lunedì 16 aprile 2012

Considerazioni su un articolo di François Leclerc du Tremblay


Non c'è niente di nuovo sotto il sole (Qoèlet).

Nel post precedente scrivevo delle “armi segrete” della borghesia, ossia delle armi della propaganda a sostegno della famigerata “crescita”. Difficile leggere sui media, apertis verbis, che la guerra è persa e a pagarne le conseguenze saranno i soliti noti. Qua è là si può leggere che le armi dei sacrifici e le misure di taglio della spesa, unilaterali, sono solo delle pezze che non riusciranno mai a coprire lo sbrego e anzi lo allargano se non interviene qualche deux ex machina variamente denominato.

Ieri sera leggevo su Il Sole 24ore un articoletto dal titolo eloquente: L'araba fenice e le misure per la crescita. In esso, Giuliano Amato, l’eminenza grigia di Craxi, sostiene che “le riforme di struttura producono i loro effetti a una qualche distanza di tempo e ad un'economia in affanno non possono dare né le concrete prospettive di investimento su cui formare le aspettative future, né le risorse di cui può aver bisogno per non fermarsi nell'immediato”. Di questo fatto penso siano consapevoli in parecchi.

Quindi, prosegue Amato, per vincere la guerra della “crescita” non bastano tasse e interventi di "ossigenazione" (pur indispensabili le prime ma per ora assenti i secondi), perché “sarebbe illusorio pensare che potremmo uscire grazie a ciò da una recessione che ha investito l'intera eurozona e che solo a quel livello può essere efficacemente affrontata”. È invece essenziale che molto, anzi moltissimo, debba “essere fatto a livello europeo”.

Si continua a coltivare, almeno a livello pubblicistico e di propaganda, l’idea e la speranza – come scrivevo sabato scorso – che singoli paesi o aree economiche quali l’Europa, nell’àmbito della competizione e della concorrenza globale, siano effettivamente in grado di decidere quantità e qualità del proprio sviluppo secondo decisioni politiche autonome.  E che non ne sia intimamente convinto nemmeno Amato, credo si possa desumere da quest’altra osservazione: «l'eurozona non ha portato alla convergenza delle economie che ne fanno parte, ha portato piuttosto alla convergenza di grossi afflussi di capitale dall'Europa più benestante alle periferie e ha alimentato così abnormi bolle speculative e forti disavanzi delle bilance commerciali».

Ciò che Amato non dice sul punto decisivo, è che non si tratta solo di “grossi afflussi di capitale” che vanno ad alimentare la speculazione finanziaria in generale e quella sui titoli di stato dei paesi dell’eurozona in particolare; e tali afflussi speculativi sono solo in parte responsabili dei “forti disavanzi delle bilance commerciali”. Si tratta piuttosto dell’enorme esodo di capitali industriali che hanno preso la via dell’estero per reggere la concorrenza e soprattutto a caccia di un più elevato saggio del profitto.

Pertanto, i motivi di doglianza vanno trovati invece nella deindustrializzazione e nell’emigrazione degli investimenti produttivi che hanno origine nel sistema stesso, nelle sue leggi e nei processi del modo di produzione capitalistico. La globalizzazione, cioè il dominio su scala globale del capitale multinazionale e l’affermazione della borghesia imperialista, non è semplicemente una “politica”, ma un tratto specifico del capitalismo in questa fase storica.

La conseguenza di tali dinamiche storiche è sotto gli occhi di tutti, laddove gli strati di piccola e media borghesia sono sospinti verso la proletarizzazione e la perdita progressiva di status e di potere politico. Questi settori piccolo-borghesi si estendono fino a includere i piccoli capitalisti, molti dei quali di origine operaia e artigiana, piccoli e medi commercianti e proprietari agricoli, professionisti, tecnici, impiegati.

Questi strati in via di proletarizzazione non trovano più forze politiche in grado di rappresentarne gli interessi di fronte alla forza del grande capitale e ai cambiamenti rapidi e cruenti indotti dalla nuova fase economica e non solo perché, come ritengono in molti, i partiti siano più corrotti di un tempo (anzi, il drenaggio dei fondi pubblici è diventato sempre più incerto dopo le “liberalizzazioni” nel settore pubblico), ma perché c’è sempre meno trippa per gatti e ciò che ha rilievo per l’economia l’ha inevitabilmente anche sulla sovrastruttura politica.

I partiti non sono più in grado di offrire risposte e protezione alle aspirazioni politiche ed economiche della piccola e media borghesia, la quale è costretta a vivere, subordinata ai movimenti di valorizzazione del capitale multinazionale, tra precariato e disoccupazione, insolvenza statale e crisi del credito, una contraddizione conflittuale inedita. Così è entrato in crisi sia il monopolio politico sulla classe operaia da parte dei partiti di “sinistra” e lo stesso sistema tout court di rappresentanza parlamentare, nel quadro di trasferimento dei processi decisionali dai parlamenti nazionali alle sedi continentali.

Lasciamo a D’Alema le chimere di “un pensiero europeo dei progressisti” e la coltivazione dell’idea che basti un progetto politico di “dimensione europea”. La grande borghesia europea e atlantica conosce bene la situazione reale, anche se la legge con la propria lente ideologica deformante, e dovrà prendere delle decisioni se la ristrutturazione politica europea non darà i frutti sperati e vedrà che la propaganda non basta a contenere i movimenti di piazza.

