giovedì 25 agosto 2011

Tigri di carta


Jackson Hole è la località del Wyoming dove si tiene da oggi l'incontro annuale di banchieri centrali ed economisti organizzato dalla Federal Reserve di Kansas City. C’è attesa per il discorso del presidente della Federal, Ben Bernanke, in programma per domani mattina e nel quale annuncerà un QE3 (un terzo quantitative easing), cioè un'ulteriore immissione di liquidità sul mercato attraverso l'acquisto di titoli del Governo americano. Tradotto in soldoni significa che la banca centrale americana farà stampare un’altra enorme massa di biglietti verdi, tra i 500 e i 600mld. Ovvio che il dollaro si deprezzerà, costringendo alla rivalutazione le monete rivali, a cominciare dallo yuan cinese. Anche il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Rick Perry, ha già avvertito il presidente della Fed che «stampare altra moneta in un momento come questo negli Stati Uniti, prima delle elezioni, equivarrebbe a un tradimento, la Banca centrale deve aprire i suoi libri contabili e agire con trasparenza». Ma non ha indicato altre vie praticabili per salvare il capitalismo americano dalla catastrofe.

I cinesi di questo indebolimento del dollaro non ne sono contenti, primo perché svaluta la sua montagna di credito, quindi perché ciò provoca inflazione e turbolenze sociali. Come ho già segnalato più volte siamo alla guerra delle valute, come negli anni Trenta. L’appello della Cina agli Stati Uniti per più severe misure di austerità volte a ridurre l'indebitamento, si scontra con le esigenze americane di far fronte alla stagnazione. Del resto Pechino non ha alternative se non acquistare più titoli negli Stati Uniti. Con il riciclo di dollari guadagnati dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, la Cina mantiene basso il cambio dello yuan o comunque cerca di non farlo salire troppo rapidamente e mantenere così la competitività delle sue esportazioni. Ciò che Pechino teme è soprattutto una nuova tornata di chiusura di fabbriche, come avvenuto al culmine della crisi finanziaria nel 2008-09, a cui sono seguiti dei disordini interni (di cui si è parlato poco). Anche per questo la scorsa settimana il vice presidente americano, Joe Biden, è stato in visita di quattro giorni in Cina per rassicurare il più grande creditore degli Stati Uniti che "il vostro denaro è al sicuro con noi".

La Cina non è assolutamente in grado di risollevare le sorti dell’economia mondiale e nemmeno di indirizzarla. Come ho scritto di recente, la Cina senza gli Usa (e l’Europa) in un anno ritornerebbe alla ciotola di riso e al libretto rosso. Nei giorni scorsi la Coca-Cola ha annunciato un ulteriore investimento in Cina di 4 miliardi di dollari a partire dal 2012. Caterpillar, il più grande produttore mondiale di macchinari pesanti, ha intenzione di espandersi in Cina, dove ha già 16 impianti. Apple, che ha superato Exxon Mobil ed è diventata la più grande società al mondo per capitalizzazione di mercato, tramite il gigantesco Foxconn sfrutta la manodopera cinese per sfornare iPhone e iPads con i quali ci gingilliamo.

Nonostante la Cina sia la prima potenza demografica e considerata la seconda economia del mondo, bisogna però considerare che nel 2010 ha generato un Prodotto interno lordo (5.900 miliardi di dollari) pari a circa un terzo del Pil dell'Unione europea (16.300 miliardi), mentre la sua popolazione (1.340 milioni di abitanti) è più di due volte e mezzo quella dell'Ue (502 milioni). Detta in altro modo: la Germania ha un Pil (3.300 miliardi) che è più della metà di quello cinese, con una popolazione 16 volte più piccola.

Anche considerando la questione dal lato più ampio, cioè nel quadro dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), si osserva che, pur messi insieme, hanno un Pil (12.500 miliardi di dollari) inferiore a quello degli Usa (14.700), pur avendo una popolazione complessiva 9 volte superiore. Non solo, ma Unione europea e Stati uniti messi insieme continuano a fare la metà del Pil di tutto il pianeta (31.000 miliardi su 62.900). E se a Europa e Usa si somma il Giappone (5.500 miliardi), allora questi tre poli fanno da soli il 60% del Pil globale.

Queste cifre offrono la dimensione attuale del capitalismo e i relativi rapporti di forza tra le diverse nazioni. Perciò, dal punto di vista dei capitalisti (non solo americani) è assai preoccupante sapere, per esempio, che l'indice della Fed di Filadelfia, il quale misura le condizioni del settore manifatturiero nel distretto orientale (circa 250 aziende) ad agosto è sprofondato a quota -30,7. È la performance peggiore dal marzo 2009, quando il Paese era in recessione. Inoltre, le grandi banche hanno rivisto al ribasso le stime di crescita per il 2011: JpMorgan prevede un aumento del Pil dell'1% nell'ultimo trimestre rispetto al 2,5% stimato, così come Goldman Sachs, che ipotizza un misero +1% nella seconda parte dell'anno, a fronte del 2% previsto.

Chiaro che gli Usa debbono fare qualcosa se si vuole tentare di uscire da questa situazione. Il presidente Obama lancerà un piano sull'occupazione dopo il 5 settembre e anche il New York Times, in un editoriale dei giorni scorsi, ha giudicato controproducente il rigore fiscale che infiamma i dirigenti politici europei e statunitensi definendo «punitive» le misure imposte ai paesi debitori. Come scrivevo in un post dell’altro giorno, se la Germania o la Cina vogliono esportare molto di più di quanto consumano, qualcuno deve scialare più di quanto riesca a produrre ed esportare. E può farlo solo a debito e con le conseguenze che vediamo.

2 commenti:

  1. hey !!
    Ben Bernanke alla fine il qe3 non l'ha poi micca fatto !!
    solo per dimostrarti che ti leggiamo e stiamo attenti.
    ciao

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  2. ah lo so che sei attento

    però ha detto che se è necessario lo farà

    lo farà

    CIAO

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