lunedì 12 dicembre 2011

Inchiesta nel tempio dell’euro

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Indipendente da ogni decisione democratica, la Banca centrale europea doveva incarnare la stabilità monetaria. Invece ha portato l’eurozona quasi ad esplodere. Eppure la crisi ha tanto rafforzato il suo potere da far sembrare a volte che la sorte dei lavoratori del Vecchio continente si giochi a Francoforte.

di ANTOINE DUMINI e FRANÇOIS RUFFIN * (Le Monde diplomatique - il manifesto, nov. 2011)

Al primo piano della Banca centrale, durante la sua ultima conferenza stampa a Francoforte, Jean-Claude Trichet intona – in inglese – il suo ritornello sulle «riforme strutturali». Probabilmente è in grado di recitarlo a memoria: già otto anni fa, al momento del suo primo intervento mediatico da presidente della Bce, perorava la causa delle «riforme strutturali del mercato del lavoro». Ed è una solfa che non ha (quasi) niente di personale. Il suo predecessore, Wim Duisenberg, già la cantilenava ogni mese. E ciò fin dal varo dell’euro... Ma questo giovedì 8 settembre 2011, il ritornello si fa più puntuale, nonostante il linguaggio astruso: «Dobbiamo andare verso l’eliminazione delle clausole d’indicizzazione automatica dei salari e un rafforzamento degli accordi impresa per impresa, in modo che i salari e le condizioni di lavoro possano adattarsi ai bisogni specifici delle aziende. Queste misure devono accompagnarsi a delle riforme strutturali, in particolare nel comparto dei servizi – tra cui la liberalizzazione delle professioni regolamentate -, e, quando è opportuno, alla privatizzazione dei servizi forniti oggi dal settore pubblico, così da facilitare gli aumenti di produttività e incoraggiare la competitività.»
«Sembra di stare al Politburo dell’Unione sovietica qualche mese prima della sua caduta, mormora il deputato europeo dei Verdi Pascal Canfin, presente nella platea dell’uditorio. È la ripetizione del solito discorso, del solito gergo fuori della realtà.» Continua il vicepresidente della commissione speciale sulla crisi finanziaria al parlamento di Strasburgo: «Si tratta di un progetto ideologico, senza alcun nesso con le cause della crisi. Non vedo in che modo flessibilizzare il mercato del lavoro, svendere i servizi pubblici o far prevalere gli accordi aziendali sul diritto del lavoro potrebbe costituire una risposta alla deregolamentazione finanziaria. I dirigenti della Bce sciorinano il programma del Fondo monetario internazionale (Fmi), con i suoi piani di aggiustamento strutturale, che hanno ampiamente fallito. Ma che importa, ci si riprova.»
Gli eterni discorsi... Niente di nuovo, quindi, sotto il sole di Francoforte? Sì. Ma non nelle parole, nei fatti. Perché la Bce dispone ormai dei mezzi per trasformare le proprie idee in realtà, ben oltre l’ambito della sola politica monetaria. I suoi esperti – insieme agli altri missionari della beneamata «troika», quelli dell’Fmi e della Commissione europea – s’impongono come governi bis ad Atene, Dublino e Lisbona. Li mettono sotto tutela ed enunciano i loro «quindici comandamenti»: estendere la cassa integrazione, ridurre le pensioni agricole, diminuire le spese pubbliche, ecc. Fino alla lettera, indirizzata da Trichet e dal suo successore Mario Draghi a Silvio Berlusconi, nella quale, secondo Le Figaro, «la Bce chiede di rendere più flessibili le procedure di licenziamento» ma anche «di privilegiare gli accordi interni alle aziende rispetto ai contratti di settore stipulati a livello nazionale», di «privatizzare le società municipalizzate (trasporti pubblici, rete stradale, fornitura di elettricità).» E tanto per evidenziare le loro preoccupazioni di ordine democratico, i due banchieri centrali raccomandavano «di procedere per decreto, con applicazione immediata, piuttosto che con disegno di legge, che il parlamento impiega sempre tempo ad approvare».
«La Bce mette de facto sotto tutela l’Italia», titolava il quotidiano francese – mentre l’ex commissario europeo Mario Monti denunciava un «podestà straniero» (1). Qui non si tratta più di «consigli», pure insistenti, né di un semplice «messaggio» – come pretendono i dirigenti della Banca, nella loro qualità di professionisti dell’eufemismo. Ma possiamo per questo parlare d’«ordini» o di «diktat»? Più precisamente, sono delle condizioni. «Fino ad ora, la Bce non aveva alcun potere per pesare sul serio, è l’analisi del ricercatore di scienze politiche Clément Fontan. In linea di massima la banca parlava, i dirigenti politici ascoltavano con orecchio più o meno distratto, dicendosi: “Va bene, è normale, è la Bce, sono dei conservatori, li ascoltiamo per fargli piacere.” Poi arriva la crisi e alcuni paesi dell’eurozona vengono attaccati dai mercati finanziari. All’inizio la Bce rifiuta di aiutarli, strutturata com’è sul suo dogma dell’indipendenza e del non intervento. Dinanzi però alla pressione dei governi e delle banche, e nel panico generalizzato dei mercati, alla fine cede», vedendosi dunque costretta a riacquistare i buoni del tesoro degli stati in difficoltà. Ma impone le sue condizioni: i paesi coinvolti saranno obbligati ad applicare quelle «riforme strutturali» che la Bce ha sempre caldeggiato.
«Ci troviamo in uno schema del tipo Argentina-Fmi alla fine degli anni ‘90, in cui il finanziatore esercita una forte pressione sul debitore per assicurarsi che applichi quelle riforme ritenute “buone e necessarie”. In fin dei conti, conclude Fontan, la crisi è stata una finestra d’opportunità per la Bce.» «Finestra d’opportunità» è un’espressione che ricorre tra gli osservatori della banca centrale. Trichet è per tutti, anche i più critici, «un gran politico». Del resto, perfino i suoi oppositori lo designano come «l’unico vero dirigente europeo», e lui ha saputo cogliere questa «opportunità» e intrufolarsi in questa «finestra» aperta dalla storia, per estendere il suo potere personale e quello della sua istituzione.


