lunedì 4 febbraio 2013

Divagazioni del lunedì



Roma, marzo 1920. Nello studio del presidente del consiglio dei ministri Francesco Saverio Nitti (non Giolitti, come scrive erroneamente Wikipedia) è presente il presidente della Fiat, Giovanni Agnelli. La sua fabbrica torinese è occupata dagli operai armati di qualche fucile, una mitragliatrice e un’autoblindo. Il padrone della Fiat chiede al primo ministro di far intervenire l’esercito. Nitti risponde: “A Torino è di stanza il 7° rgt. artiglieria da campagna, ordinerò dunque di prendere posizione e aprire il fuoco sulla Fiat”. La battuta ironica del primo ministro trovò l’effetto cercato, Agnelli capì l’antifona e si rese conto che sparare sugli operai e altra cosa rispetto di far fuoco con l’artiglieria sulla fabbrica! Nitti soggiunse: “Vede, non dobbiamo precipitare, bisogna dare tempo al tempo”.




Le rivolte operaie del 1920 rientrarono e l’anno stesso (settembre) seguirono ampi accordi tra sindacati e padronato. Gli industriali e le classi dirigenti però non dimenticarono, e invece d’indirizzare la società italiana lungo direttrici di sviluppo e d’inclusione sociale, preferirono seguire la strada della reazione e della repressione, della dittatura di classe più sfacciata. Furono organizzati e finanziati i primi sindacati fascisti, la neonata Confindustria corrispose a Mussolini una cifra enorme per la cosiddetta marcia su Roma e anche gli agrari non stettero fermi e foraggiarono le squadre fasciste. Tale episodio, pur nel suo primitivismo, è ben illustrato nel film Novecento di Bertolucci (un disastro filologico non solo dal punto di vista storiografico), allorquando gli agrari radunati in chiesa versano ognuno la propria offerta a favore del capo degli squadristi locali (impersonato da un mitico Donald Sutherland).

Che cosa cercavano i padroni nel fascismo? Un partito d’ordine che mettesse fine agli ultimi decenni di turbolenze sociali e allontanasse la grande paura padronale. Insomma, quello che si tentò poi di fare quasi mezzo secolo dopo con le bombe e la strategia della tensione. Tuttavia non bastava la volontà del padronato per dare via libera a un governo fascista, era necessario l’avvallo della monarchia, quindi della borghesia statale (che non va mai confusa semplicemente con l’amministrazione statale, essendo la prima una fazione di classe e la seconda una categoria sociale) e dell’esercito. E c’era bisogno del consenso del Vaticano, il quale giocò un ruolo importantissimo nella vicenda dell’avvento del fascismo, cosa che oggi non si racconta più. Sullo sfondo, per dirla con le parole dello stesso De Nittis, “la lotta dei gruppi bancari che volevano l'uno contro l'altro il predominio dello Stato”.

In sintesi, la canaglia clericale – in accordo con i soliti gruppi industriali e finanziari – si era opposta all’approvazione della legge del luglio 1920, che doveva entrare in vigore nel luglio del 1921, sulla nominatività dei titoli e altre misure fiscali. La legge era molto temuta dal Vaticano poiché aveva la quasi totalità dei suoi investimenti in titoli al portatore, così com’era temutissima la norma fiscale sulle trasmissioni ereditarie tra persone non legate da vincoli di sangue. Fu questa opposizione il motivo che «obbligò – secondo Ernesto Rossi – Giolitti a presentare le dimissioni». Il 9 giugno 1921, poco prima di lasciare, il suo gabinetto promulgò un decreto contenente norme per la registrazione dei titoli. Con il nuovo governo presieduto da Bonomi, tale norma fu subito sospesama non abrogata. Entrambi i successori di Giolitti, Bonomi e poi Facta, non cancellarono del tutto le misure giolittiane.

Nella crisi che succedette alla caduta di Giolitti e fino all’avvento del fascismo, il Vaticano si oppose a un possibile nuovo governo presieduto da Giolitti, innanzitutto con il veto imposto al Partito popolare di aderirvi. Il costo di tale atteggiamento fu la paralisi parlamentare e, infine, la crisi istituzionale. L’appoggio e la partecipazione dei clericali al primo governo Mussolini fu determinante. A onore del vero, bisogna dire che lo stesso Giolitti scoraggiò il suo gruppo di partecipare ad un governo con popolari e socialisti in chiave antifascista, preferendo un governo con i fascisti, per poi, credeva, poterli manovrare. Ma vi erano forze ben più potenti e decise che puntavano a un governo “forte” con a capo Mussolini. Questi, pochi giorni dopo il suo insediamento, il 10 novembre 1922, abrogò la legge sulla nominatività dei titoli obbligazionari.

Come si vede da questo esempio, interessi economici dominanti, ieri come oggi, sono sempre alla radice delle questioni sociali e politiche. E quali sono tali interessi economici dominanti se non quelli propri della borghesia e dei ceti sociali a essa alleati?

