giovedì 7 febbraio 2013

Nel burrone



Mi chiedevo nel post di ieri e dell’altro ieri se il sistema sociale ed economico vigente può effettivamente considerarsi come l’unica via verso cui proseguire. In che cosa consiste – mi chiedevo retoricamente – il “progresso sociale” raggiunto se abbiamo metropoli sempre più sovrappopolate e inquinate, dove tutto è monopolio dei grandi poteri, economici, politici, mediatici, quando siamo costretti a vivere come schiavi le nostre giornate in capannoni e angusti uffici, in attesa di qualche momento sfuggevole di piacere ingannevole, spesso solitario, offertoci al prezzo dell’obbedienza e della mansuetudine?

I grandi proprietari e gestori politici di questo pianeta sono convinti, almeno nelle loro dichiarazioni pubbliche, che non c’è alternativa a questo loro sistema. Essi fingono d’ignorare – a tutela dei loro interessi – i problemi sempre più gravi di sostenibilità e i rischi concreti d’irreversibilità complessiva ai quali stiamo andando incontro a grandi passi. E anche quando non possono più ignorarli, s’ingegnano nel raccontarci frottole alle quali non credono neppure loro. Del resto, presi singolarmente, sono essi stessi prigionieri di questo sistema, dei loro stessi miti ideologici e tecnologici, dei loro trionfi mondani. Tuttavia a riguardo delle loro colpe tale attenuante non li assolve.

Anche i rimedi proposti a me pare siano lontani dalla realtà. Le contraddizioni del modo di produzione capitalistico sono già state analizzate nel merito e non è necessario aggiungere nulla in proposito, anche perché queste stesse contraddizioni o vengono in gran parte negate, oppure a esse si oppongono misure di riforma alle quali questo sistema è impermeabile. A tale riguardo ho già scritto numerose volte, per esempio, che la cosiddetta “decrescita” è fondamentalmente priva di effetti pratici su grande scala, non perché non si debbano attuare comportamenti virtuosi e parsimoniosi, diventando meno spreconi e consumistici, quanto per il fatto semplicissimo che il processo di accumulazione del capitale segue una razionalità opposta a tutte le mistiche sottoconsumistiche.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una vera rivoluzione, antropologica però. In effetti noi cosa vogliamo? Più denaro, più merci, più gadget costosi. I nostri modelli di riferimento, per quanto diciamo di detestarli, sono quelli della réclame. Assomigliamo molto alla plebe dell’antica Roma: le grandi disuguaglianze non venivano mantenute solo mediante la distribuzione gratuita di viveri, il circo e l’arena non erano meno necessari e gli spettacoli vennero sistematicamente organizzati in misura incredibile. Anche allora le plebi vivevano alla giornata nelle gioie ingannevoli delle più ingegnose brutalità. Basta leggere Seneca.

A noi pensa la televisione a intrattenerci e sviarci, promovendo violenza e banalità erotiche, coglionaggini politiche che devono coprire la natura limitata dei presunti successi di questo sistema. Proprio gli stessi mezzi di comunicazione e di scambio che hanno reso possibile al capitale la conquista del mondo, stanno accelerando i processi di decadimento. Il commercio non è soltanto uno smercio di prodotti, l’ideologia delle élite che giocano a rubamazzo sul tavolo dell’economia finanziaria, dello sfruttamento delle risorse, delle sperequazioni più sadiche, ha prevalso e domina dappertutto. Non si tratta di farne una questione morale, ma di porre dei problemi concreti all’analisi per trovare delle soluzioni, del resto, ripeto alla nausea, irresolubili nell’ambito di questo sistema economico. E l’unica soluzione che ci si pone davanti è un salto di binario per non finire nel burrone. Eppure è lì che finiremo. 

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