Quando Trichet fa tintinnare la sua campanella. Ecco che aspettiamo il gran sovrintendente delle finanze in cima al palazzo dell’Eurotower, con vista panoramica sugli edifici attorno – la Commerzbank tower, la Dresdner bank tower, le torri gemelle della Deutsche bank –, nella capitale del capitale tedesco, la «città delle banche», chiamata anche «Bankfurt». Dove la Bce non si è certo installata per caso. E’ qui che, dietro a questa tavola rotonda, in questa sala del trentaseiesimo piano, i diciassette governatori delle banche centrali nazionali – francese, tedesca, slovacca, ecc. - si sono riuniti stamattina e hanno deciso di «mantenere i tassi invariati.» Il presidente si siede sulla poltrona che ben presto abbandonerà. Come all’apertura di un consiglio fa tintinnare la campanella che gli sta davanti. «Lei ha appena tenuto una conferenza stampa in cui ha reclamato accordi azienda per azienda, la privatizzazione dei servizi pubblici, la flessibilità dei salari... E’ un vero programma di governo!, gli facciamo notare, Per caso è candidato alle elezioni presidenziali?». – No, no di certo, mormora Trichet. Si tratta solo degli strumenti che i miei colleghi ed io riteniamo importanti per crescere più velocemente in Europa e creare più posti di lavoro. – Eppure le “riforme strutturali” di cui si parla, ribattiamo, assomigliano ai piani di aggiustamento strutturale dell’Fmi negli anni ‘80: liberalizzazioni, deregolamentazioni... Programmi che non hanno funzionato né in America latina né in Africa. Perché dovrebbero funzionare ora in Grecia, Spagna, Italia e Francia?» Lungi dal respingere il parallelismo tra i due casi, il presidente offre un’argomentazione per lo meno inattesa: i programmi dell’Fmi avrebbero, al contrario, ben funzionato. «Quali sono – obietta Trichet –, i paesi che hanno significativamente resistito alla crisi? Sono gli stati emergenti, sono i paesi dell’America latina che, grazie alle riforme strutturali attuate, si sono trovati in una condizione di tenuta molto migliore. Siamo testimoni di un comportamento notevole anche da parte dell’Africa. Ci sono riforme che consentono alle forze produttive di liberarsi...».
Nemmeno l’economista Milton Friedman, prima della sua scomparsa, si azzardava più ad essere così diretto nelle sue stoccate. Nel 2003 infatti, a proposito della crisi argentina, il guru dei liberisti concedeva che «la responsabilità degli uomini del Fondo monetario è innegabile (2).» E se questo paese oggi se la cava meglio è proprio perché si è allontanato dalle raccomandazioni dell’Fmi (3). «Ma perché, domandiamo ancora a Trichet, non reclamate un innalzamento dell’imposta sulle società – che era del 50% negli anni ‘80, e il cui tasso è oggi del 33,3%, almeno sulla carta, dato che in realtà è solo del 7% per le imprese del Cac 40 [indice Borsa di Parigi]?» – Bisogna sempre guardare all’interesse superiore, risponde, un po’ infastidito dalla nostra ingenuità. Se in Francia si avesse una tassazione delle attività più elevata, che succederebbe? Gli investimenti andrebbero all’estero e non ci sarebbe più lavoro. La giustizia sociale è essenziale, ma non è tassando le società più che negli altri paesi, più che nei paesi emergenti, che avremo più posti di lavoro in Francia.» E lui non ci può fare niente se – per un caso fortunato – questo «interesse superiore» coincide con quello delle classi dominanti...
Così come è in nome del semplice buon senso che Trichet ha detto con indignazione su Europe 1 lo scorso 20 febbraio: «Aumentare i salari in Europa sarebbe l’ultima delle bestialità da fare» –, mentre il contemporaneo aumento del 13% dei dividendi, capaci di superare i 40 milioni di euro, non suscitava in lui alcuna giusta collera. È senz’altro in virtù di un’attenzione per l’equità che, nel 2006, Trichet ha difeso il contratto di primo impiego (Cpe) del governo Villepin (4) – e che si è fatto dappertutto in Europa cantore della «flessibilità del mercato del lavoro» –, ritenendo allo stesso tempo «normale» che negli extra dividendi fosse inclusa una parte variabile «più rilevante allorquando si esercitino delle professioni così tremendamente precarie» (ah! la terribile «precarietà» dei traders!). È il suo senso della giustizia sociale che lo spingeva a sostenere l’innalzamento dell’età pensionabile stabilita in Francia, Irlanda, Portogallo, ecc – mentre non considera «auspicabile» una tassa sulle transazioni finanziarie. Trichet lamenta che questa serie di paragoni ricadano in uno «schema interamente politico». Il nostro dirigente protesta: «Non sono un uomo politico», e rivendica l’«apoliticità» della Bce, istituzione posta al servizio di «diciassette governi e di trecentotrentadue milioni di cittadini, di tutte le sensibilità.» D’altronde, insiste, «non mi aspetto di essere interpellato su delle questioni politiche.»
Se Trichet fosse rimasto consigliere dell’Eliseo, dopo esserlo stato con Valéry Giscard d’Estaing (nel 1978), o direttore di gabinetto al ministero dell’economia e delle privatizzazioni, incarico a cui lo aveva designato Edouard Balladur (nel 1986), lo potremmo facilmente classificare a destra. Ma, nobilitato in ragione della sua «indipendenza», e capace di ammantare di un valore «scientifico» i propri verdetti, il discorso della Bce sfugge il più delle volte alla critica pubblica. Fino alla manifestazione internazionale contro il potere della finanza il 15 ottobre scorso, che ha visto il movimento Occupy Frankfurt radunare davanti all’Eurotower migliaia di dimostranti, ben pochi cortei avevano sfilato sotto le finestre del numero 29 di Kaiserstrasse. Come spiega il sociologo Fréderic Lebaron, «la Bce ha costruito la propria invisibilità, piazzandosi in un ruolo tecnico al di sopra dei partiti e degli stati (5).» E la sua lontananza geografica, l’apparente – e voluta – complessità delle materie di cui si occupa la mettono al riparo dal giudizio dei cittadini. È così: gli orientamenti monetari – un euro forte, la lotta all’inflazione – non appartengono già più alla sfera di pertinenza della politica. Adesso ecco che, a loro volta, le decisioni su bilancio, fiscalità e sociale raggiungono la moneta nelle mani dei tecnici, soprattutto a Francoforte, che poi assumono tali risoluzioni giustamente rassicurandoci sul fatto che «non abbiamo scelta».
Eppure, Trichet deve affrontare un’«opposizione», che non viene dai lavoratori ma dall’interno della finanza. Assiepati davanti a lui, i giornalisti economici indossano la stessa divisa dei traders, e non infastidiscono nessuno con il tasso di disoccupazione in Portogallo, i farmaci contro il diabete che non saranno più rimborsati in Grecia o le pensioni che scendono in Irlanda, ecc. No, la domanda che fa arrabbiare il presidente è l’inviato del giornale economico tedesco Börsen- Zeitung a porla, l’8 settembre: con l’acquisto delle obbligazioni degli stati in difficoltà, la Bce non sta sostituendo il proprio statuto di «àncora di salvezza» con quello di bad bank? Il giorno dopo questo scambio, il tedesco Jürgen Stark, economista capo della Bce e capofila degli ortodossi, annunciava le sue dimissioni dal comitato esecutivo. A febbraio scorso, Axel Weber aveva dichiarato che lasciava il suo posto di presidente della Bundesbank (Banca centrale tedesca), e quindi il suo seggio nel consiglio dei governatori della Bce, per manifestare il proprio dissenso sulla strategia – ritenuta lassista – dell’istituzione di Francoforte. Si era rifiutato anche di succedere a Trichet, il cui mandato sarebbe giunto a scadenza il 31 ottobre. Per ridicolo che possa sembrare, si è così arrivati a rimproverare al presidente della Banca centrale europea la sua mancanza... di ortodossia!
Tanto credito da saziare le banche. La scansione di un badge ed ecco che, davanti a noi, al primo piano dell’Eurotower, si apre la sala dei mercati. Niente di lussuoso, solo una semplice piattaforma con un centinaio di computer. Dietro le tastiere, uomini in completo e donne in tailleur. Un monitor su cui scorrono le quotazioni dei titoli in borsa. Paul Mercier, consigliere principale alle operazioni di mercato, spiega che è qui che vengono «organizzate le concessioni creditizie in favore delle banche commerciali.» In parole povere, è qui che in Europa viene emessa la moneta. «Ogni martedì si verifica una grossa aggiudicazione di credito. Il