domenica 4 dicembre 2011

Il vincolo


Prendo spunto da un articolo de Il Sole 24ore, segnalatomi gentilmente da un amico del blog, per dire due cosette senza far venire il mal di testa a chi leggesse tutto il papiro. Si tratta di bagatelle assai primitive, ma spero che possano servire ugualmente quale spunto per una riflessione e un approfondimento (anche in Rete penso si trovino cose decisamente più organiche e migliori).

L’articolo del 24ore dice che la Federal Reserve, la banca centrale Usa, ha alimentato di dollari il sistema finanziario americano in modo così vantaggioso e in dimensione tali che nessuno aveva osato nemmeno lontanamente immaginare. Qual è dunque – si chiede il giornale – il conto reale della disinvoltura dei banchieri americani che hanno speculato sulla bolla dei mutui subprime e derivati? Si tratta di ben 7.700 miliardi di dollari di liquidità immessi sul mercato bancario a tassi vicino alla zero dalla Federal Reserve, pari alla metà del Pil americano che viaggia attorno ai 14mila miliardi di dollari (due volte e mezzo quello della Cina). Un regalo a Wall Street, soldi che hanno mascherato – continua l’articolo – in realtà un salvataggio alla greca ma molto più costoso, a carico degli ignari contribuenti americani e ha procurato agli istituti di credito americani plusvalenze extra per 13 miliardi di dollari.

I salariati americani hanno dunque salvato, a loro insaputa per quanto riguarda l’entità, il sistema truffaldino delle banche con esborsi colossali e su tali cifre di salvataggio le banche debitrici hanno pure fatto la “scarpetta” per 13 miliardi. Se un popolo non fosse stato ridotto all’idiozia dalla propaganda, questo solo fatto dovrebbe muovere una vera rivoluzione, tanto più in un paese laddove le armi da fuoco non sono un problema. Ma tant’è.

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Il disastro finanziario è solo uno degli aspetti, anche se il più macroscopico, a cui ci ha condotto il neoliberismo. Ma attenzione e non confondere la causa con gli effetti. La causa fondamentale delle crisi è sempre e comunque il modo di produzione capitalistico, non le correnti ideologiche e dottrine accademiche che lo sostengono (e partecipano attivamente alla propaganda sulle misure di rigore, equità e stupidità). Ed infatti, non solo il neoliberalismo ma anche il keynesismo sono ricette volte a superare le crisi, a mettere in qualche modo il sistema in equilibrio oppure a lasciarlo a se stesso nella convinzione che l’equilibrio possa trovarlo per suo conto.

Il keynesismo, posto, come detto, che il sistema capitalistico lasciato alla sua spontaneità non tende all’equilibrio a causa, a suo dire, della divaricazione tra la domanda e l’offerta, punta sugli investimenti e la spesa pubblica, sul sostegno della domanda, per superare le crisi del ciclo di accumulazione. Viceversa, la corrente del neoliberismo sostiene che la “politica economica” non può prevedere né evitare la crisi, ma anzi può solo favorire la nascita e lo sviluppo delle crisi, ostacolando l’adattamento dell’economia di mercato agli choc squilibranti (meno Stato e più mercato).

Secondo tale dottrina, per dirla in breve, la politica economica deve limitarsi al controllo della massa del denaro secondo una regola fissa che sfugge all’arbitrio delle decisioni politiche, occorre, cioè, semplicemente calcolare di volta in volta un tasso annuale adeguato della massa monetaria in rapporto al tasso medio di crescita del Pil, in modo che non vi siano fluttuazioni improvvise. Questa dottrina stabilisce che le crisi vanno superate dal lato dell’offerta di moneta e non da quello degli investimenti, come ritenevano i keynesiani, e punta nel riportare la spesa pubblica al 10-15 per cento del Pil, mentre ora è al disopra del 40% (cfr. intervista a Friedman del 2003 nel n. 100 della rivista Politique internationale).

Riportare quindi – osservo – la spesa pubblica ai livelli dell’Ottocento, dato che dal 1870 al 1913 il livello di spesa era mediamente al di sotto del 15 per cento del Pil (in particolare nel 1870 si osservano i valori del 13,7 per cento per l’Italia, 10,4 per cento per la media dei paese europei e l’11,5 per cento per la media dei paesi extraeuropei; nel 1913 17,5 per cento per l’Italia, 13,1 per cento per i paesi europei e il 10,8 per cento per i paesi extraeuropei). Riportare la spesa pubblica a quei livelli percentuali significa soprattutto dimenticare a cosa è servito l’intervento pubblico nella Grande Depressione. Tuttavia la crisi fiscale dello Stato e il debito pubblico dimostrano che la sola politica dell’intervento di spesa non è più praticabile. E allora che si fa?

Se la contraddizione fondamentale è nel modo di produzione capitalistico, è evidente che è lì che va cercata e trovata la risposta, non altrove. Sia Keynes e sia Friedman, data la loro posizione di classe, sono impossibilitati a cogliere la reale contraddizione e si rifugiano nel soggettivismo psicologico (vedi la cazzata della propensione al consumo) o nelle teorie neo-monetariste, quando le vere cause della crisi non risiedono nella sfera della circolazione, ma anzitutto nella sfera della produzione (ne ho scritto anche troppe volte).

