lunedì 2 gennaio 2012

Plusvalore e profitto


Un lettore del blog mi segnala questo saggio pubblicato in rete dal titolo Dietro e oltre la crisi, di Guglielmo Carachedi dell’Università di New York, chiedendomi un commento. A mio avviso Carachedi più che “dietro” la crisi avrebbe dovuto porsi davanti al testo marxiano da cui dice di prendere le premesse, ossia il terzo libro, terza sezione, tredicesimo capitolo de Il Capitale.

Scrive Carachedi illustrando la legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto: «Siccome solo il lavoro crea valore, meno forza lavoro impiegata significa meno (plus)valore creato dai capitali ad alta tecnologia». Una frase, a mio avviso, di cui s'intende il senso ma che zoppica e vedo di spiegare perché.

Carachedi deve mettere anzitutto d’accordo ciò che sostiene tanto solennemente ma anche contraddittoriamente: è la forza-lavoro a creare valore, oppure sono i “capitali ad alta tecnologia” a “creare” più o meno “(plus)valore”? Delle due, l’una. Non avendo dubbi sul fatto che egli intenda vera la prima affermazione e cioè correttamente che solo la forza-lavoro impiegata produttivamente crea valore, la sua affermazione sul “meno (plus)valore creato dai capitali ad alta tecnologia”, potrebbe prestarsi ad equivoci, di cui non si avverte il bisogno soprattutto da quando furoreggia Diego Fusaro.

Marx, in premessa della sua legge, scrive che il “saggio del plusvalore si esprime in saggi del profitto assai diversi a seconda della differente grandezza del capitale costante  e quindi del capitale complessivo”. Inoltre, postula che il saggio del plusvalore resti costante pur in presenza – a causa appunto del mutato rapporto tra capitale costante e capitale complessivo – di un saggio del profitto decrescente. È vero quindi che meno capitale variabile in rapporto al capitale costante determina saggi di profitto diversi, ma non tout court meno (plus)valore (con o senza parentesi).

È infatti subito dopo Carachedi scrive: “Si noti che è il tasso di profitto e non la massa dei profitti che cade”. Domanda: perché rappezzare in tal modo la faccenda quando Marx è invece così preciso e attento nell’impiego della propria terminologia e quindi nel non mischiare categorie e concetti diversi? Perché parlare di caduta del plusvalore e subito dopo tirare in ballo la caduta del saggio del profitto, quasi fossero sinonimi? Il plusvalore e il suo saggio sono concetti che esprimono determinazioni completamente diverse da quelle di profitto e del suo saggio.

Il saggio di plusvalore mostra in quale proporzione il nuovo valore creato dalla forza lavoro nel processo produttivo è distribuito tra l’operaio e il capitalista. Per questa ragione indica anche il saggio di sfruttamento della forza-lavoro. La formula del saggio di plusvalore mostra che è solo la forza-lavoro a produrre il plusvalore.

Gli economisti borghesi, invece, identificano il saggio di plusvalore con il saggio del profitto e, così facendo, lasciano credere che il plusvalore sia prodotto da tutto il capitale, e non invece dalla sola sua parte variabile, vale a dire dal lavoro non pagato dell’operaio.

E questo era il punto fondamentale, se vogliamo terminologico e metodologico, che m’interessava chiarire. Per quanto riguarda la caduta tendenziale del saggio del profitto, Marx scrive:
« […] si è però dimostrato che, in virtù di una legge della produzione capitalistica, lo sviluppo di quest’ultima è accompagnato da una relativa riduzione del capitale variabile i rapporto al costante, e quindi anche al capitale complessivo  messo in movimento.
Ciò significa soltanto che lo stesso numero di operai e la medesima quantità di forza- lavoro, divenuti disponibili tramite il capitale variabile di una certa grandezza, divenuti disponibili per mezzo di un capitale variabile di una data entità, in conseguenza dei particolari metodi di produzione che si sviluppano nella produzione capitalistica, mettono in movimento, impiegano, consumano in maniera produttiva durante lo stesso periodo di tempo una massa sempre crescente di mezzi di lavoro, di macchine e di capitale fisso di ogni genere, di materie prime e ausiliarie, e per conseguenza un capitale costante di valore sempre maggiore.
Questa progressiva diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto a quello costante, e per conseguenza a quello complessivo, è identica al progressivo elevarsi della composizione organica del capitale complessivo considerato nella sua media.
Del pari, essa non è altro che una nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per l’impiego crescente del macchinario e di capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore.
Insomma, l’impiego corretto dei termini e perciò dei concetti in Marx è fondamentale. E anche sul concetto di valore d’uso il nostro professore newyorchese a me sembra assai disinvolto, ma forse sarà per un’altra volta.

N.B. La citazione marxiana è tratta dall’edizione Einaudi, identica nel brano citato a quella degli editori Riuniti, leggermente diversa però da quelle reperibili su internet, formalmente un po’ “infedeli” rispetto alle citate traduzioni italiane.

1 commento:

  1. La ringrazio molto per il suo commento e per aver chiarito alcuni punti. Questo documento, comunque, allegria terminologica a parte, ritengo sia utile per illustrare agli oltranzisti neoliberisti e fanatici del mercato (quelli in buonafede ovviamente) che stiamo andando inesorabilmente verso il tracollo. I grafici e i dati mi sembrano molto accurati.
    Saluti!

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