board (consiglio dei governatori) decide quanto immettere nel mercato». «Anche se... Nelle attuali circostanze, precisa il responsabile, abbiamo deciso di permettere alle banche di determinare da sé quanto prendere a prestito. Si tratta di misure un po’ speciali che abbiamo dovuto adottare a causa della crisi finanziaria.» Rincara la dose Ivan Fréchard, esperto di mercati di cambio, «in questo momento, la faccenda è abbastanza semplice: riforniamo le banche di tutta la liquidità che ci domandano. È la politica del full allotment». Full allotment? Potremmo tradurlo con «fino a sazietà». Perché, se agli stati i crediti vengono concessi solo sotto precise condizioni – e le più dure –, per quel che riguarda le banche invece, affluiscono in regime fai da te. Trichet e Draghi non hanno indirizzato alcuna lettera ai capi di Société Générale, Hsbc o Bnp Paribas che esigesse, dal momento che la Bce accorre in loro soccorso, il ritiro dei loro istituti dai paradisi fiscali, la fine della speculazione sui debiti sovrani o il finanziamento dell’economia reale. Nessun «uomo in nero» della Bce ha fatto irruzione nella sede del Crédit agricole o della Commerzbank per spulciare i loro conti – con lo stesso fervore con cui sono stati esaminati quelli del ministero della salute ad Atene – e proferire con la stessa arroganza qualche ingiunzione.
Seduto su di una panchina davanti l’«euroboutique» – che vende fazzoletti, ombrelli, tazze, cioccolatini, ecc. – il deputato Canfin sintetizza: «Per salvare il sistema, la Bce ha aperto il rubinetto della liquidità. Il problema però è che il tubo è forato: il denaro che sgorga da qui non giunge all’economia reale. Perché in mezzo ci sono le banche commerciali, che, ancora oggi, preferiscono la speculazione all’investimento. Il ruolo della Bce è di far sì che l’acqua fluisca nella giusta direzione – ma, dopo due anni, non hanno preso ancora alcuna misura in tal senso». Questa posizione preconcetta della Banca centrale europea, il deputato Miguel Portas (Sinistra unitaria europea, Gue) può osservarla dalla prima linea. «Al Portogallo è stato imposto un piano di salvataggio. Ma su 78 miliardi di euro prestati dalla Bce, 54 vanno direttamente ai creditori. Ci hanno detto: “La priorità va accordata alle banche che detengono i debiti sovrani.” E per finanziare questa operazione si taglia sui salari – quando il minimo salariale nel nostro paese ammonta a 485 euro –, sulle pensioni – quando il minimo pensionistico non supera i 300 euro. Sono stati aumentati rispettivamente del 17, 18 e 20% i prezzi di acqua, gas ed elettricità. L’Iva (imposta sul valore aggiunto) tocca oggi il 23%. E tutto ciò mentre viene completamente salvaguardato il gran capitale, in nome dell’esigenza di attirare investimenti».
[…] Nell’ambito della propria comunicazione, la Banca centrale europea non smette di ostentare la sua «indipendenza», richiamando spesso e volentieri l’articolo 107 del Trattato di Maastricht: «Né la Bce né una Banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai Governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo». Nei confronti del potere politico quindi, un’indipendenza totale. Il nuovo presidente della Bce, Mario Draghi, non dovrà spaventare il potere finanziario più di quanto non abbia fatto Trichet: del resto, è stato vicepresidente della filiale europea di Goldman Sachs, incaricato in particolare della questione dei debiti sovrani al momento in cui la banca d’affari truccava i conti della Grecia. Otmar Issing, economista capo della Bce dal 1998 al 2006 e padre spirituale dell’euro, ha fatto il percorso inverso, diventando consulente internazionale di Goldman Sachs. Anche Weber, ex presidente della Bundesbank e rappresentate della Germania nel consiglio dei governatori della Bce, ha fatto la sua scelta. Piuttosto che tornare all’università, ha accettato, per 1,7 milioni di euro più stock options, la vicepresidenza della banca svizzera Ubs – sospettata di favorire le evasioni fiscali. Per contro, nessuno di questi custodi del tempio dell’euro ha per il momento deciso di unirsi a un sindacato francese, tedesco o italiano. L’«indipendenza» è salva.