8 commenti:

  1. Analisi condivisibile.

    Ma come muoversi? Cosa proporre a quei tanti che ora sono disposti a non precludere niente?

    Una volta compreso il piano strategico "altrui", che fare? Torre in d5? Pedone in h4? Arrocco lungo? Arrocco corto? Perché l'orologio scorre, e si può perdere non solo per uno scacco matto subito, ma anche per la fine del proprio tempo.

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  2. Temo che, se la propaganda non dovesse bastare, un Bava Beccaris lo si possa trovare con facilità. Come si trova un Amato o un D'Alema. Più difficile incontrare un Lenin, ma mi accontenterei di un Gramsci, ma anche di un Togliatti. Anche, mi voglio rovinare, di un Berlinguer.
    Conscrit

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  3. a differenza della partita a scacchi non sappiamo quanto sia il nostro tempo e forse non siamo nemmeno in finale di partita ache se probabilmente abbiamo commesso molti errori in apertura. bisogna tener conto dell'esatto valore dei pezzi, il quale dipende dalla loro potenzialità dinamica, dalla loro posizione in un determinato momento della partita.

    tuttavia, come osservava Sancho, finché dura la partita, ogni pezzo ha il suo particolare compito; terminato però il giuoco, tutti si mescolano fra loro, si uniscono, si confondono e vanno a finire in una borsa che è come quando la vita va a finire in sepoltura.

    Giorno per giorno, Sancio — disse don Chisciotte, — ti vai facendo meno scemo e più giudizioso.

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  4. Molto condivisibile questa analisi.
    Ieri sera ho sentito De Bortoli, mi pare durante la trasmissione “In Onda” su La7, affermare, in una sorta di “amichevole dissidio” con Sapelli, che in Italia abbiamo sbagliato in questi dieci anni a considerare l'euro una specie di “club di mutuo soccorso”, che avrebbe tirato su la nostra economia senza chiederci poi di pagare dazio. L'euro – spiegava De Bortoli – è invece di per sé uno spietato moltiplicatore della competizione, e se non abbiamo saputo adeguare la nostra economia agli standard richiesti da questa “lotta darwiniana” (o meglio, “spenceriana”) per la sopravvivenza del più forte, è soltanto colpa della nostra miopia, o della malafede di certi politici che promettevano il Paese dei Balocchi a costo zero. Insomma, abbiamo preteso di entrare nel “club esclusivo dei competitivi” illudendoci di poterci poi sottrarre alla necessità di pagare il prezzo d'ingresso...
    Al di là dei chiari intenti pedagogico-liberisti del discorso di De Bortoli, c'è qualcosa di vero in questa ricostruzione: l'idea del “fare le nozze coi fichi secchi” contraddistingue da sempre le scelte di un certo ceto dirigente in Italia (talvolta anche con esiti tragici o sanguinosi: basti pensare alla “politica coloniale” da Crispi in poi...); il fatto è che poi, quando puntualmente si presenta la necessità di pagare i costi (i danni...) derivanti da quelle decisioni azzardate/velleitarie, il conto viene presentato via via ai salariati, alla piccola borghesia, ai piccoli imprenditori. Il grande capitale ha sempre robusti paracadute, e può permettersi perciò di osare fughe in avanti, perché comunque le conseguenze negative sono agevolmente scaricate altrove.

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  5. Non condivido.

    A me pare che siamo proprio alla fine del mediogioco, quando oramai sono chiari punti deboli e di forza nella struttura complessiva, e la dinamica del gioco è pronta a collassare nel finale di partita, ove senza qualche intuizione, la partita è vinta da chi è dall'altra parte se procede senza sbavature tecniche.

    Ammesso (e non concesso) il 2013 come termine ultimo per muovere un pezzo. Cosa fare? Perché può darsi che chi ora è disposto ad ascoltare, tra 12 mesi non lo sia più.

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  6. Il sistema capitalista globalizzato vede lo scontro di attori protagonisti vecchi e nuovi di dimensione continentale. L'Europa è l'unica potenza imperialista che sui presenta sul campo di battaglia economico-finanziario globale con forti problemi di disomogeneità interna e leadership. Con l'Inghilterra ancora sedotta dal suo isolamento e dalle sirene atlantiche, con Parigi sempre più gamba zoppa dell'asse renano, il bastone di comando è oggi nelle mani di Berlino e Francoforte, che un po' ciecamente fanno gli interessi dell'unico paese con saldo attivo imponendo politiche recessive e antipopolari nella periferia mediterranea. Proprio dalla debole Europa è necessario che parta un forte movimento di critica e contestazione al pensiero unico. Un movimento ancora privo di organizzazione e guida: a working class hero is something to be.

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  7. Quoto Popinga. Per questo insieme ad altri stiamo dando vita ad un primo maggio alternativo, di classe, senza bandiere se non quelle rosse, non a ricasco di sindacati e partiti, rintronati dalla musica del concertone. Un primo maggio che dia vita a una nuova stagione di lotta anticapitalista! Chiunque fosse interessato ci trova a Roma, in Piazza San Giovanni, nell'area centrale del parco davanti al concertone, ma ben lontano dalle casse (e dai soldi) dei sindacati.
    a pugno chiuso!

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