venerdì 1 giugno 2012

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A ben vedere la nostra condizione è molto simile a quella dei servi della gleba, siamo legati a un’impresa e al suo buon andamento, ossia al suo incerto futuro, tenuti a risiedere nello stesso spazio, lo stesso circuito di abitazioni, fabbriche e uffici. Non è casuale quindi che c’incontriamo negli stessi supermercati, ma anche quando partiamo per un viaggio c’incrociamo negli stessi caselli, nelle stesse stazioni ferroviarie e nei medesimi aeroporti. Solo continuando a lavorare la nostra vita a credito può continuare.

Andrò un po’ in giro per 4-5 giorni, a vedere ciò che resta di certe zone della penisola dopo le devastazioni dei nuovi barbari e prima dell’arrivo delle tendopoli della protezione civile. Si racconta che a Roma, per esempio, fino al IX secolo esistessero ancora molti chilometri di porticato, quasi una città intatta. Del resto né i Goti e nemmeno i Vandali erano ditte di demolizione, interessati invece prevalentemente a razziare quello che si poteva trasportare. Il peggior saccheggio fu perpetrato comunque durante la guerra gotica, sotto Giustiniano, nel VI secolo (funzionavano ancora le terme!).

Dopo le invasioni, ci pensarono i “barbierini”, cioè i cristiani a demolire. Architetture e monumenti della classicità furono in gran parte distrutti o reimpiegati fin dal IV secolo, ed infatti è rimasto in piedi poca cosa, per esempio gli anfiteatri, come a Roma, Verona o Pola, a testimonianza del martirio cristiano, fondato in larga parte su leggende ex post. Si trattava di eliminare la contraddizione interna tra società divenuta cristiana e uno Stato solo formalmente pagano: non si poteva cominciar meglio che dai monumenti, edifici e opere d’arte che rappresentavano il passato, il “paganesimo”.

Per chi sfangava la giornata non cambiò granché, anzi, non furono pochi i proletari che dopo la loro manomissione (manumissio) si trovarono letteralmente a vivere di carità e quindi di sottomissione ai vescovi.

In una nota alla fine del primo capitolo del Capitale, Marx osserva:

«Colgo l'occasione per confutare brevemente l'obiezione che mi è stata fatta da un foglio tedesco-americano quando è apparso il mio scritto Zur Kritik der politischen Oekonomie, 1859. Essa diceva che la mia opinione che un modo di produzione determinato, e i rapporti di produzione che ogni volta gli corrispondono, in breve "che la struttura economica della società è la base reale su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, alla quale corrispondono forme di coscienza sociale determinate", che "il modo di produzione della vita materiale [materiell] sia in genere condizione del processo politico e spirituale della vita" – che tutto questo sia certamente esatto per il mondo d'oggi dove dominano gli interessi materiali, ma che non lo sia né per il medioevo, dove domina il cattolicesimo, né per Atene e Roma, dove domina la politica. In primo luogo ci si stupisce che a qualcuno piaccia presupporre che siano ancora persone all'oscuro di questi luoghi comuni, a tutti ben noti, sul medioevo e sul mondo antico. Chiaro è che né il medioevo poteva vivere del cattolicesimo né il mondo antico della politica. Le modalità in cui essi si procuravano da vivere spiegano viceversa perché era lì la politica, qui il cattolicesimo, a giocare il ruolo  principale. Basta del resto anche poca dimestichezza per esempio con la storia della Roma repubblicana per sapere che la storia della proprietà fondiaria ne costituisce la storia arcana. D'altra parte già Don Chisciotte ha scontato l'errore di ritenere la cavalleria errante egualmente compatibile con tutte le forme economiche della società» (MEOC, XXXI, p. 93).

A presto.

2 commenti:

  1. Ciao, buon viaggio e conoscendoti... buona inchiesta!

    gianni

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  2. Grazie Olympe, hai sintetizzato molto bene concetti per me difficili da esprimere ma che sento e naturalmente condivido.
    Stefano

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