lunedì 15 aprile 2013

Il contratto con la morte



Nelle foreste vergini di Choco, un dipartimento della Columbia confinante con Panama (ma anche con quello di Medelin), il cui nome deriva da due locali etnie indigene di lingua diversa, nel XVI secolo arrivò il solito spagnolo, un certo Rodrigo de Bastida, che in nome del suo Re proclamò anche quella regione territorio della corona spagnola. Perciò, da quel momento, il Choco diveniva territorio spagnolo e i suoi abitanti indigeni sudditi della corona; non essendo tutti laureati come i parlamentari grillisti, furono costretti a lavorare nelle locali miniere.



Tempo dopo gli spagnoli trovarono in quelle miniere frammenti di un metallo grigio, pesante, resistente e difficile da lavorare, lo credettero un argento particolarmente duro, o almeno meno duttile dell’argento, e lo chiamarono “platina”, diminutivo di plata, argento. Essi ne buttarono in mare carichi interi, ma dopo qualche secolo quel metallo venne a essere più prezioso dell’argento e perfino dell’oro. Ciò dipende non dal suo valore intrinseco, ma dalla difficoltà di estrazione, nonché dal suo impiego quale catalizzatore per gli apparecchi chimici. Prese anche ad essere usato in oreficeria.

La zona platinifera columbiana è fatta anzitutto di montagne di sabbia, buchi oscuri aperti nel verde che un tempo si riteneva eterno dei boschi. Da Google maps non è possibile apprezzarla perché quella regione è stata ripresa coperta da una fitta nuvolaglia. Nel secolo scorso, in quegli spiazzi privi di alberi, lavoravano giorno e notte migliaia di esseri umani ridotti in schiavitù: negri, meticci, bianchi. Sul fiume Choco non c’era tanto posto perché la zona mineraria fosse così grande, ma solo perché erano molti gli uomini che vi morivano. E non di una morte leggera.

Sabbia, l’umidità che ti fa scoppiare le mani come banane troppo mature, un calore che dà la febbre e spezza le ossa. Intorno, la foresta vergine, ora parco nazionale. L’aria era piena di bestemmie e qualche volta risuonavano anche i colpi delle armi, perché la disperazione conduce spesso alla ribellione. Crescono ancora, lì accanto, gli alberi di chaparro, il cui legno resiste al fuoco e, accanto a essi, la palma della cera; dalla resina del tronco gli indigeni ricavavano il combustibile per le loro torce, in seguito quella resina venne adoperata per la fabbricazione delle candele. E solo Dio sa quante candele venivano consumate nel mezzo centinaio di chiese di Bogotà. Del resto, fateci caso, laddove la vita terrena è così dura, si crede e si spera nel Cielo molto di più che altrove.

I minatori dormivano sotto quegli alberi, perché l’aria e il calore delle baracche era insopportabile. Bevevano, quando non c’era di meglio, il succo vischioso e denso, di odore di balsamo, nutriente come il latte e tratto appunto da un albero chiamato volgarmente “vacca”. È un succo che esposto all’aria si trasforma in una materia che ha l’aspetto caseiforme e che i minatori chiamano realmente formaggio, ma che ovviamente formaggio non è. Ne parla anche Alexander Humboldt, non ricordo più se nel Cosmos, o nel resoconto del suo viaggio nelle regioni equinoziali (tre fantastici volumi editi nel 1986 dai Fratelli Palombi), oppure in qualche sua altra relazione che devo aver letta quando mi occupavo quasi a tempo pieno di queste intriganti amenità.

Lì in zona la natura, per certi aspetti curiosi, dà il meglio di sé stessa: ci sono anche alberi molto frondosi, come il corteo che porta migliaia di frutti simili alle prugne (e con gli stessi effetti!). Oppure il succo ricavato dalla corteccia e dalle foglie del behuco, un liquido zuccheroso e inebrante simile (simile per modo di dire) al vino tanto che dopo un po’ si trasforma in aceto. Le donne di Choco smaltavano le unghie, prima che anche lì arrivasse l’industria della cosmesi, col succo dell’albero arraco col quale si produce una lacca rosa-rossa. C’è anche un grande albero dal quale si ricavano delle foglie verdi-grige, l’yerba, “l’oro verde”, meglio conosciuto come mate, da cui un tè con molte proprietà, quello che beve di solito anche il nuovo papa argentino, non so se anche lui con la cannuccia d’argento. E poi, tra tronchi giganteschi, stormi di pappagalli e farfalle colossali, fiori verdi, rossi, gialli e azzurri, un canto dei grilli assordante e la tortura dei moscerini. Il pericolo a volte letale sempre in agguato.

