giovedì 28 marzo 2013

L'ossimoro di Latouche



Con la natura ci comportiamo come eredi ubriachi in un’orgia; senza contare i danni che lo sfruttamento sconsiderato e insaziabile delle sue risorse causa al nostro stesso modo di pensare e rapportarci a essa. Perfino gli effetti che il capitalismo produce nella nostra psiche – primi tra tutti l’indifferenza all’equilibrio tra produzione e consumo, l’accettazione dell’impostura di certi modelli di sviluppo e di ricchezza, la familiarità con la rovina del paesaggio naturale e umano – sono devastanti. In tale senso, aveva ragione Nicholas Georgescu-Roegen, quando disse che chi crede che una crescita infinita sia compatibile con un mondo finito o è un pazzo o un economista.

E tuttavia il limite maggiore delle posizioni critiche a questo stato di cose – alludendo alle organizzazioni ambientaliste e ai movimenti “equo-sostenibili” che sostengono un approccio di decisa contrapposizione rispetto alla religione della crescita e dello sviluppo – è quello di non affrontare questi temi dal punto di vista conseguentemente politico, per cui anche una sensibilizzazione crescente sui temi ambientali e dell’equilibrio è di per sé insufficiente se non sviluppa in parallelo una critica del modo di produzione capitalistico e una proposta d’azione politica e rivoluzionaria per il suo superamento.



Anche la posizione di uno dei più noti maître à penser della decrescita, come nel caso di Serge Latouche, arriva a dire che non è possibile consumare di meno con il capitalismo (La scommessa della decrescita, Feltrinelli, p. 128). Capitalismo e decrescita sono un ossimoro, su questo Latouche è d’accordo, cioè nel riconoscere che “il continuo aumento della produzione e dei consumi mette in luce l’impatto catastrofico della logica capitalistica”. Ma non ne trae le dovute conseguenze (di ciò dirò dopo).

Tuttavia egli è convinto – testualmente – “che la causa di tutto ciò è nel nostro stile di vita fondato su una crescita economica illimitata”. In realtà è vero paradossalmente il contrario. La posizione di classe di Latouche non gli permette di ricercare, scientificamente, le cause vere della crescita economica illimitata e perciò sposta sugli effetti la dinamica causale, privilegiando i motivi meramente soggettivi senza approfondire le ragioni oggettive. Ciò gli impedisce anche di far chiarezza sui motivi per i quali i piani di rilancio economico siano accolti sempre trionfalmente poiché è in essi che viene scorta dagli economisti borghesi la possibilità del superamento delle crisi.

Egli resta dunque nelle posizioni della critica laterale – non a caso di grande successo editoriale – e non offre indicazione strategica alcuna per un salto di binario effettivo che possa cambiare radicalmente lo stato di cose presenti. Il “progetto di una società autonoma ed economa” si scontra infatti con le dinamiche stesse della riproduzione di determinati rapporti di produzione, senza affrontare i quali sostenere che “l’espressione ‘decrescita’ ha un incontestabile valore analitico e politico in economia”, è solo un modo per contestare il sistema di dominio borghese senza fargli la bua.

Proprio per tale motivo siffatte teorie vanno considerate partendo dall’aspetto terminologico del loro approccio (altri temi magari verranno affrontati in post successivi), ossia sotto l’aspetto dei concetti stessi di “equilibrio”, “sostenibilità” (che Latouche critica) e “decrescita” (che Latouche teorizza). Pertanto, prima di parlare di “decrescita”, è necessario stabilire cos’è la crescita, poiché se dobbiamo trattare una questione non marginale come questa, è bene avere con essa un rapporto almeno un tantino scientifico, pur nei limiti di un post e come mero suggerimento per un eventuale successivo approfondimento.

Latouche di suo non innova nulla di sostanziale e, infatti, riconosce che l’impianto essenziale delle teorie della decrescita sono datate. Per definire il concetto di crescita si richiama alla definizione data da Joseph Schumacher: “crescita significa produrre di più, senza tener conto della natura e delle diverse produzioni”. Ebbene, vediamo come la prima proposizioni sia null’altro che una tautologia (crescita = aumento), mentre la seconda è una stigmatizzazione di ordine vagamente morale. Pertanto, detto in breve, l’oggetto stesso della critica e poi dell’analisi di Latouche resta sostanzialmente indefinito e tale posizione è tutt’altro che casuale. Egli critica il modo di produzione capitalistico ma manca d’indagare i presupposti stessi della produzione capitalistica, ossia lo scopo precipuo, e cioè, detto in estrema sintesi, come nel modo di produzione capitalistico il processo produttivo (e lavorativo) si presenti come mezzo del processo di valorizzazione, cioè di accumulazione. Anche per quanto riguarda le questioni connesse alla distribuzione (aspetto qui non esaminato) Latouch è in piena confusione (**).

