mercoledì 27 ottobre 2010

Poveri padroni



A sentire il dottor Sergio Marchionne, che a tempo perso guida maldestramente una Ferrari e siede nel board di Ubs, lui sarebbe un metalmeccanico, un fabbricante di auto, camion e trattori. Sostiene di lavorare diciotto ore al giorno a tale scopo. Ciò che invece egli forse non sospetta è il portato del suo ruolo effettivo, della sua figura di amministratore delegato di fabbrica, seppure di un’industria multinazionale. Egli rappresenta una realtà molto diversa da quella che gli suggerisce la sua falsa coscienza di schiavista, e cioè quella di un funzionario del capitale al quale interessa soprattutto un’efficiente gestione del tempo di lavoro (e di vita) di migliaia di operai costretti alla catena. Senza le condizioni per le quali il lavoro diventa una merce e fa dell’uomo la sua miglior conquista, la figura professionale di un Marchionne, così come il ruolo sociale dei suoi padroni, svanirebbe perché superflua, incongrua, patetica, esiziale. Egli s’illude su se stesso più di altri: non usa la frusta ma le armi dell’intimidazione e del licenziamento, letali contro chi ha la necessità di procurarsi sostentamento per sé e la propria famiglia.
I “suoi” lavoratori sono forzati dal bisogno, non dalla volontà di fabbricare merci mediocri destinate a precoce rottamazione per incrementare la valorizzazione del capitale. Sono costretti per almeno quarant’anni, cioè per tutto il periodo migliore della loro esistenza, a fare un lavoro che il dottor Marchionne non farebbe di sua sponte nemmeno per un’ora. Ed infatti cos’è una fabbrica, anche la più moderna, se non un’enorme colonia penale che cattura il tempo di vita di quei disgraziati che egli chiama “i nostri dipendenti”, soggetti a un lavoro ripetitivo e monotono, a mansioni rigide e controllate, di giorno e di notte? Quale attività può essere più oltraggiosa e contraria alla natura umana di quella espletata in codesto modo e allo scopo di far fare profitti e arricchire i padroni e i loro lacchè?
La diminuzione del lavoro umano doveva diventare una conquista dello sviluppo della scienza e della tecnica, riconosciuta un tempo da tutti come un traguardo. Invece, oggi, sotto il dominio di una cricca di avventurieri, tale prospettiva non solo è stata accantonata, ma è avvertita come una bestemmia, un reato contro la proprietà e il diritto di massimo sfruttamento. Infatti, di contro, si chiede, incutendo paura e minacciando catastrofi, di aumentare i ritmi e il tempo di lavoro (che chiamano produttività) per fabbricare le Panda inquinanti e le Ferrari a 300 all’ora, i gadget di plastica che adornano la nostra sopravvivenza e gli idoli che appagano gli sciocchi, la falsificazione degli alimenti, la TV e la tomba a rate, e la follia urbanistica come contenitore.
Marchionne, che non può concepire il lavoro senza obbligo e sanzione, si giustifica invocando la concorrenza internazionale, imperativo categorico pena la soccombenza a chissà quale destino di miseria. Questi tecnocrati, gonfi d’orgoglio, non meno che un’intera generazione di pensatori di “sinistra” innamorati dell'etica della competizione, hanno sempre pronta la scusa dell’ordine superiore e la salvaguardia del nostro “benessere”, in definitiva il mantenimento di un’organizzazione sociale autoritaria e demenziale, alla quale non sarebbe data alternativa. Come sono poveri questi padroni.

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