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Anche le turbolenze dei mercati hanno anzitutto origine nella contraddizione fondamentale nel modo di produzione capitalistico. Tuttavia nella loro dinamica esse assumono però e inevitabilmente la fisionomia di turbolenze di natura monetaria. Provo a dare un cenno, come posso, della questione monetaria, la quale, non sarà mai ribadito abbastanza, non è la causa fondamentale delle crisi.

Con la fine della circolazione metallica si è avuta la smaterializzazione della moneta, ossia questa non fu più vincolata al valore intrinseco del metallo di conio. Bisogna tener presente che fino ad allora il valore della moneta era definito dal suo peso in oro (o argento), ossia in rapporto alla quantità di metallo di cui era costituita. I metalli non sono altro che merci, ed è per certe loro caratteristiche fisiche (cioè pratiche) che sono diventati monete. Essendo i metalli una merce, abbiamo quindi una merce (oro e/o argento) che funge da punto di riferimento, unità di misura universale (*).

Dalla qualità della moneta di essere l’equivalente universale deriva un vincolo monetario fondamentale, e cioè che i crediti espressi in moneta ritrovino sempre il loro valore. Tale vincolo permetteva che il tasso di cambio fra le monete delle diverse nazioni rimanesse più o meno stabile poiché poteva variare solo entro una parità fissa che garantiva sia la stabilità stessa dei cambi sia l’equilibrio continuo degli scambi internazionali. In realtà questo vincolo – che chiamiamo cambio aureo (gold standard) – non esiste più dagli anni Trenta per una serie di circostanze che ci porterebbe lontani con il discorso.

Esso fu sostituito dal sistema di cambio aureo (gold exchange standard) in cui il prezzo dell’oro veniva fissato a 35 dollari l’oncia e il dollaro diventava moneta di riferimento internazionale convertibile in oro (**). In realtà, succedeva soprattutto che le banche centrali accumulavano dollari (i famosi eurodollari e petrodollari) senza chiederne la conversione. In tal modo il prezzo dell’oro era tenuto basso artificialmente, almeno fino agli anni 1960, quando si ricominciò a contrattarlo in base al prezzo determinato dalla domanda e dall’offerta, e con ciò il sistema di cambio aureo era, di fatto, saltato (se posso comprare dollari, convertirli in oro a 35 all’oncia e poi rivendere il metallo a un prezzo più alto, il sistema salta).

Sennonché, nel 1971, gli Usa decidono che il dollaro (moneta di riferimento mondiale) non è più convertibile in oro. Il motivo della decisione, molto in sintesi, era dovuto al fatto che il saldo tra importazioni ed esportazioni, largamente attivo dalla fine del XIX sec., era diventato passivo, anche a causa dell’aumentata concorrenza di Germania e Giappone sul mercato mondiale. Questo fatto era aggravato dall’enorme spesa pubblica resa necessaria dalla politica imperialistica americana. Poi c’entrano anche altri motivi molto più sofisticati (***). È evidente che tale decisione di cassare la convertibilità del dollaro produsse effetti decisivi su tutto il sistema dei cambi, ma anche dei prezzi (petrolio), dei salari, ecc., ma venne ad assumere una valenza ancor più decisiva e drammatica perché creava la base, la possibilità, di un’espansione creditizia senza precedenti, all’origine di quella cascata di carta che infine ci sta soffocando.

Ciò che però mi preme porre in evidenza, scontando la sommarietà e le lacune della mia esposizione, non sono tanto le contraddizioni del sistema di circolazione monetario capitalistico, quanto il fatto che la smaterializzazione della moneta dal suo sottostante metallico, l’apparente scomparsa della moneta-merce, sembra sopprimere il vincolo che essa ha necessariamente con i valori reali e quindi con la sfera della produzione materiale e i relativi rapporti sociali, mentre in realtà non fa che rivestire tale vincolo di nuove forme, la cosiddetta politica monetaria degli Stati e delle grandi istituzioni preposte, nonché di un florilegio ideologico che conferisce a tale politica e alle questioni monetarie un’aura di mistero per la quasi totalità dei comuni mortali.

(*) Fatto non trascurabile, essendo il valore di ogni merce determinato dalla quantità di tempo di lavoro medio necessario per produrla, allo stesso modo il valore di un qualsiasi metallo segue la stessa legge. Cosa singolare e che meriterebbe maggior spazio, è che soprattutto nella merce assunta come misura universale del valore, sembra scomparire qualsiasi rapporto con la produzione e anzi il suo valore appare dominato dal gioco della domanda e dell’offerta. Quando poi la moneta si smaterializza, tale apparenza diventa assoluta e dominante.

(**) Dal 1944 il dollaro fu in effetti la moneta di riferimento di tutte le altre e l’unica convertibile direttamente in oro.

(**) Vedi, per es., Jacques Rueff, L’errore monetario dell’Occidente, Etas Kompass, 1971, impreziosito dell’introduzione di Eugenio Scalfari. Sempre lui.

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