* * *

Anzitutto va stabilito che la produzione sociale non è un fenomeno isolato e concluso in sé, ma un insieme di processi produttivi collegati che si succedono nel tempo, e ognuno di essi si presenta come la ripetizione di quello precedente, come la sua riproduzione. La riproduzione sociale, oltre a riprodurre i mezzi materiali (di produzione e sussistenza) è soprattutto riproduzione di determinati rapporti di produzione e, nel caso del modo di produzione capitalistico, riproduzione dei rapporti di sfruttamento capitalistici nell’ambito dei quali non vengono prodotti solamente i prodotti materiali, ma con essi anche i rapporti di distribuzione corrispondenti. Ciò presuppone una forma sociale determinata delle condizioni di produzione.

Questo è l’approccio corretto per affrontare tali questioni, un approccio scientifico e cioè marxista, quanto di più lontano dalle teorie e dalle mode parolaie della “decrescita felice”. Scrive Marx al riguardo di un punto essenziale:

Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato.

La riproduzione sociale può essere suddivisa in riproduzione semplice e riproduzione allargata. Quella semplice è effettuata sempre sulla stessa scala. In essa, i beni prodotti sono appena sufficienti a sostituire i mezzi materiali consumati individualmente. La riproduzione semplice è tipica, ad esempio, del modo di produzione feudale.

La riproduzione allargata, invece, è quella che avviene su una scala più ampia della precedente, e, in essa, i beni prodotti, oltre a reintegrare i mezzi materiali consumati, danno anche un’eccedenza. La riproduzione allargata è caratteristica del modo di produzione capitalistico. Infatti, il plusvalore che i capitalisti ottengono sfruttando gli operai non è destinato interamente al consumo, ma una parte è trasformata in capitale e destinata all’acquisto di mezzi di produzione e forza-lavoro addizionale, necessari per riprendere la produzione su scala allargata. Tale trasformazione del plusvalore in capitale si chiama accumulazione del capitale.

Non è questa la sede per descrivere come si sia prodotta storicamente l’accumulazione, basti dire che a un certo punto i mezzi di produzione si centralizzano nelle mani di una minoranza che li trasforma in capitale. Nel divenire dell’accumulazione, la spietata concorrenza tra capitalisti provoca la progressiva centralizzazione del capitale. Solo a condizione di accumulare senza posa è possibile, per i capitalisti, migliorare continuamente le tecniche ed allargare la produzione, dunque potenziare le proprie capacità concorrenziali ed attuare una crescente centralizzazione del capitale, a scapito del piccolo capitalista che viene mandato in rovina dal monopolio.

Questa concorrenza si sostanzia in una divisione del lavoro sempre più scientifica: aumento dello sfruttamento della forza-lavoro; introduzione nel processo produttivo di tecnologie sempre più perfezionate e sofisticate, che si traduce, tra l’altro, in una costante sostituzione dell’operaio da parte delle macchine, ecc. Si crea così, a un polo, ricchezza e, a quello opposto, miseria; si genera il cosiddetto “esercito industriale di riserva”, cioè una massa permanente e crescente di disoccupati, di disperati e di spostati (questi ultimi imputano la causa fondamentale della loro condizione agli sprechi della politica e alle fasce sociali “garantite”).

Una crescita infinita sul piano dello sfruttamento capitalistico non è compatibile con un mondo finito, è fin qui siamo d’accordo con Latouche; o meglio, egli è d’accordo con noi. Ma è altrettanto vero che il processo di accumulazione e quindi di riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici segue leggi proprie che non possono essere mutate con le buone intenzioni e l’assunzione volontaria di comportamenti virtuosi, così come non c’è nulla da sperare nella resipiscenza della borghesia.




(*) Il Capitale. Critica dell’economia politica, I, cap. 21.

(**) Ma consideriamo ora i cosiddetti rapporti di distribuzione. Il salario presuppone il lavoro salariato, il profitto presuppone il capitale. Queste forme determinate di distribuzione presuppongono quindi determinate caratteristiche sociali delle condizioni della produzione e determinati rapporti sociali fra gli agenti della produzione. Un determinato rapporto di distribuzione è, di conseguenza, solo l’espressione di un rapporto di produzione storicamente determinato.
[…] I cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono, quindi, a forme storicamente determinate, specificamente sociali, del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano nel processo di riproduzione della loro vita e derivano da queste forme. Il carattere storico di questi rapporti di distribuzione è il carattere storico dei rapporti di produzione, dei quali essi esprimono soltanto un aspetto. La distribuzione capitalistica è distinta dalle forme di distribuzione che derivano da altri modi di produzione, ed ogni forma di distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata a cui essa corrisponde e da cui deriva (III, cap. 51).

