ancora più ristretto composto da 147 gruppi controllano il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta. Chi decide il prezzo dei cereali con i quali si sfama il pianeta, il prezzo del petrolio con cui batte il cuore del mondo, sono una dozzina di gruppi di trading dotati di magazzini, flotte e stabilimenti sparsi per il pianeta.

Pertanto: a chi serve veramente la competitività se non alle multinazionali e ai loro profitti? Si chiede agli operai di produrre di più e con salari più bassi per dare modo ai capitalisti e ai loro funzionari di arricchirsi sempre di più. Ciò significa che alla base dell’attività economica non c’è alcuna razionalità, nessuna logica che guidi le decisioni se non quella del profitto. E in tal caso si tratta di una logica ben strana posto che siamo in presenza di una crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale, resa evidente dal fatto che gli investimenti fissi lordi nella stragrande maggioranza dei paesi europei sono crollati.

Il problema della “crisi”, della “crescita”, della “produttività”, della “competitività” ha a che fare, contrariamente a quanto strombazzano da mane a sera gli ideologi della borghesia, con  le basi stesse di questo modo di produzione, ossia con le contraddizioni dalle quali nasce una crisi strutturale che non può trovare soluzioni pacifiche nel breve e nemmeno nel lungo periodo, tantomeno con aggiustamenti superficiali.

Si vuole produrre di più per esportare di più, ossia aumentare lo sfruttamento dei fattori produttivi, anzitutto quello della forza-lavoro e imporre ancorpiù un rigido controllo dei salari, giudicati troppo alti. È la solita musica, il ritornello stanco che non cambia mai.

È normale dunque che i centri del potere imperialistico usino a loro vantaggio le dinamiche della competitività tra aree economiche diverse, approfittino della crisi e della disoccupazione per colpire il lavoro e i salari, puntino sull’evoluzione delle esportazioni e sulle solite ricette vecchie come il cucco ma che funzionano ancora egregiamente, senza trascurare di usare la finanza pubblica da un lato per socializzare le perdite, e, dall’altro, per un’azione destabilizzante anche in senso politico.

I marxisti hanno una chiave di lettura diversa della crisi e delle sue cause. La crisi non investe solo l’Europa o l’area occidentale, bensì l’intero sistema economico imperialista, e le sue cause più profonde non vanno ricercate nelle tautologie dei suoi ideologi, né i rimedi nelle loro logore ricette, ossia nel rendere più competitive le merci di questo o quel paese, sfruttando di più la manodopera, abbassandone i salari, peggiorando le regole di tutela. Le soluzioni vanno semmai trovate tenendo conto che si tratta della crisi generale del modo di produzione imperialistico, all’interno del quale paesi quali l’Italia vivono in posizione subalterna e determinata.

E dunque in definitiva che si fa? Nulla finché la giostra mediatica riesce a tenerci inchiodati.

4 commenti:

  1. Comunque il tuo post un po' di effetto tenaglia lo fa.

    RispondiElimina
  2. E' proprio così. E credere che il sistema si possa riformare è essere complici.

    RispondiElimina
  3. Ho appena finito di leggere quest'articolo dal FQ, e ho subito pensato a lei e al suo bel blog:

    https://www.google.com/url?q=http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/27/fiat-operaio-frustrato-per-paga-da-306-euro-danneggia-31-500l-in-serbia/607554/&sa=U&ei=EfGnUZnZN4rLtQbX8oGwAQ&ved=0CAoQFjAB&client=internal-uds-cse&usg=AFQjCNEkKJ61wZuJcI1__xWttsT-VRF-ng

    Buona notte.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. se si fossero organizzati avrebbero potuto fare di meglio

      Elimina