Note:
* Giornalisti.
(1) Richard Heuzé, «La Bce met de facto l’Italie sous tutelle», Le Figaro, Parigi, 8 agosto 2011.
(2) «Le triomphe du libéralisme», Politique internationale, n.° 100, Parigi, estate 2003.
(3) Si legga Cécile Raimbeau, «Argentina, i “piqueteros” perdono la pazienza», Le Monde Diplomatique/il manifesto, ottobre 2011.
(4) Messo a punto nel marzo 2006 nel quadro della legge per le pari opportunità, e soppresso il mese dopo a seguito di una vasta mobilitazione sociale, il contratto di primo impiego prevedeva per i giovani sotto i 26 anni la possibilità di licenziamento senza giusta causa, per un periodo di due anni.
(5) Frédéric Lebaron, Ordre monetaire ou chaos social? La Bce et la révolution néolibérale, Editions du Croquant, coll. «Savoir-Agir», Bellecombe-en-Banges, 2006. (Traduzione di Fran. Bra.)

2 commenti:

  1. Se le banche possono avere tutta la liquidità che vogliono (ad un tasso dell'1% credo più o meno), e, se, con gran parte di questa liquidità, comprano bot, bund,gilt etc che hanno rendimenti assai maggiori, chi è che finanzia chi?

    Sono le banche che finanziano il debito pubblico o la BCE che finanzia le banche che poi lucrano sul debito pubblico?

    Quanto si risparmierebbe se fosse la BCE a finanziare il debito pubblico agli stessi tassi praticati alle banche?

    Eresia contro il liberismo?
    Ma qualsiasi ragioniere che non conosce le altissime teorie saprebbe vedere l'ingente risparmio dei cittadini.

    O mi sbaglio?

    gianni

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  2. è una soddisfazione leggere il tuo commento

    in fondo si tratta di rilevare un fatto evidente, così evidente che viene offuscato dal chiacchiericcio su fatti di mero contorno

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