9 commenti:

  1. Purtroppo questi ragionamenti non si fanno più da decenni, a qualsiasi livello, dalla campagna elettorale al livello del dibattito accademico, o del bar sotto casa. Se qualcuno, per caso, inizia a ragionare così, parte in automatico la lagna delle conseguenze del comunismo "storico", dall'URSS stato totalitario ai gulag, passando per Pol Pot, i boat people vienamiti, i morti di fame in Cina con Mao e via dicendo.
    Tutt'al più adesso politicamente il nuovo militante anti-sistema si basa sul movimento alberghiero extralusso, non sono pochi quelli convinti che solo passando per quel movimento potranno scoppiare le contraddizioni del sistema. Come dire, da Marx a Casaleggio, il nuovo "paradigma" del terzo millennio.
    Notare le due paroline "nuovo" e "paradigma", due parole che spesso ripetono i "nuovi" militanti, che osservano che chi fa analisi "marxiste" è sorpassato, vecchio, fuori dal tempo, e che non può capire nulla di quello che succede oggi.
    Ne deve passare di acqua sotto i ponti....
    Saluti,
    Carlo.

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  2. Ho aspettato stasera, con calma, la lettura di questo post, perché sapevo che esso conteneva adeguata spiegazione al fenomeno della decrescita e ne sono stato ripagato ampiamente. Grazie.

    P.S.
    Citofonare a Luca Mercalli.

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  3. Una precisazione.

    Impeccabile, è il tuo ragionamento. Come sempre, se non per un piccolo particolare, che non smentisce l'analisi, ma che invece porta ulteriore chiarezza per le successive integrazioni e per la ricerca stessa.

    Sto parlando della crescita infinita, che, appunto, è potenzialmente infinita. La crescita si basa essenzialmente su tre fattori: materia prima, popolazione, conoscenza. Essendo la materia prima limitata in un mondo limitato ed essendo il mondo sempre limitato, così di conseguenza anche l'aumento della popolazione ad un certo punto dovrà fermarsi per forza di cose, non lo invece la conoscenza e di conseguenza neanche la tecnologia.

    L'ultima variabile è quasi per "definizione" illimitata, a meno che non si pensi di aver scoperto tutto e che il mondo ormai conosce tutto. Anche prendendo in considerazione la conoscenza come un limite superiore invalicabile, la ricerca e la sperimentazione possono aumentare sempre.

    Ciò non significa che la conseguente crescita economica sarà stabile, anzi, essendo le nuove scoperte e le nuove sperimentazioni aleatorie, lo sarà anche la crescita stessa. Il vero problema è, dunque, non tanto la crescita infinita, che ribadisco, è potenzialmente infinita, ma lo è la sua stabilità, che come detto di sopra è instabile.

    Vi è di più! Anche qualora la crescita fosse stabile, non potrebbe mai espandersi esponenzialmente, quest'ultimo è un punto essenziale per mantenere in vita il metodo di produzione capitalistico senza che lo stesso entri in crisi.

    Così io non parlerei mai di "crescita infinita in un mondo finito" per sfatare certi miti della borghesia, perché non saremo mai credibili utilizzando dei luoghi comuni, anzi, farei esattamente l'opposto, proponendo, sì, il socialismo come forma di organizzazione, più naturale e più "umana", ma proprio quando concerne la crescita economica, giusto per far vedere come la stessa avrebbe molto più senso e che sarebbe molto più libera e ragionevole in un sistema in assenza della proprietà privata.

    Cordialmente.

    Tony

    PS: Sto per dire un eresia. Ti inviterei a riesaminare le teorie neoclassiche in assenza della proprietà privata. Non è una provocazione. Per quanto ciò potesse sembrare contraddittorio, uno sforzo andrebbe fatto, almeno per completezza, almeno per dimostrare la loro infondatezza. Ti accorgerai che non sarebbe uno studio inutile, anzi!

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    1. grazie Tony. penso che delle risposte esaurienti alle tue obiezioni le potresti trovare qui:

      http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_23.htm

      ciao

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    2. ???

      Le mie obbiezioni? Io non ho obiezioni da fare. Dico soltanto che la crescita economica è possibile se, E SOLTANTO SE, aumenta uno dei tre fattori: popolazione, materia prima, conoscenza.

      Ciò non significa che un aumento delle tre variabili implica necessariamente la crescita economica; in altre parole, dico che la crescita non può prescindere dalle tre di sopra.

      Dico anche che la conoscenza è potenzialmente infinita e così può esserlo anche la crescita. Sfido chiunque a dimostrare il contrario!

      Ecco, ho detto le stesse cose in un altro modo. Spero di esser stato più chiaro e non penso (fino a prova contraria) che ciò sia in contrasto con quanto mi hai invitato a leggere, ossia di quanto io conosca quasi a memoria.

      Tony

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    3. scusami Tony, non volevo dubitare della tua memoria. ciao

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  4. piccolo suggerimento di fretta...per Latouche la decrescita non è possibile in un sistema capitalistico...leggete...Breve trattato sulla decrescita serena:3.La decrescita: un programma politico

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