lunedì 11 marzo 2013

Kaputt



È sintomatico il fatto che un pugno di grandi ricchi abbia saputo convincere più del 90% della società che quanto è nel loro interesse è nell’interesse di tutti. È sintomatico come un pugno di abili comunicatori abbia saputo sfruttare il malcontento popolare per far passare l’idea che le cause della crisi non vanno cercate nelle contraddizioni del sistema economico ma negli sprechi e inefficienze della politica. Ed è del pari sintomatico come in un periodo di crisi e recessione le multinazionali della tecnologia non meno di quelle farmaceutiche e del trading riescano a realizzare superprofitti semplicemente approfittando del proprio monopolio.



Scrivevo il 6 giugno dell’anno scorso:

Pensare che sia la politica a determinare le scelte decisive è pura velleità. Un esempio: alcuni gruppi di trading, una dozzina dei più grandi gruppi, sono dotati di magazzini, flotte e stabilimenti sparsi per il mondo: Glencore controlla il 55% dello zinco e il 36% del rame mondiale; nel 2010, Vitol e Trafigura – due trading house con sede in Svizzera – hanno venduto mediamente 8 milioni di barili di petrolio al giorno, più delle esportazioni dell'Arabia Saudita; le cosiddette ABCD – ovvero le americane Adm, Bunge, Cargill e la francese Dreyfus – tengono in pugno le commodities alimentari: controllano fra il 75 e il 90% dei cereali mondiali.

Ecco chi decide il prezzo dei cereali con i quali si sfama il pianeta, il prezzo del petrolio con cui batte il cuore del mondo. 787 grandi corporation controllano l'80 per cento delle più importanti imprese del mondo e un gruppo ancora più ristretto composto da 147 gruppi controlla il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta. Alcune decine di banche e di hedge fund fanno il bello e il cattivo tempo sui mercati finanziari, compresi quelli in tempo reale nelle dark pools che nessun governo riuscirà mai a controllare. Nelle sedi importanti in cui si prendono decisioni vincolanti per miliardi di persone, la parola democrazia non viene mai pronunciata perché essa non ha semplicemente senso.

Il personale politico e/o tecnico che siede nei parlamenti o nei palazzi di governo deve anzitutto fare i conti con questa realtà internazionale, quindi con la banca mondiale, il FMI, le agenzie di rating, la commissione europea, la Bce, ecc.. Poi anche con la realtà interna, costituita da un intreccio d’interessi e di poteri grandi e piccoli, legali e illegali, che controllano il voto attraverso i media, le caste, i clan e le mille clientele. Non solo controllano il voto, ma alimentano ad arte anche le illusioni-disillusioni necessarie per farti andare a votare e far credere che la prossima volta il cambiamento sarà possibile.

L’ultimo libro di Joseph Stiglizt (che Grillo chiama nel suo blog familiarmente “Joe”), tradotto in italiano per i tipi dell’Einaudi e dal titolo Il prezzo della disuguaglianza, è incentrato prevalentemente sul tema di come risolvere la crisi fiscale dello Stato dal lato della tassazione dei profitti e dei grandi patrimoni. Egli condensa le sue proposte in otto punti a pagina 345. Tutte cose di buon senso e che possono produrre anche dei risultati dal lato delle entrate: i beni immobili non possono scappare e perciò si possono tassare; eliminare le scappatoie fiscali, tassando di più le rendite, ecc.. Tassare di più i profitti è già molto più difficile poiché le scappatoie sono molte, e soprattutto perché i monopoli farebbero presto a scaricare i maggiori oneri sui prezzi.

Comunque sia, la critica di questi accademici, così come dei loro sedicenti seguaci alla Grillo, è sempre laterale rispetto alle criticità del sistema. Ciò che sfugge è il movimento reale che produce crisi di squilibrio e crea tensioni sociali e alterazioni nel tempo psicologico delle attese. Attendersi risposte dai governi nazionali è un’illusione, poiché come scrive Sergio Romano “i mali delle democrazie europee”, sono “irreparabili” dal momento che i governi democraticamente eletti sono andati perdendo “gli strumenti necessari per governare” e “appaiono nel migliore dei casi esecutori di politiche decise altrove o fortemente condizionate da eventi che non possono controllare.

Preso atto di questo stato di cose, la soluzione non può essere quella di un ritorno all’indietro, considerato realisticamente impossibile, ma quella di una spinta in avanti verso un’Europa che assuma i caratteri di un vero Stato federale. Resta aperto il problema della legittimazione delle istituzioni europee come portato della sovranità popolare. Ma è ben chiaro come il problema della democrazia in tal modo sia fatto calare dall’alto e non nasca come naturale espressione di volontà provenienti dal basso. Si tratterebbe in tal caso di applicare un’etichetta a un prodotto già confezionato e il cui contenuto opaco è già stato deciso da altri.

Ecco quindi, per tornare al mio post di ieri, che nel momento storico in cui è finito un ciclo economico e le relative dinamiche politiche e sociali sono entrate in coma, ossia nel momento in cui il sistema non più in grado di reggere economicamente un welfare a debito, farsi strada un nuovo modello di democrazia che in realtà è una tecnocrazia neoliberista nella quale la finzione della rappresentanza ha fatto kaputt.


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