sabato 15 ottobre 2011

L'incendio


Il proletariato, sia esso dei paesi dove ha raggiunto un certo benessere e un instabile welfare così come quello delle aree economiche laddove il capitale dispiega tutto il suo candido sadismo, ha subito una sconfitta nel Novecento che perdura e del cui esito siamo testimoni. Non mi riferisco alla caduta dell’Urss, la quale ha rappresentato l’atto finale di un fallimento che era già chiaro nelle sue premesse (un’esperienza che comunque va colta nei suoi molteplici aspetti), ma alla crisi di un progetto, quello socialista, comunista e libertario che nei due secoli che ci precedono, sia pure spesso confusamente e contraddittoriamente, aveva nutrito le speranze delle masse sfruttate di ogni continente. C’era la certezza che si fosse ad un passo dal trasformare l’utopia in concreta realtà storica e sociale.

Arrivò il momento del riflusso, del ritorno al privato, del ripiegamento nel guscio tranquillizzante della famiglia, dei telefilm ambientati nelle ville patrizie del Texsas, insomma la regia di quello che appare un nuovo ciclo narrativo che riassume tutti i temi cari alle lusinghe del liberalismo furoreggiante fino agli anni Venti e che tornava a declamare appassionatamente le virtù taumaturgiche del capitale privato, chiamato “mercato”, della diceria sulla concorrenza efficiente e altri bluff. Sono bastati pochi lustri perché qualsiasi persona degna di stima possa ammettere il fallimento che l’albagia borghese chiama default.

E ora cosa si fa, fermo restando che permane la situazione di un’effettiva schiavitù sociale in un quadro di ancora relativa e formale libertà politica? Si torna alla vecchia liturgia socialcomunista, alla vulgata (sottolineo) di un marxismo-leninismo screditato e buono semmai per un putsch di palazzo? Ci accontentiamo di un riformismo esangue e messo nell’angolo dalla crisi, oppure puntiamo a un rivoluzionamento sociale anticapitalistico che però attualmente non è visibile all’orizzonte? Soprattutto quando non riusciamo nemmeno a mettere in causa la questione sociale della crisi, di organizzare e radicalizzare i movimenti e le lotte, dopo la scomparsa della sinistra (se non altro come grande movimento di contestazione e rottura) e dimessi in piccoli gruppi a computare sulle dita il numero di voti, bisticciando e irretiti da personaggi di cortile che a sinistra hanno solo l’orecchino!

Ci interroghiamo sul che fare, ma è almeno dal 1970 che ci facciamo almeno due volte al giorno ‘sta domanda. Ora qualcuno ci dice che bisogna puntare sulle nuove figure del sociale (che però nella loro natura sono vecchie come il cucco, a parte gli immigrati qui da noi) sulle indeterminate “moltitudini”. Dobbiamo prendere atto della realtà e, pur senza abiurare la critica marxiana e ridurci a pensare che il capitalismo è per sempre, avere grande attenzione per le tendenze, perché siamo in avviso di un grande incendio, di una nuova deriva populista e fascista i cui focolai sono ben visibili da tempo e alla quale le marcette di poche migliaia di volenterosi fanno il solletico.

10 commenti:

  1. A proposito di solletico, c'è un fantastico articolo sul NYT di ieri (ma è ancora online oggi) su cosa pensano davvero delle marcette i banchieri e i bancocrati.

    E il bello è che hanno ragione.

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  2. non l'ho trovato, me lo puoi lincare? grazie

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  3. Prego.

    http://www.nytimes.com/2011/10/15/business/in-private-conversation-wall-street-is-more-critical-of-protesters.html?ref=world

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  4. purtroppo non conosco l'inglese e ti sarei ulteriormente ed infinatamente grato di una eventuale traduzione ciao

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  5. intendo l'articolo del nytimes...

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  6. l'articolo del nyt richiamato in quale post? non in questo

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  7. post del 15 ott 2011 business/in-private-conversation-wall-street-is-more-critical-of-protesters- l'ho trovato ma è in inglese.

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  8. ah già, ti riferisce al commento, scusa non avevo più memoria del fatto, forse è demenza incipiente.in sostanza i banchieri e simili snobbano i manifestanti e dicono che alla prima neve si squaglieranno. nient'altro. ciao

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