giovedì 29 dicembre 2011

Non solo debito pubblico


Scrive Domenico Moro su il manifesto di ieri:

Banche, speculazione finanziaria e modalità di funzionamento del sistema euro hanno un ruolo importante nella crisi del debito. Ma non sono queste "le cause" della crisi. Il tentativo di superare la caduta generale del saggio di profitto, ripresentatasi alla metà degli anni '70, ha impresso un impulso fortissimo alla transnazionalizzazione delle imprese, che ha però prodotto una contraddizione tra capitale e Stato-nazione. La crisi del debito pubblico, il conflitto tra la Ue e i singoli stati, nonché la nomina di governi "tecnici", come quello di Monti, ne sono oggi la manifestazione matura.

Su questo mi pare di aver scritto a mia volta fino alla nausea. Ma Moro offre anche una serie di dati:

Se l'Italia non cresce, infatti, è per la riduzione della base produttiva manifatturiera e il minore incremento della produttività. Due fenomeni che derivano in buona parte dalla distrazione di capitali dalla produzione domestica, cioè dalla contrazione degli investimenti.
Dove sono andati questi capitali? In primo luogo all'estero, come delocalizzazioni, acquisizioni, joint-venture. Lo stock italiano degli Investimenti destinati all'estero (Ide) è aumentato dai 60,2 miliardi di dollari del 1990 ai 578,2 del 2009. Molto più delle esportazioni di merci, passate dal 19,1% al 29,1% del Pil. Gli Ide italiani in uscita tra 2000 e 2009 sono cresciuti più della media Ue (+221% contro +149%), rimanendo molto inferiori rispetto a quelli in entrata (nel 2009 appena 400 miliardi di dollari). Dunque, le uscite di risparmio italiano non sono compensate da entrate di capitali produttivi esteri.

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Dal punto di vista teorico il neoliberalismo si presenta come una congerie di coglionerie già ampiamente propagandate da secoli; dal punto di vista pratico esso si concretizza in una serie di atti e comportamenti semplicemente criminali, cioè volti a destabilizzare le basi stesse della convivenza civile e della sicurezza sociale.

A me piacciono gli esempi concreti. Quando una florida multinazionale svedese (e già questo …) sposta dall’Italia, dal Veneto, i propri macchinari e investimenti in Cina e in rep. Ceca solo allo scopo di sfruttare la manodopera più a buon mercato, per poi reimportare in Italia e in Europa il prodotto (allo stesso prezzo e di qualità peraltro inferiore!), si dovrebbe capire bene che tale fatto crea solo devastazione. La stessa cosa riguarda un’altra azienda che fa lavorare solo per una parte dell’anno i propri dipendenti e per mesi, sistematicamente, li colloca in cassa integrazione (a spese nostre, cara Fornero) perché può sfruttare gli stabilimenti che possiede in Ungheria. Il neoliberalismo, come si vede, ha senz’altro il merito di favorire i capitali, ma ha distrutto economie nazionali e continentali senza peraltro inibire il monopolio e i cartelli.

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A riguardo della sicurezza sociale rilevo che lo scopo non è quello di rinunciare in suo nome alla libertà, bensì e viceversa di rappresentare il primo pilastro su cui solo può poggiare la libertà e la democrazia effettiva. Senza l’affermazione fattuale del diritto al lavoro e alle sue tutele, quindi il diritto concreto allo sciopero, così come l’accesso gratuito all’istruzione e all’assistenza sanitaria, l’abitazione e il sostegno previdenziale, la libertà diventa solo una lotta di competizione tra belve. E, soprattutto, è assolutamente falso che non si possa sostenere economicamente un sistema sociale avanzato degno di questo nome. Certo, un sistema che investe massicciamente in armamenti presuppone già per questo una gerarchia autoritaria. Un regime sociale che privilegi l’arricchimento ad libitum dei singoli e l’anarchia di mercato, presuppone una gerarchia classista e disequilibri esiziali, come possiamo ben constatare. Ecco perché il comunismo, cioè il movimento che cambia lo stato di cose presenti, è l’alternativa non solo possibile ma necessaria per far fronte alla barbarie che a grandi passi nuovamente avanza.

3 commenti:

  1. Fammi capire: il processo di delocalizzazione della manifattura dell'industria italiana all'estero, ch'è giunto - credo - a un livello pienamente "maturo" (per usare un eufemismo), potrebbe essere, non dico invertito (nel senso di far tornare le fabbriche in Italia), ma almeno tamponato dallo Stato? Dico questo perché, appunto, il processo sia giunto a un punto tale che tornare indietro la vedo dura. Per es. cazzo gliene frega ai Benetton ormai di ritornare in Italia? In Italia gli basta possedere le autostrade comprate coi golfini made in Bangladesh e i fottuti prestiti concessi dalle banche...

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  2. infatti oggi siamo giunti al punto in cui non è più possibile risolvere nessun problema senza risolverli tutti

    ad ogni buon conto la multinazionale svedese alla quale faccio riferimento, ha ricevuto cospicui finanziamenti regionali per insediarsi. quale disincentivo ad andarsene sarebbe se non altro valida una clausola di restituzione degli incentivi. è quanto stanno "pensando" in regione.

    no, il sistema non è riformabile così com'è, il punto è che noi paghiamo la crisi dovuta all'opera criminale dei "liberalizzatori"

    e a spegnere l'incedio sono chiamati i piromani

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  3. Ingenuamente credevo che le uniche aziende a non poter delocalizzare fossero le agricole con produzione di qualità. Errore: sui banchi Esselunga è apparso il primo olio Monini, oggi spagnolo, prodotto in Australia. L'azienda ha trasferito, cinque anni fa, le piante agli antipodi. Il prezzo è degno del trapianto miracoloso: euro 5,49 al litro.
    Conscrit

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