Nel secondo dopoguerra, agli interessi convergenti della borghesia e del pretume nostrani, si sovrapposero con forza decisiva quelli strategici dell’alleanza atlantica. Essi determinarono la fine della collaborazione tra i partiti antifascisti, ossia, per meglio dire, tra il partito cattolico filoatlantico e i partiti della sinistra riformista. Dopo la vittoria elettorale del 1948, iniziò la dittatura democristiana che sarebbe durata per un quarantennio, controllando direttamente imprese pubbliche di ogni tipo, fonte cospicua di finanziamento e rastrellamento di voti. Perché la definisco dittatura? Perché le libere elezioni rappresentarono di lì in avanti solo una farsa, esse funsero da foglia di fico a una situazione di fatto che vide, come decenni dopo Berlinguer riconobbe in un suo noto articolo sulla rivista Rinascita, l’impossibilità per i partiti di sinistra di poter – se vinte le elezioni – costituire un proprio governo.

E anche se tali partiti riformisti avessero ricevuto il placet americano e poi quello vaticano per entrare direttamente nella stanza dei bottoni, essi non si sarebbero comportati molto diversamente dalla Dc, come dimostrò il Psi ben prima di Craxi. Quella di nominare personale di fiducia del partito alla direzione degli enti pubblici e semipubblici, di società a partecipazione statale, banche e apparati, partendo dai livelli nazionali e giù giù fino a quelli locali, è una partica ben consolidata e dalla quale nessun partito politico può dirsi del tutto estraneo.

Senza voler riassumere la storia nazionale recente ed evitando soprattutto di addentrarmi nella lotta vivissima tra consorterie, capitale privato e quello pubblico, vorrei porre in evidenza un fatto, ossia che chi sposa il punto di vista della borghesia sostenendo che la “democrazia” è il migliore dei sistemi tra tutti, sorvola sul fatto che la democrazia in definitiva non è altro che la dittatura di una classe sulle altre. Per parte sua, lo Stato, tra l’altro, assume la funzione non secondaria di redistribuire, attraverso la fiscalità generale, il plusvalore secondo criteri smaccatamente di classe. Tutti i più variopinti sistemi statuali e sociali moderni che si definiscono democratici hanno in comune il fatto che essi stanno sul terreno della società borghese, e ciò condiziona il concetto stesso di democrazia. Anche i cosiddetti sistemi socialisti che a modo loro si definivano democratici (democrazie popolari), in realtà riproposero nei termini di una gerarchia partitica e statale i meccanismi del dominio degli interessi particolari di una minoranza sul popolo.

A riguardo di questo, è necessario osservare sulle vie generali che per avere il comunismo non basta abolire i diritti del borghese, del proprietario borghese. È vero e va da sé che la realizzazione di una società senza classi va di pari passo con l’eliminazione del potere della classe sociale che soggioga le altre, ma ciò ha per conseguenza che il comunismo non può avere – come taluni intendono – il significato di togliere la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali, ma soltanto quello di abolire la facoltà di una determinata classe sociale di valersi di tale appropriazione per asservire il lavoro altrui. S’è vero per conseguenza che la libertà va di pari passo con la liberazione delle persone dal giogo della proprietà privata dei mezzi di produzione e dal bisogno indotto dalle condizioni della produzione capitalistica, tuttavia tale premessa imprescindibile non è di per sé sufficiente a garantire a tutti uguale libertà laddove il potere di una élite – ricostituitasi in una dimensione autoritaria e burocratizzata – continui a essere separato e sovrapposto alla società.

Tale riflessione non deve però indurci nell’errore di considerare desueto il concetto di “dittatura del proletariato” e liquidarlo come un reperto “illiberale”. Facciamo un piccolo passo indietro. Nel Novecento la borghesia ha risposto alla propria crisi e alla minaccia della rivoluzione con la reazione e quando necessario con la nascita dei fascismi. Prendiamo ad esempio la storia della “più grande democrazia del mondo”, essa è costantemente mistificata dai mezzi di comunicazione di massa. Il fatto che alla Casa bianca sieda un meticcio non deve trarre in inganno, né il fatto che Lincoln abbia liberato gli schiavi del Sud per farne dei salariati e per raggiungere altri obiettivi politici. Gli Usa sono stati e sono ancora un paese ove vige un rigido apartheid razziale e di classe. La stessa cosa noi vediamo succedere in Sudafrica laddove la fine ufficiale dell’apartheid razziale non ha però posto fine agli antichi problemi di segregazione e alla dittatura di classe ben esercitata non solo dai bianchi ma anche della borghesia nera. Vedrò di ritornare in altri post su tale questione.

4 commenti:

  1. Il nome del capo del governo nel marzo 1920 era Francesco Saverio Nitti, non de' Nittis. Lo so perché era un mio conterraneo ma soprattutto perché c'è una via intitolata a lui vicino casa mia :)

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    1. esatto e mi scuso. di nitti oltrettutto o letto quasi tutto, credo, e già ho parlato in post precedenti. dunque a cosa è dovuto il lapsus? è in corso a padova in questo periodo una mostra dedicata al pittore de nittis del quale alle mie spalle, mentre sto scrivendo ho una riproduzione di un suo quadro

      meno male che qualcuno legge da sveglio le mie cazzate. grazie

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  2. Bellissimo post, come sempre del resto, certo "o letto" nei commento fa rabbrividire :))

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    1. licenza poetica post prandiale in velocità :)
      e forse non hai mai visto quando scrivo "anno" avuto
      lo faccio apposta per vedere se siete attenti o distratti

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