martedì 31 gennaio 2012

Due strade, forse nessuna


Scrive il segretario generale CGIL, signora Susanna Camusso, a Eugenio Scalfari in risposta al suo editoriale di domenica:

La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall'inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d'acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.

Cosa significa? Che diminuendo i salari diminuiscono i consumi interni e quindi si assiste a una minore attività produttiva. Questo è vero, ma non lo è altrettanto come “ragione profonda della crisi che attraversiamo”. Su questo dirò dopo aver letto quest’altra affermazione della Camusso:

La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei "capitalisti", a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.

E questo è un altro elemento di verità, ma anche in questo caso si tratta di una concausa, non della “ragione profonda della crisi che attraversiamo”. La ragione profonda, se ci vogliamo esprimere così, è la crisi che investe il processo di accumulazione capitalistico, laddove i capitali, piccoli e grandi, per sottrarsi alla morsa della caduta dei profitti e della perdita di quote di mercato a causa degli accordi internazionali sul commercio e della concorrenza dei cosiddetti BIRC, sono obbligati: 1) a trasferire la produzione nelle aree di maggior sfruttamento della forza-lavoro; 2) a cercare, lasciando la produzione, la scorciatoia della speculazione finanziaria, fenomeno non nuovo ma diventato esorbitante.

Scrive ancora la Camusso: Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l'idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.

Qui le ragioni diventano politiche, ma in realtà seguono scelte economiche. Si approfitta della crisi, del debito, della situazione di smarrimento e idiozia politica creata ad arte con l’uso dei media, per regolare i conti con la forza-lavoro, marcando la manovra con le parole d’ordine di produttività, flessibilità e competitività. Come se nella realtà europea e italiana fosse possibile tornare indietro di mezzo secolo senza causare gli sconquassi sociali dei quali stiamo vedendo solo i primi effetti.

La Camusso queste cose le conosce bene (“Il coro sull'importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia”), o almeno si spera. Ma non può dirle perché mettere in luce le contraddizioni fondamentali del capitalismo è considerato tabù. Almeno al suo livello e ancora per un po’.
Nella sua replica, Scalfari può fare agio sulle reticenze della Camusso in capo alle ragioni della crisi, naturalmente svolgendole del suo punto di vista: Le cause sono l'esplosione del debito, la finanziarizzazione dell'economia. L'emergere di nuovi attori nell'economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva. […] Nella divisione internazionale del lavoro, nell'inesistenza dei diritti sindacali nei Paesi nostri concorrenti, nell'inesistenza dei diritti di cittadinanza in quegli stessi Paesi, nella povertà di milioni e milioni di persone nell'Africa centrale e settentrionale, decisi ad affrontare la morte pur di sbarcare sulle sponde mediterranee dell'Europa opulenta.

I lavoratori e le imprese europee (e italiane) debbono fronteggiare le esportazioni cinesi, coreane, indonesiane, prodotte a costi molto più bassi dei nostri e non si tratta più di pigiamini di seta o di chincaglieria di varia amenità, ma di alte tecnologie dove l'invenzione si accoppia con bassissimi costi della manodopera. Come si impedisce in un'economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? La Camusso pensa di blindare l'Europa (e l'Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? E come pensa che quei Paesi reagirebbero se non rispondendo in egual modo alle nostre esportazioni? Come pensa di fermare la de-localizzazione delle imprese italiane che hanno convenienza a portare all'estero interi settori delle loro lavorazioni? L'esempio di Marchionne non insegna nulla? Vuole la Camusso generalizzare al sistema Italia la politica ideologico-sindacale della Fiom?

Eccolo qui il nodo. Ed è un nodo gordiano che non si può sciogliere se non tagliandolo con la spada. Ma questo non può essere il compito principalmente del sindacato. Il riformismo è fallito, restano aperte due sole strade. E, forse, al punto in cui siamo, nessuna.

7 commenti:

  1. :( che guaio! Che ne sarà dei Nostri ragazzi? E'questo che più mi angoscia, saranno presto o tardi chiamati alle armi? E' da molto che vado ripetendo che la politica di Hitler è rimasta nel cuore dei potenti.

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  2. Oggi come non mai SOCIALISMO o BARBARIE.

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  3. Il sospetto

    In USA, dopo vari massacri di diritti e di salari, si assiste a fenomeni sporadici di riallocazione di segmenti di produzione dal messico al territorio nazionale.

    Gli sconquassi sociali, inevitabili, come Lei sottolinea, per ora, vengono riassorbiti o tenuti in scacco, in europa come negli usa.

    La velocità con cui vengono distrutti diritti e salari, erosi e privatizzati spazi pubblici, è impressionante.

    Che in europa e usa si possa arrivare ad una situazione in cui la forza lavoro possa diventare competitiva con i bric o turchia, non mi sembra più così impossibile. Soprattutto pensando ad un mix di ridimensionamento costi e diritti forza lavoro, e ristrutturazioni pesanti, con nuove tecnologie di produzione e di prodotti. Il tutto continuando pure ad estorcere il pizzo che la finanza esige sui debiti.

    Quale differenza è rimasta tra i i diritti e i salari di un cinese e di un greco? Fatte salve le rispettive specificità, si stanno dirigendo verso la parità alla velocità della luce.

    Rispetto a questa velocità i tempi di reazione sembrano biblici, e i modi ancora totalmente inadeguati. Per ora.

    Vedremo un altro ciclo prima della prossima crisi?

    Il sospetto comincia a rodermi

    gianni

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  4. Commento eccellente!

    Aggiungo. Per motivi che elenchi il controllo dello Stato sarebbe impossibile, vuoi per la corruzione dall'estero per farlo cadere, vuoi per l'insostenibilità del carrozzone statale verso la ricerca e sviluppo. Premesso che se di ricerca e sviluppo vogliam parlare!

    Non resta che l'autogestione, che io vedo come formula transitoria quanto rivoluzionaria. Transitoria, appunto verso un sistema globale e comunista, ma parlerei prima della coscienza comunista che del comunismo.

    Rivoluzionaria, perché dare le imprese ai loro legittimi proprietari è di per sé un cambio di rotta a 90°.

    Per cui, le delocalizzazioni non sarebbero più un problema, come non sarebbero un problema l'evasione e l'elusione fiscale, ivi inclusa la concorrenza sleale.

    Risolto tutto, o quasi. Bisogna soltanto convincere una 30-na di milioni di italiani. :D

    hasta siempre

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  5. Cara Olympe, due cose: "La ragione profonda, se ci vogliamo esprimere così, è la crisi che investe il processo di accumulazione capitalistico, laddove i capitali, piccoli e grandi, per sottrarsi alla morsa della caduta dei profitti e della perdita di quote di mercato a causa degli accordi internazionali sul commercio e della concorrenza dei cosiddetti BIRC, sono obbligati: 1) a trasferire la produzione nelle aree di maggior sfruttamento della forza-lavoro; 2) a cercare, lasciando la produzione, la scorciatoia della speculazione finanziaria, fenomeno non nuovo ma diventato esorbitante",
    1)forse voleva dire BRIC e non BIRC; 2)quali sono questi "accordi internazionali sul commercio? e se non sono i paesi del BRIC, mi faccia sapere quali paesi sono.

    Infinitamente grato.

    Luigi

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  6. http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Mondiale_del_Commercio

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