Formalmente gli schiavi del platino non erano tali, così come non lo sono in genere gli altri schiavi, quelli cioè che si recano spontaneamente a lavorare nelle fabbriche e negli altri luoghi di sfruttamento della manodopera. Naturalmente i padroni delle miniere s’ingegnarono, come del resto fanno sempre quando non possono “delocalizzare”. Per costringere i proletari a diventare liberi lavoratori delle miniere con un contratto quinquennale dal quale pochissimi uscivano vivi date le estreme condizioni di lavoro, lo stratagemma era molto semplice. Da un lato provvedevano al reclutamento gli “ingaggiatori”, i quali commerciano col sangue e con la carne degli uomini, in realtà meno delinquenti dei loro padroni, perché è gente dai nervi logori e dai corpi rovinati dalla febbre; dall’altro, i commercianti veri e propri, in genere bianchi o cinesi.

Agli obiettori di coscienza verso questo tipo di vita obietto subito una cosa: quando non si ha denaro, quando la miseria è nera più della notte, non è facile sfuggire da quell’inferno rappresentato dai Tropici, da quella natura crudele e da quelle terre infuocate che non assomigliano semplicemente all’inferno, ma sono realmente un castigo dantesco. Bisogna esserci stati in quei luoghi per rendersi conto di quali possono essere le conseguenze di quel sole, della febbre e della solitudine, della collera furente dei Tropici. Il film Fitzcarraldo di Herzog, per me un mito, ne può offrire un indizio.

La miseria ti porta a comprare a credito, succede cioè la stessa cosa di quando t’indebiti con una banca per un tetto, un’auto, un capriccio di cui ti hanno fatto credere di non poter rinunciare. È così che si diventa i più schiavi tra gli schiavi. E come potevano pagare quelle povere genti di quelle desolate contrade, vendendo che cosa se non sé stesse? Pochi dollari di debito e per quelle famiglie le somme dovute diventano debiti enormi, incolmabili. Allora si fa avanti l’ingaggiatore, egli leggi su un pezzo di carta tante cose oscure, l’indigeno ascolta e poi deve dire sì. L’ingaggiatore promette in presenza degli anziani del villaggio che chi firma quel pezzo di carta sarà liberato da ogni debito e la sua famigli avrà ancora un anno intero di credito. Il nero, l’indio, il meticcio e anche il bianco rovinato, firmano …..

Quando abbiamo in mano un ninnolo di oro, d’argento o di platino, possiamo ben credere che quel metallo è stato strappato alla terra con il sudore, la sofferenza e il sangue di altri esseri umani che hanno avuto solo la sventura di nascere e vivere come bestiame in quei posti. Nelle miniere d’oro, d’argento o di platino, in quelle di smeraldi, nelle piantagioni di caffè, di gomma o di frutta del Sud America, un continente che crediamo sempre così pieno d’avvenire, così pieno di cose moderne e di crudeltà primitive, nel quale in troppi hanno creduto di poter praticare la caccia spietata alla fortuna.



5 commenti:

  1. Premio Internet per il post (anche letterariamente) migliore dell'anno, su tutta la rete.

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    1. prima di lusingarmi dovrei sapere il tipo di premio, spero non un viaggio a Choco.
      ;-)

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  2. Argento e platino, per rimanere in zona potrebbe racocntarci qualcosa a proposito delle miniere di stagno in Bolivia.

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    1. racconterò altre cose, ma solo quelle che so. perciò niente bolivia
      ciao

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    2. Beh, pensavo sapessi qualcosa sulla buon anima (si fa per dire) di Patiño. Ricordo di aver letto qualcosa di Galeano in proposito, pensavo che conoscessi anche tu quella storia.

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